C'è da spostare una macchina

Spazio di discussione su questioni di carattere sintattico

Moderatore: Cruscanti

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andrea
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Iscritto in data: mar, 25 set 2007 18:57

C'è da spostare una macchina

Intervento di andrea »

Salve!

Sto discutendo con un amico su un paio di questioni sintattiche.
Forse qualcuno di voi potrà sciogliere il seguente dubbio:

"C'è da spostare una macchina"

Si tratta di un'unica frase con valore deontico oppure, quando la GGIC dice che "come soggetto, da+infinito si combina con i verbi esserci e venire", intende dire che "da spostare" è una frase soggettiva?

Altro dubbio:

"Il governo ha molti problemi, a cominciare dal debito pubblico"
"A partire dal prossimo inverno, aumenterà il costo della benzina"

"A cominciare da", "A partire da" sono ormai forme cristallizzate?
Altrimenti qual è il loro valore sintattico?
Io penso a un valore di maniera, il mio amico invece insiste per un valore limitativo.

Grazie.

Andrea
Avatara utente
Marco1971
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Iscritto in data: gio, 04 nov 2004 12:37

Intervento di Marco1971 »

Direi – sperando di non vagellare – che spostare la macchina, in quella frase, è una subordinata soggettiva. Ma nelle questioni di analisi sintattica ritengo sempre meglio attendere il parere del caro Ladim.

Per quanto riguarda la seconda domanda, a partire da e a cominciare da sono indubbiamente sintagmi cristallizzati, che introducono un complemento di tempo (mi pare) con valore decorrenziale. Ma sentiamo cosa ne pensano gli altri.

Intanto, benvenuto! :)
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Ladim
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Iscritto in data: lun, 08 nov 2004 14:36

Intervento di Ladim »

Nelle perifrasi verbali, il verbo di modo finito veicola le funzioni esattamente 'verbali' (tempo modo persona etc.), il verbo di modo infinito (che può essere accompagnato da una preposizione), il valore lessicale, 'semantico' dell'intero sintagma. L'unità del significato complessivo suggerirebbe poi l'ipotesi di una perifrasticità verbale etc.
Il costrutto 'essere'+da+'infinito' a me sembra abbastanza omogeneo proprio in funzione del suo significato modale (e cioè quello deontico): sicché propenderei per la perifrasi.

Per il secondo dubbio, sarei col Suo amico (questi costrutti, più e meno cristallizzati, circoscrivono l'ambito in cui è valido ciò che è espresso dalla reggente; in più, il costrutto implicito delle modali, di norma, è al gerundio): ma anche la temporalità può avere il suo peso (nella temporalità vi è comunque una nozione di 'limitazione').
Bue
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Iscritto in data: lun, 08 nov 2004 11:20

Intervento di Bue »

Ladim ha scritto:Per il secondo dubbio, sarei col Suo amico (questi costrutti, più e meno cristallizzati, circoscrivono l'ambito in cui è valido ciò che è espresso dalla reggente; in più, il costrutto implicito delle modali, di norma, è al gerundio): ma anche la temporalità può avere il suo peso (nella temporalità vi è comunque una nozione di 'limitazione').
Ecco, e qui ritorna il dubbio mio (che in origine solo mio non e`: ricordo di averlo visto espresso da altri piu`autorevoli): qual e` l'utilita` di dare un nome in questo caso al "valore sintattico" di queste espressioni (specie se sono cristallizzate)? Che cosa cambia se lo chiamiamo "di maniera" o "limitativo" o "circoscrittivo" o "dipartenzivo"?

(Questi dubbi non me li sarei posti molti anni fa e men che mai in epoca scolare, ma la "rivelazione" avuta diversi mesi fa frequentando questi fori, che l'analisi logica cosi` come e` concepita in Italia non e` che un residuo dell'esigenza di facilitare l'apprendimento del latino, mi ha colpito come se avessi dato una craniata su uno scoglio (ehm...*tosse*). Per questo ora mi vengono questi dubbi, non e` - come potrebbe sembrare - solo furore iconoclastico o orchioclastico)
Ladim
Interventi: 216
Iscritto in data: lun, 08 nov 2004 14:36

Intervento di Ladim »

È in questione, se vuole, la stessa visione del mondo, mio caro Bue. Dietro a un nome noi troviamo sempre un'interpretazione, e, di solito, l'interpretazione che proponiamo non è vera di per sé, ma lo è in funzione di uno specifico quadro assiologico. Senza scomodare esempi troppo impegnativi, la stessa sintassi muove da un discorso sulla lingua, e non dalla lingua stessa. Noi osserviamo un fenomeno e lo spieghiamo adoperando un linguaggio convenzionale, possibilmente condivisibile. Cambiare etichetta, in questo caso, vuol dire 'provare' il quadro assiologico, mettere alla prova le nostre categorie interpretative, in ultimo verificare il nostro modo di comprendere e controllare un determinato fenomeno.

L'interpretazione perifrastica del sintagma riportato qui sopra mette in moto, con ogni evidenza, un modo di pensare il linguaggio (e quindi il reale) un poco più sofisticato (anche solo perché coinvolge una 'nuova' classificazione morfologica del modo verbale); e cioè: la grammatica sta al passo col pensiero – se il pensiero è raffinato, lo sarà, si spera, anche la grammatica (come ogni altro ambito del sapere umano).

Comprendere la sintassi può avere, sì, il vantaggio di conoscere meglio il comportamento di un'altra lingua (come il latino – e storicamente le cose stanno proprio così: la grammatica è servita soprattutto all'apprendimento – i latini copiarono i greci, al riguardo, e gl'italiani i latini): ma, in realtà, è coinvolto un desiderio, un piacere, e forse anche una ragione di vita: se è possibile concettualizzare l'idea di limitazione, a noi può essere utile applicare tale concetto per guardare in trasparenza il linguaggio e vedere come possiamo, consapevolmente, interagire con esso – così comprendiamo anche come i Romani esprimono lo stesso concetto (salvo abbagli colossali come il mito del genitivo locativo): può essere ancora un buon motivo, quello di studiare una lingua per comprendere la bellezza di un popolo, di una letteratura.
Oggi la sintassi ci permette di studiare il pensiero così come si è determinato nella nostra storia e nel nostro uso: a questo proposito, più si conosce, meglio si usa la lingua, soprattutto dal punto di vista espressivo (la causa del calo produttivo della nostra lingua italiana, ad esempio, risiede anche in questo: nella scarsa capacità d'interagire con il nostro linguaggio in modo consapevole e costruttivo) – ma, sia chiaro, non è l'unica strada: la grammatica non è l'unico modo per comprendere il linguaggio: anche la poesia va benissimo; anche il desiderio di voler comprendere e ascoltare chi ci parla va altrettanto bene (cambiano i quadri assiologici: ma l'atteggiamento è lo stesso, quello di una passione, mi pare).

Non so se Le ho risposto: per chi studia la grammatica è di grande utilità riuscire a riconoscere (ovvero, ritenere di poter spiegare in modo ragionevole) la lingua nei suoi più disparati aspetti: il passo successivo sarebbe di osservare la lingua in modo nuovo, per facilitarne lo studio e la comprensione, e rendere un po' più raffinato, per quel che ci riguarda, il nostro modo di 'pensare' (e di vivere).
Bue
Interventi: 866
Iscritto in data: lun, 08 nov 2004 11:20

Intervento di Bue »

Ma io non mettevo in dubbio l'utilità dello studio della grammatica e della sintassi in toto. Ci mancherebbe. Sono anzi un appassionato principiante. Ma appunto in quanto inesperto e neofita sono talvolta assalito da dubbi e mi chiedo se in certi casi questo studio non si esaurisca in quella che certi fisici chiamano spregiativamente "zoologia", cioè il limitarsi a dare un nome alle cose, nella convinzione che questo aggiunga informazione. Se una distinzione nominale corrisponde a qualche differenza morfologica o di uso (chessò, la differenza tra moto da luogo e stato in luogo, o cose del genere), ovviamente la classificazione ha un senso, ma nel caso della distinzione, chessò, tra "agente" e "causa efficiente" (perdonatemi se dico bestialità, è un esempio balordo) o altre più sottili che ora non mi sovvengono - ma in cui il fatto stesso che la loro interpretazione non sia così univocamente determinata dovrebbe forse dirci qualcosa riguardo all'utilità di tale interpretazione - beh, qualche dubbio di fondo mi viene.

Torno al caso dei participi attivi e passivi, scusandomi per il salto di filone: una volta che si è stabilito - in base all'uso, a una norma o ad altro - che nelle frasi in cui il participio non è usato esplicitamente come secondo elemento di un tempo composto, questo va sempre concordato come se fosse passivo, che importanza ha dargli una "interpretazione" attiva o passiva? Che importanza ha sapere che "chiusa la porta, uscì" sta per "avendo chiusa la porta" o (stavo per dire "piuttosto che") "essendo stata chiusa la porta", se alla fine il risultato non cambia, cioè che si può solo scrivere "chiusa la porta, uscì" e non "*chiuso la porta, uscì"?
Non è forse vero, ragiono io, che i tempi composti anche nel caso "attivo" derivano in ultima analisi da un uso passivo del participio? Che "ho chiuso la porta" deriva da "ho chiusa la porta" cioè "ho (fatto in modo che) la porta (sia [stata]) chiusa"? Non può essere il ricordo di questa origine una spiegazione del fatto che quelle frasi richiedono la concordanza formalmente passiva del verbo? Ecco, questo sarebbe un tipo di "analisi" che troverei utile, nel senso di informativa: chiedersi le motivazioni storico-linguistiche di una certa "norma" che constatiamo.
Ma discutere se un certo tipo di espressione, che sappiamo sottostare a certe norme, debba essere interpretata così o cosà, chiamata con questo o quel nome, continua a suscitarmi il sospetto che si tratti di un vuoto esercizio di classificazione.

Perdonate se, come direbbe Marco, ho vagellato.
Ladim
Interventi: 216
Iscritto in data: lun, 08 nov 2004 14:36

Intervento di Ladim »

Forse, a volte, è proprio un uso 'sconsiderato' dello studio grammaticale a gettare fumo negli occhi e a produrre una certa opacità nel linguaggio.

Ad ogni modo, riconoscere la forma passiva in un participio assoluto, di un verbo transitivo, è – direi – una questione d'igiene linguistica: proprio la perdita di una funzione coerente, entro una struttura sintattica peculiare, è indice di un uso sussultorio e maldestro (se si vuole) della lingua. Usare la forma passiva pensando a quella attiva crea – per quanto piccolo e isolato – un certo scompenso nell'apprendimento (e, più in generale, nella comprensione). Il problema non è solo nell'accordo morfologico, ma proprio nella struttura del significato adombrata in una subordinata costruita con un verbo 'così', al modo 'così', col soggetto 'così' etc.

In questo caso impariamo che la natura transitiva di un verbo implica un comportamento coerente e regolare dell'azione indicata dallo stesso verbo (e impariamo anche a riconoscere un uso 'lineare' del participio assoluto).

La storia delle forme composte, infine, si spiega coll'uso antico, e direi ancora latino (parlato), per cui il verbo habeo non aveva ancora la funzione 'ausiliare' di 'oggi', ma conservava la ricchezza semantica dell'uso latino, e il participio 'perfetto' aveva più un valore predicativo che grammaticale – qui, la Sua spiegazione coglierebbe nel giusto, perché, nel nostro caso, si tratterebbe proprio di un originario complemento predicativo dell'oggetto (confrontabile, più o meno, con «so la porta chiusa»): ma oggi le cose stanno un po' diversamente, e la funzione predicativa è stata assorbita dal processo della grammaticalizzazione.

Ragionare sulla dinamica verbale (avendo ben presente il senso della diatesi) non mi sembrerebbe, allora, il frutto di una compiaciuta superfetazione.
luca
Interventi: 4
Iscritto in data: sab, 25 ago 2007 12:31

Intervento di luca »

La domanda di Andrea sul valore di espressioni come "a cominciare da, a partire da" mi induce a chiedervi quale sia il significato di "cristallizzato" nella sintassi del periodo.
Mi spiego meglio. Dire che un costrutto è "più o meno cristallizzato" significa lasciare al singolo parlante la facoltà di scegliere se considerare l'oggetto in questione (ancora) frase o complemento? Vi sono regole in proposito? Che cosa rende "cristallizzata" un'espressione? La frequenza d'uso? La difficoltà di stabilirne con certezza il senso? Perché Marco1971 parla di "sintagmi indubbiamente cristallizzati" (e dunque di complemento) e Ladim di "costrutti, più o meno cristallizzati"? Chiaramente, non si tratta di decidere chi ha ragione: vorrei solo provare a capire i motivi per cui due parlanti percepiscono in modo diverso la stessa espressione.
Ai tempi del liceo, una professoressa sosteneva che in frasi come "sono arrivati tutti, compresi i ritardatari", quel "compresi" poteva essere "trascurato" nell'analisi del periodo, in quanto espressione "ormai cristallizzata". Io, da una parte, mi sentivo sollevato, dal momento che ciò mi esentava dallo stabilire il valore di un participio che non riuscivo ad analizzare, dall'altra mi chiedevo chi avesse deciso di considerare quell'espressione come cristallizzata e perché.
Nella fretta ho esposto i miei dubbi in modo un po' confuso - mi rendo conto -, spero comunque di essere riuscito a spiegarmi.
Avatara utente
Marco1971
Moderatore
Interventi: 10445
Iscritto in data: gio, 04 nov 2004 12:37

Intervento di Marco1971 »

Il GRADIT definisce cosí sintagma cristallizzato :
sintagma cristallizzato s. che si è consolidato nell’uso e non è quindi interamente disponibile a modificazioni morfologico-sintattiche (ad es.: a piene mani, viaggio di nozze, prendere tempo).
Non c’è dubbio, quindi, che a partire da e a cominciare da siano sintagmi cristallizzati a tutti gli effetti.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Ladim
Interventi: 216
Iscritto in data: lun, 08 nov 2004 14:36

Intervento di Ladim »

Per i ritardatari compresi, la sua professoressa, molto probabilmente, voleva esemplificarle un determinato comportamento della lingua, quello che vede un suo particolare elemento abbandonare la propria originaria funzione per coprirne una nuova, qui, direi, di 'congiunzione' (e il valore di quel participio sarebbe già grammaticale, aggiuntivo senz'altro: ché spiegare altrimenti la natura di questa espansione comporterebbe, forse, uno sforzo poco proficuo – e qui avrebbe ragione Bue a battere il pugno).

Il mio 'più o meno' non vorrebbe equivalere a una sentenza; è semmai una pausa riflessiva, che attende l'intervento di chi, più diligente di me, voglia fare chiarezza una volta per tutte (e Marco1971 è autorevolmente 'normativo', al riguardo).

In ultimo, il passo successivo alla cristalizzazione può essere descritto [ma non necessariamente] con un'altra -zzazione, come, ad esempio, la grammaticalizzazione: un'unità del lessico abbandona il proprio dominio lessicale per diventare uno strumento grammaticale (il significato lessicale di «comprendere», in una sua forma tipica, perderebbe vigore proprio di fronte a un incalzante valore strumentale: «compresi», allora, in quel contesto, potrebbe equivalere a un semplice 'anche').
andrea
Interventi: 4
Iscritto in data: mar, 25 set 2007 18:57

Intervento di andrea »

Ringrazio tutti per le approfondite risposte.

Vorrei riprendere dall'intervento di Ladim a proposito delle perifrasi verbali.
Se il costrutto 'essere'+da+'infinito' può essere considerato perifrasi in funzione del suo significato modale, possiamo dire lo stesso per 'rimane da stabilire'?

Avrei un altro dubbio a proposito delle forme cristallizzate.

Costrutti come 'sul nascere', 'sul finire' possono ormai essere considerati come forme cristallizzate?

Grazie e a presto!
Avatara utente
Marco1971
Moderatore
Interventi: 10445
Iscritto in data: gio, 04 nov 2004 12:37

Intervento di Marco1971 »

andrea ha scritto:Avrei un altro dubbio a proposito delle forme cristallizzate.

Costrutti come 'sul nascere', 'sul finire' possono ormai essere considerati come forme cristallizzate?
Rispondo solo su questo (Ladim le saprà rispondere sul resto): sí, sono sintagmi cristallizzati.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Ladim
Interventi: 216
Iscritto in data: lun, 08 nov 2004 14:36

Intervento di Ladim »

In determinati contesti – lo abbiamo visto – alcuni verbi non trasmettono un significato 'autonomo', ma concorrono a descrivere alcune componenti fondamentali del processo verbale; queste ultime possono coinvolgere la dimensione aspettuale del verbo, caratterizzando l'azione: durativa, ingressiva, incoativa: sto scrivendo, sto per scrivere, inizio a scrivere etc. In questi casi abbiamo appunto delle perifrasi verbali e il valore del verbo di modo finito è 'funzionale' (il significato di 'stare', ad esempio, comporta una coordinata semantica che si orienta esclusivamente sull'aspetto e non sull'identità dell'azione).

Altre perifrasi, come quelle ricordate da Lei, non hanno valore aspettuale, ma modale (per modo intendo esclusivamente la categoria del verbo che segnala la 'movenza emotiva' del locutore), e cioè indicano l'atteggiamento del parlante nei confronti del processo verbale: è da fare, allora, ha valore deontico, indica un atteggiamento del parlante, riassumibile in un'obbligatorietà sentita da chi parla ('quella cosa va fatta'); lo stesso direi per rimanere, che morfologizza diversamente il medesimo valore di essere.

Altre perifrasi sono, ad esempio, 'andare avanti a scrivere' (il cui valore è ancora aspettuale).

Le perifrasi verbali costituiscono un solo predicato verbale.

In ultimo – e riassumendo – il valore di questi verbi è detto fraseologico: [salvo successive precisazioni, mie o di altri] esso coordinerebbe due dimensioni del processo verbale – il modo (per lo più deontico) e l'aspetto (variamente imperfettivo).
luca
Interventi: 4
Iscritto in data: sab, 25 ago 2007 12:31

Intervento di luca »

A proposito di perifrasi.
Nella Grammatica di C. Andorno si parla, come nella GGIC, di "subordinate implicite con valore predicativo".
L'autrice scrive:
"Le subordinate predicative implicite possono anche essere introdotte da da. In questo caso assumono una sfumatura deontica:
Il lavoro è da rifare (predicativo del soggetto)."

Concordando con voi sul valore deontico di tale perifrasi, mi chiedo però se non vi sia, da parte di alcuni studiosi, una tendenza (innovativa?) a dare valore frastico ad uno dei due verbi (da rifare), anziché unirlo, come perifrasi modale, ad è. Non mi sembra che, per esempio, nella grammatica del Serianni, si parli di subordinate predicative, o sbaglio?
Ladim
Interventi: 216
Iscritto in data: lun, 08 nov 2004 14:36

Intervento di Ladim »

Direi si tratti di punti di vista, e sempre leciti, perché diversamente esplicativi e coerenti. Uno sguardo attento e ben informato riesce a cogliere la poliedricità di uno stesso fenomeno: la qualità deontica – se guardiamo con attenzione – si può ancorare alla funzione del verbo copulativo, che stabilisce un'identità, anzi la postula e la pretende, anche attraverso il modo verbale, l'indicativo (è), che, come sappiamo, serve all'oggettività (ma anche un condizionale veicolerebbe la stessa informazione, seppure attenuata o, per così dire, auspicata): il cavallo è un animale nobile – l'elemento predicativo esprime una certezza, una qualità giudicata oggettiva e certa. Se lo sostituiamo con un processo verbale, ecco che l'oggettività si proietta su un'azione (quella indicata dal verbo all'infinito) proprio attraverso una 'modulazione' deontica: il cavallo è da strigliare (la copula esplicita una circostanza che potrebbe esprimersi con un costrutto 'giustappositivo': il cavallo da strigliare mangia tranquillo: la modalità della condizione segnalata introduce la coloritura deontica, che, tra l'altro, accompagna abbastanza bene il concetto di finalità: un poema da leggere).

Il «valore frastico» sarebbe comunque «modale» (inteso come 'atteggiamento verbale' etc.): il sintagma da rifare tematizza il modo deontico indipendentemente dal verbo essere: se vi è la copula, oltre al valore (modale) deontico, abbiamo anche quello (sintattico) predicativo.
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