Edizioni millesimate per i «brutti» neologismi

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Edizioni millesimate per i «brutti» neologismi

Intervento di Federico »

ANTICIPAZIONI La sintesi di un intervento a «Parole in gioco»
Edizioni millesimate per i «brutti» neologismi
Valeria Della Valle

Il rapporto tra la lingua italiana e le parole nuove è stato sempre un rapporto difficile: la nostra lingua, per secoli fortemente condizionata dalla tradizione letteraria, e per lungo tempo stretta tra il modello fiorentino, la pressione proveniente dalle lingue straniere, i richiami all'ordine delle varie ondate puriste, ha fronteggiato con difficoltà la nascita e la diffusione delle parole e delle espressioni nuove. In genere, anche il comune parlante oppone, di fronte al neologismo, una resistenza di stampo estetico, più che grammaticale.
L'obiezione più frequente e immediata nei confronti del nuovo è che si tratta «di una brutta parola», o di una parola «che suona male». È vero, tutto quello che è nuovo appare linguisticamente brutto e insopportabile, perché obbliga a confrontarci non solo con qualcosa che non abbiamo mai letto o ascoltato prima, ma con un nuovo concetto, con una nuova tendenza, con un nuovo fenomeno sociale. Ne sono testimonianza le parole usate per indicare cariche o professioni femminili apparse sulla scena solo in tempi relativamente recenti, da quando le donne hanno cominciato a svolgere nuovi ruoli, prima riservati esclusivamente agli uomini: termini come avvocata, ministra, sindaca o chirurga sono del tutto legittimi dal punto di vista della loro formazione e della loro coerenza con il sistema linguistico dell'italiano, ma continuano a essere respinti, o usati con una connotazione ironico-spregiativa, o messi tra virgolette, anche se ormai sono stati progressivamente accolti dai dizionari più rappresentativi della lingua italiana.
A proposito di dizionari, assistiamo da anni, con il lancio delle nuove edizioni, non a caso definite «millesimate» (come se si trattasse di vini pregiati), all'ostentazione pubblicitaria del numero di neologismi registrati. Da una parte, dunque, ci si scandalizza per il numero di nuove parole che si affacciano quotidianamente nel nostro lessico, considerate stravaganti e superflue, dall'altra - in apparente contraddizione - i neologismi vengono usati come richiamo pubblicitario.
Anche nell'innovazione linguistica, del resto, si riflettono mode, tic, vizi e pregi della società che li produce: basti pensare alla fortuna non solo giornalistica di un'espressione come «i furbetti del quartierino», ideata nel 2005 da Stefano Ricucci, lo spregiudicato finanziere di Zagarolo, per alludere ai piccoli lestofanti che si davano tono e importanza, ma che cercavano di aggirare le difficoltà con trucchetti da poco, con manovre di piccolo cabotaggio, tipiche di chi sbarca a malapena il lunario con imbrogli da quartiere di periferia. In questo e in moltissimi altri casi, a fare da cassa di risonanza ai nuovi termini e alle nuove espressioni che poi entrano in circolo sono proprio i mezzi di informazione: radio, televisione, cinema, pubblicità, e, soprattutto, giornali e periodici. In più, rispetto agli altri media, i giornali hanno il vantaggio di consacrare e conservare ufficialmente, nella loro veste di fonte scritta, la nuova entrata.
Se ne rese conto, nel lontano 1905, il giornalista e scrittore Alfredo Panzini, che per primo ebbe l'idea di raccogliere, senza pregiudizi, parole e locuzioni nuove registrate al loro primo apparire, ricavandole anche dai giornali e dalle riviste (dobbiamo a lui, per esempio, se possiamo datare la prima apparizione di espressioni come donna crisi, flirt, macchina elettorale, pacifista, scendere in piazza). La tradizione inaugurata da Panzini è stata continuata, nel tempo, da chi ha pubblicato dizionari particolari, i dizionari di neologismi. Si tratta di repertori a parte, rispetto ai dizionari generali della lingua, che svolgono una funzione diversa: registrare e spiegare, documentare, datare e munire di firma, quando è possibile, le nuove formazioni, anche se si tratta, in molti casi, di formazioni occasionali ed effimere, non destinate a durare. Fonte privilegiata per questa operazione sono i quotidiani, che contribuiscono a svolgere una funzione informativa e divulgativa, diffondendo nel lessico d'uso comune sia i termini che provengono dai settori specialistici, sia le parole straniere che circolano in ambito internazionale.
In questo modo, i giornalisti svolgono un ruolo fondamentale nel processo di arricchimento e innovazione del lessico di una lingua: termini come ateo devoto, buonista, ciecopacismo, glocalismo, inciucista, non-luogo, mediacrazia, sprecopoli, stipendificio o velinismo, per citarne solo alcuni, circolano ormai da tempo non solo nei discorsi e negli scritti di editorialisti e politici, ma, sempre più spesso, nella comunicazione quotidiana. Potremmo fare a meno, a distanza di anni, di espressioni come afganizzare, tangentopoli, mani pulite, celodurismo, cetomedizzazione, finanza creativa? Neologismi che forse sembreranno ancora, a qualcuno, «brutti sporchi e cattivi», ma ormai indispensabili e insostituibili per rievocare momenti, umori e fasi della nostra vita e della nostra società.
Dal manifesto del 10.
amicus_eius
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Iscritto in data: ven, 10 giu 2005 11:33

Intervento di amicus_eius »

Non bisognerebbe pronunciare editti troppo severi verso i neologismi, anche verso quelli più strani ed effimeri: sono comunque segno della vitalità della lingua. Il problema vero sono i barbarismi non necessari, che introducono nel diasistema dell'italiano una serie di varianti da dialetto creolizzato: fenomeno, questo, che rischia di essere la quinta colonna della disidentificazione culturale e linguistica. Ma di ciò si è ampiamente parlato altrove.

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P. s.: oltretutto, come vi porreste di fronte a un'opera letteraria che usa certi neologismi (e certi barbarismi, perfino) in maniera connotativamente efficace, al fine di caratterizzare un ambiente o una certa dimensione sociale?
Avatara utente
Marco1971
Moderatore
Interventi: 10445
Iscritto in data: gio, 04 nov 2004 12:37

Intervento di Marco1971 »

amicus_eius ha scritto:P. s.: oltretutto, come vi porreste di fronte a un'opera letteraria che usa certi neologismi (e certi barbarismi, perfino) in maniera connotativamente efficace, al fine di caratterizzare un ambiente o una certa dimensione sociale?
La lingua letteraria è un discorso a parte. In essa, tutto è – o dovrebbe essere – misura, cioè creazione consapevole di sé stessa.

Qui noi deprechiamo l’impiego sciatto e inconscio di forestierismi storpiati in tutte le maniere possibili e immaginabili.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Avatara utente
Incarcato
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Iscritto in data: lun, 08 nov 2004 12:29

Intervento di Incarcato »

Caro Amicus, credo che si dovrebbe valutare autore per autore. Pensa a qualcuno in particolare?
I' ho tanti vocabuli nella mia lingua materna, ch'io m'ho piú tosto da doler del bene intendere le cose, che del mancamento delle parole colle quali io possa bene esprimere il concetto della mente mia.
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