Dei calchi semantici
Moderatore: Cruscanti
- Ferdinand Bardamu
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Perché è piú difficile trovare un sostantivo corrispondente per coverage che non sia un calco, mentre invece to cover è facilmente sostituibile. In questo senso copertura riempie un vuoto nella nostra lingua, e perciò l'accolgo volentieri. Del resto, ho sottolineato anche come copertura abbia alternative piú comuni.
Peraltro "copertura", pur non essendo sovrapponibile semanticamente a coverage, dà un'idea di "scudo, riparo, protezione" che può renderne accettabile un uso traslato in espressioni come "copertura assicurativa", "copertura antibiotica", "coprire/coprirsi la fuga" ecc.
Se si tratta di TV, direi «garantiremo la trasmissione dell'evento», eventualmente aggiungendo "integrale", "di tutte le fasi", se vogliamo conservare quell'idea di totalità che a noi "copertura" suggerisce.
Se si tratta di TV, direi «garantiremo la trasmissione dell'evento», eventualmente aggiungendo "integrale", "di tutte le fasi", se vogliamo conservare quell'idea di totalità che a noi "copertura" suggerisce.
Oggi com'oggi non si sente dire dieci parole, cinque delle quali non sieno o d'oltremonte o nuove, dando un calcio alle proprie e native. (Fanfani-Arlìa, 1877)
- Ferdinand Bardamu
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Non è la stessa cosa, se con copertura intendiamo media coverage (copertura giornalistica). La trasmissione è la semplice messa in onda; qui si tratta, invece, di sottolineare che l'evento sarà accompagnato da cronaca, commento, retroscena, ecc. In questo caso, ripeto, non è semplice trovare un sostituto a copertura (giornalistica).
Io guarderei con meno severità ai calchi semantici: spesso accade che effettivamente colmino una nostra lacuna. Se hanno una base latina, poi, sono ancor piú facilmente digeribili.
Io guarderei con meno severità ai calchi semantici: spesso accade che effettivamente colmino una nostra lacuna. Se hanno una base latina, poi, sono ancor piú facilmente digeribili.
Sfogliando un libro di Aldo Gabrielli (Dizionario dello stile corretto, 1960) ho scoperto alcuni aspetti interessanti riguardanti un paio di vocaboli che ho trattato sinora in questo filone: "coprire" e "suggestivo".
A proposito del primo, mezzo secolo fa gli usi traslati di "coprire" erano limitati a espressioni come "coprire un ufficio", "coprire le spese", "coprire una distanza" (riporto gli esempi di Gabrielli), che, in quanto calchi semantici modellati sul francese, l'autore proscrive.
Si può quindi concludere che l'italiano "coprire" ha conosciuto una prima estensione del campo semantico sotto l'influsso del francese couvrir, e una seconda, più recente, ricalcando gl'impieghi dell'inglese to cover.
"Suggestivo", invece, era già impiegato nel senso di «attraente, allettante, incantevole e sim.», ma Gabrielli giudica improprio quest'uso. L'uso "proprio" era all'epoca quello in locuzioni come «domande suggestive» e «interrogatorio suggestivo».
Attualmente l'uso di "suggestivo" nel senso di "romantico, evocativo" è prevalente — e non credo come calco dell'inglese, che ha altri vocaboli con quest'accezione: un inglese sorriderebbe a sentir parlare di "laghetto suggestivo", mentre noi, chissà perché, non sorridiamo se leggiamo su Wikipedia che
A peggiorare la situazione, l'uso già "improprio" di questo aggettivo nel senso di fascinoso ecc. si è recentemente mescolato con il suggestive inglese, che ne ha ampliato in maniera ancor più impropria e "suggestiva" la gamma degl'impieghi.
Mi cito:
A proposito del primo, mezzo secolo fa gli usi traslati di "coprire" erano limitati a espressioni come "coprire un ufficio", "coprire le spese", "coprire una distanza" (riporto gli esempi di Gabrielli), che, in quanto calchi semantici modellati sul francese, l'autore proscrive.
Si può quindi concludere che l'italiano "coprire" ha conosciuto una prima estensione del campo semantico sotto l'influsso del francese couvrir, e una seconda, più recente, ricalcando gl'impieghi dell'inglese to cover.
"Suggestivo", invece, era già impiegato nel senso di «attraente, allettante, incantevole e sim.», ma Gabrielli giudica improprio quest'uso. L'uso "proprio" era all'epoca quello in locuzioni come «domande suggestive» e «interrogatorio suggestivo».
Attualmente l'uso di "suggestivo" nel senso di "romantico, evocativo" è prevalente — e non credo come calco dell'inglese, che ha altri vocaboli con quest'accezione: un inglese sorriderebbe a sentir parlare di "laghetto suggestivo", mentre noi, chissà perché, non sorridiamo se leggiamo su Wikipedia che
Io invece ho sorriso, nella mia ignoranza dell'italiano e del gergo legale, quando ho letto per la prima volta "domanda suggestiva", pensando all'ennesimo anglicismo.Elvis Presley introdusse uno stile di danzare ed esibirsi molto veloce, usando i contorcimenti del suo corpo in modo sessualmente suggestivo.
A peggiorare la situazione, l'uso già "improprio" di questo aggettivo nel senso di fascinoso ecc. si è recentemente mescolato con il suggestive inglese, che ne ha ampliato in maniera ancor più impropria e "suggestiva" la gamma degl'impieghi.
Mi cito:
- in àmbito medico, nel senso di "indicativo" (es. "sintomi suggestivi di polmonite");
- in àmbito più generale, per indicare contesti in cui sono presenti situazioni violente o scabrose (es. "temi suggestivi"*) oppure col valore di "interessante" o "degno di nota" ("proposta suggestiva", "è suggestivo [il fatto] che"...).
Oggi com'oggi non si sente dire dieci parole, cinque delle quali non sieno o d'oltremonte o nuove, dando un calcio alle proprie e native. (Fanfani-Arlìa, 1877)
- Ferdinand Bardamu
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Nell'aeroporto di Venezia ho notato porte «allarmate», quindi dev'essere ormai la denominazione ufficiale. Non mi scandalizzo, anche se non è un aggettivo cosí elegante (e, come detto, è pure improprio).Ferdinand Bardamu ha scritto:Circa allarmato, direi che è accettabile solo in un registro colloquiale, e pure in una lingua piuttosto trascurata. Come dice il Treccani, trattasi di un derivato improprio, ché non esiste il verbo allarmare nel senso di ‹dotare qcs. di allarme› (magari in qualche fabbrica sarà comune dire «queste porte le abbiamo già allarmate», ma sarebbe un uso settoriale e giustificato da esigenze pratiche).
Aggiungo poi un altro calco inutile, molto usato in àmbito commerciale: proprietario nel senso di ‹di proprietà esclusiva›. Alcuni esempi dalla rete (grassetti miei):
Western Digital ha annunciato la disponibilità di WD 2go 2.0, un'applicazione proprietaria per il personal cloud…
Pagestream è un'applicazione proprietaria di tipo professionale per il desktop publishing (DTP).
Un nuovo brevetto chiamato “Schematic Maps” mostra una feature di quella che sarà la futura applicazione proprietaria di Apple per le mappe.
[Stendiamo un velo pietoso sui forestierismi innecessari.] Come detto, il concetto in italiano si rende con ‹di proprietà (esclusiva)›.
Segnalo altresì il formato proprietario.
Oggi com'oggi non si sente dire dieci parole, cinque delle quali non sieno o d'oltremonte o nuove, dando un calcio alle proprie e native. (Fanfani-Arlìa, 1877)
- Animo Grato
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Mi ha stupito non trovare nella lista di proscrizione uno degli esempi di "aggiunta indebita di significato" più repellenti e - ahimé! - diffusi che io conosca. Sto parlando di "rilasciare" e "rilascio". Nella mia beata ingenuità ero convinto che in italiano si potessero rilasciare soltanto gli ostaggi, i documenti e le interviste. Invece, se leggete articoli che si occupano di musica o di cinema, è tutto un tripudio di "il rilascio del nuovo singolo di Giorgia", "il nuovo film di Salvatores sarà rilasciato in più di mille sale", e via di questo passo. La cosa che mi irrita di più è sapere che simili violenze verbali sono opera di qualche traduttore della domenica che ha cercato release nel dizionario (sempre che l'abbia fatto) e ha scelto di renderlo con la prima traduzione proposta dal lemma. Anzi, magari avesse scelto consapevolmente: almeno sarebbe indizio di una tenue attività cerebrale. Invece sono quasi sicuro che la r, la l e la s di release abbiano semplicemente fatto vibrare per simpatia, nella sua testolina bacata, il vagamente simile rilascio, senza che lo scribacchino si ponesse il minimo dubbio sulla fondatezza della sua "intuizione".
Mi è capitato anche di trovare di peggio: una parola inglese a tutti gli effetti, con una blanda patina di italiano. Per fortuna l'ho trovata solo una volta: era "schedulato" (dall'inglese scheduled, "programmato, previsto"). La frase completa era qualcosa come "il rilascio della nuova versione di Office è stato rischedulato a data da destinarsi"... Potete immaginare la mia reazione.
Sempre in ambito informatico, anche "applicazione" (dall'inglese application software) mi dà abbastanza sui nervi. Il mio dizionario, che è del '95, ovviamente non lascia neanche presagire una tale accezione, ma nemmeno il dizionario in rete della Hoepli o della Treccani, tanto per fare due esempi, riportano il significato "moderno".
Se dovessi leggere dello "schedulato rilascio di un'applicazione", credo che avrei una crisi epilettica.
In nome di una dignità linguistica del turpiloquio, vorrei passare ora ad un caso affatto diverso, scusandomi in anticipo per i termini un po' "forti", ma indispensabili. Mi riferisco all'invasione di "fottuto" usato come rafforzativo. Anche qui Hollywood ha la sua parte di responsabilità: non c'è poliziesco che non abbia il suo "fottuto sbirro", in senso, ovviamente, poco lusinghiero. Da qui si passa a un valore intensificativo, sempre con connotazioni negative ("fa un caldo fottuto"), e si arriva al rafforzativo tout court, senza implicazioni di sorta ("un fottuto genio": questo è un calco integrale dell'espressione - idiota - inglese fucking genius). Certo, l'inglese usa fucking, il verbo to fuck vuol dire quello che vuol dire, e quindi ecco pronta la versione italiana. Il fatto che da decenni fosse in uso, nel turpiloquio di tutti i giorni, il collaudato "un x del cazzo" (o "un cazzo di x") non è stato nemmeno preso in considerazione dallo scriteriato traduttore. In questo senso c'è quasi da tirare un sospiro di sollievo se motherfucker è confluito nel nostrano "figlio di p..." senza generare un analogo insulto incestuoso. O quasi. In Come ti ammazzo un killer, una commedia del 1983 con Robin Williams e Walter Matthau, il curatore dei dialoghi, colto alla sprovvista da un "you white motherfucker!" che, all'epoca, doveva suonare ancora molto esotico, tradusse l'oxoniense epiteto con "bianco fottimadre" [sic]. La cosa non ha avuto seguito: almeno in questo caso, l'abbiamo scampata bella. Per carità, la mia non vuole essere un'esortazione all'uso delle parolacce, ma se proprio non se ne può fare a meno, almeno siano le nostre!
Infine, c'è un altro caso che mi lascia perplesso, ed è quello di "spendere" associato al tempo. Mi è capitato di trovarne esempi qua e là ("ho speso mezz'ora in sua compagnia", "ho speso il pomeriggio a far compere"), laddove io avrei usato "passare" o "impiegare", a seconda del coinvolgimento. Ad orecchio, mi è sempre sembrato un influsso dell'inglese to spend, che si riferisce indistintamente a money o time. Poi, però, una veloce e dilettantesca ricerca in rete ha portato alla luce esempi illustri e sicuramente "incontaminati" ("Pentito e tristo de’ miei sì spesi anni, Che spender si doveano in miglior uso", Petrarca). Cionondimeno, rimango persuaso che chi usa "spendere" in questo senso ignori bellamente Petrarca e sia invece influenzato dall'inglese. Perciò mi (e vi) chiedo: è giusto correggere un uso che ha una motivazione quanto meno dubbia (anche se ne esiste una remota giustificazione), o si deve lasciar correre, in nome di quell'antico - e probabilmente sconosciuto - precedente?
Spero di essere riuscito a spiegarmi.
Mi è capitato anche di trovare di peggio: una parola inglese a tutti gli effetti, con una blanda patina di italiano. Per fortuna l'ho trovata solo una volta: era "schedulato" (dall'inglese scheduled, "programmato, previsto"). La frase completa era qualcosa come "il rilascio della nuova versione di Office è stato rischedulato a data da destinarsi"... Potete immaginare la mia reazione.
Sempre in ambito informatico, anche "applicazione" (dall'inglese application software) mi dà abbastanza sui nervi. Il mio dizionario, che è del '95, ovviamente non lascia neanche presagire una tale accezione, ma nemmeno il dizionario in rete della Hoepli o della Treccani, tanto per fare due esempi, riportano il significato "moderno".
Se dovessi leggere dello "schedulato rilascio di un'applicazione", credo che avrei una crisi epilettica.
In nome di una dignità linguistica del turpiloquio, vorrei passare ora ad un caso affatto diverso, scusandomi in anticipo per i termini un po' "forti", ma indispensabili. Mi riferisco all'invasione di "fottuto" usato come rafforzativo. Anche qui Hollywood ha la sua parte di responsabilità: non c'è poliziesco che non abbia il suo "fottuto sbirro", in senso, ovviamente, poco lusinghiero. Da qui si passa a un valore intensificativo, sempre con connotazioni negative ("fa un caldo fottuto"), e si arriva al rafforzativo tout court, senza implicazioni di sorta ("un fottuto genio": questo è un calco integrale dell'espressione - idiota - inglese fucking genius). Certo, l'inglese usa fucking, il verbo to fuck vuol dire quello che vuol dire, e quindi ecco pronta la versione italiana. Il fatto che da decenni fosse in uso, nel turpiloquio di tutti i giorni, il collaudato "un x del cazzo" (o "un cazzo di x") non è stato nemmeno preso in considerazione dallo scriteriato traduttore. In questo senso c'è quasi da tirare un sospiro di sollievo se motherfucker è confluito nel nostrano "figlio di p..." senza generare un analogo insulto incestuoso. O quasi. In Come ti ammazzo un killer, una commedia del 1983 con Robin Williams e Walter Matthau, il curatore dei dialoghi, colto alla sprovvista da un "you white motherfucker!" che, all'epoca, doveva suonare ancora molto esotico, tradusse l'oxoniense epiteto con "bianco fottimadre" [sic]. La cosa non ha avuto seguito: almeno in questo caso, l'abbiamo scampata bella. Per carità, la mia non vuole essere un'esortazione all'uso delle parolacce, ma se proprio non se ne può fare a meno, almeno siano le nostre!
Infine, c'è un altro caso che mi lascia perplesso, ed è quello di "spendere" associato al tempo. Mi è capitato di trovarne esempi qua e là ("ho speso mezz'ora in sua compagnia", "ho speso il pomeriggio a far compere"), laddove io avrei usato "passare" o "impiegare", a seconda del coinvolgimento. Ad orecchio, mi è sempre sembrato un influsso dell'inglese to spend, che si riferisce indistintamente a money o time. Poi, però, una veloce e dilettantesca ricerca in rete ha portato alla luce esempi illustri e sicuramente "incontaminati" ("Pentito e tristo de’ miei sì spesi anni, Che spender si doveano in miglior uso", Petrarca). Cionondimeno, rimango persuaso che chi usa "spendere" in questo senso ignori bellamente Petrarca e sia invece influenzato dall'inglese. Perciò mi (e vi) chiedo: è giusto correggere un uso che ha una motivazione quanto meno dubbia (anche se ne esiste una remota giustificazione), o si deve lasciar correre, in nome di quell'antico - e probabilmente sconosciuto - precedente?
Spero di essere riuscito a spiegarmi.
Ha perfettamente ragione su rilascio/rilasciare, di cui s’era parlato qui.
Per quanto riguarda spendere riferito al tempo, è perfettamente corretto in italiano, e attestato in letteratura dalle origini a oggi. Solo due esempi, che traggo dal Battaglia:
La mattina fu spesa in giri, per riconoscere il paese. (Manzoni)
Si alzava piuttosto tardi e spendeva il resto della mattinata alla Casa dello Studente, carte e biliardo. (Fenoglio)
Per quanto riguarda spendere riferito al tempo, è perfettamente corretto in italiano, e attestato in letteratura dalle origini a oggi. Solo due esempi, che traggo dal Battaglia:
La mattina fu spesa in giri, per riconoscere il paese. (Manzoni)
Si alzava piuttosto tardi e spendeva il resto della mattinata alla Casa dello Studente, carte e biliardo. (Fenoglio)
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
- Ferdinand Bardamu
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- Iscritto in data: mer, 21 ott 2009 14:25
- Località: Legnago (Verona)
Gentile Animo Grato,
personalmente condivido solo in parte la sua animosità verso i calchi. Se in alcuni casi il calco prende il posto di una parola pienamente italiana (ed è quindi inutile), in altri può servire a evitare un prestito integrale o persino a colmare una lacuna della nostra lingua.
Son d’accordo però che spesso il calco semantico è una scorciatoia per traduttori pigri o ignoranti, come il famigerato realizzare per ‘accorgersi’.
Quanto agli esempî che ha riportato, le dirò quel che penso. Rilasciare è inutile, perché abbiamo già pubblicare o sprigionare. Non è, insomma, buon italiano.
Schedulare l’ho sentito anch’io. Nel significato comune di ‘programmare’, è inutile; tuttavia, l’«aria di famiglia» potrebbe in un certo senso assolverne l’uso, se raro e limitato, come sembra, a certi contesti specialistici.
Applicazione non è solo accettabile: è necessaria. L’alternativa è software. (Ammesso che i due termini siano sinonimi perfetti, cosa di cui non sono certo. In ogni caso, c’è anche programma.)
Fottuto, nel senso vulgato dai doppiaggi cinematografici di filmi americani, è pienamente italiano, tanto piú che la traduzione letterale di fucking sarebbe semmai ‘fottente’, non ‘fottuto’. Al riguardo, le cito un passo di una lettera di Vincenzo Monti (1818) che ho trovato nell’archivio della BibIt: «Ma una lunga lettera di suo pugno a Tito Manzi qui dimorante mi accerta ch’egli ha pensieri diversi da’ suoi colleghi, ch’egli chiama fottuto si[nedr]io». Non parliamo poi del Belli.
Su spendere le ha già risposto benissimo Marco.
P.S. Mi permetto di correggerla: in realtà si dovrebbe scrivere cionnondimeno, perché ciò cogemina, cioè, semplificando, provoca il raddoppiamento della consonante iniziale della parola che segue.
personalmente condivido solo in parte la sua animosità verso i calchi. Se in alcuni casi il calco prende il posto di una parola pienamente italiana (ed è quindi inutile), in altri può servire a evitare un prestito integrale o persino a colmare una lacuna della nostra lingua.
Son d’accordo però che spesso il calco semantico è una scorciatoia per traduttori pigri o ignoranti, come il famigerato realizzare per ‘accorgersi’.
Quanto agli esempî che ha riportato, le dirò quel che penso. Rilasciare è inutile, perché abbiamo già pubblicare o sprigionare. Non è, insomma, buon italiano.
Schedulare l’ho sentito anch’io. Nel significato comune di ‘programmare’, è inutile; tuttavia, l’«aria di famiglia» potrebbe in un certo senso assolverne l’uso, se raro e limitato, come sembra, a certi contesti specialistici.
Applicazione non è solo accettabile: è necessaria. L’alternativa è software. (Ammesso che i due termini siano sinonimi perfetti, cosa di cui non sono certo. In ogni caso, c’è anche programma.)
Fottuto, nel senso vulgato dai doppiaggi cinematografici di filmi americani, è pienamente italiano, tanto piú che la traduzione letterale di fucking sarebbe semmai ‘fottente’, non ‘fottuto’. Al riguardo, le cito un passo di una lettera di Vincenzo Monti (1818) che ho trovato nell’archivio della BibIt: «Ma una lunga lettera di suo pugno a Tito Manzi qui dimorante mi accerta ch’egli ha pensieri diversi da’ suoi colleghi, ch’egli chiama fottuto si[nedr]io». Non parliamo poi del Belli.
Su spendere le ha già risposto benissimo Marco.
P.S. Mi permetto di correggerla: in realtà si dovrebbe scrivere cionnondimeno, perché ciò cogemina, cioè, semplificando, provoca il raddoppiamento della consonante iniziale della parola che segue.
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- Interventi: 1385
- Iscritto in data: ven, 19 ott 2012 20:40
- Località: Marradi (FI)
Siamo sicuri?Animo Grato ha scritto: In questo senso c'è quasi da tirare un sospiro di sollievo se motherfucker è confluito nel nostrano "figlio di p..." senza generare un analogo insulto incestuoso. O quasi. In Come ti ammazzo un killer, una commedia del 1983 con Robin Williams e Walter Matthau, il curatore dei dialoghi, colto alla sprovvista da un "you white motherfucker!" che, all'epoca, doveva suonare ancora molto esotico, tradusse l'oxoniense epiteto con "bianco fottimadre" [sic]. La cosa non ha avuto seguito: almeno in questo caso, l'abbiamo scampata bella.
http://en.wikipedia.org/wiki/Horrible_Bosses
http://it.wikipedia.org/wiki/Come_ammaz ... ere_felici
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- Interventi: 1303
- Iscritto in data: sab, 06 set 2008 15:30
Questo non lo uso mai.PersOnLine ha scritto:realizzare nel senso di 'rendersi (esattamente) conto
Questo invece sì (magari senza pensarci).PersOnLine ha scritto:rilasciare riferito ai soli prodotti informatici
Anche in inglese non si può dire *«the final version of The Betrothed was released in 1842» bensì «the final version of The Betrothed was published in 1842» («la versione definitiva de I promessi sposi fu pubblicata nel 1842»).PersOnLine ha scritto:(riservando pubblicare per quelli editoriali)
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- Moderatore «Dialetti»
- Interventi: 726
- Iscritto in data: sab, 14 mag 2005 23:03
Forse non è molto comune, ma si può: to issue (a record, film, book, etc) for sale or circulation
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- Interventi: 1303
- Iscritto in data: sab, 06 set 2008 15:30
Però è l'esatto significato attribuitogli dal Treccani.Carnby ha scritto:Questo non lo uso mai.PersOnLine ha scritto:realizzare nel senso di 'rendersi (esattamente) conto
Per qualche motivo trovo meno goffo realizzato col significato di «appagato» di realizzare nel senso di «rendersi conto, comprendere».PersOnLine ha scritto:Però è l'esatto significato attribuitogli dal Treccani.
Chi c’è in linea
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