Plurilinguismo in Europa

Spazio di discussione su prestiti e forestierismi

Moderatore: Cruscanti

Avatara utente
Freelancer
Interventi: 1896
Iscritto in data: lun, 11 apr 2005 4:37

Plurilinguismo in Europa

Intervento di Freelancer »

Prosegue la discussione cominciata qui (NdA).
Marco1971 ha scritto:La scomparsa del congiuntivo è un mito (anzi oggi s’infila il congiuntivo dappertutto, anche dove non ci sta); l’invasione degli anglicismi invece è una realtà, e chi non la vede è miope. Che questa non sia poi un pericolo per le strutture fondamentali della lingua, siamo d’accordo; è un pericolo solo per quelle fonetiche e per la perdità dell’omogeneità lessicale, che a poco a poco rende l’italiano una lingua ibrida (si pensi a cose come speakeraggio, forwardare, ecc.).
Invece Giovanni Nencioni trova queste costruzioni - forwardare, downlodare ecc. - segno di buona reattività della lingua. Se interpreto bene quello che ha scritto, l'italiano ha perso la sua capacità di modificare completamente gli anglismi (ossia gli italiani non trovano più appropriato questo sistema) come faceva prima - creando bistecca da beefsteak o un ipotetico buggetto da budget (suggerimento scherzoso di Nencioni che è fiorentino) - ma riesce ancora a reagire bene con queste creazioni, che però - aggiungo io - trovano corso tra gli specialisti, a un livello informale, mentre su un registro più formale saranno evitate. Esempio: esiste e viene adoperato becappare da to backup, ma non lo si troverà in un manuale, dove si leggerà invece fare/effettuare il backup.

Devo correggere quanto appena scritto perché ha una contraddizione interna; detto quindi meglio: sembrerebbe che l'italiano conservi la sua capacità di reagire agli anglismi modificandoli come faceva 50, 60, 70 anni fa; ma la mantiene in strati ristretti degli utenti, a registri informali e quasi popolari, mentre su un registro più formale, considerato di prestigio, la maggioranza dei parlanti - anche quelli che userebbero queste modifiche tra di loro - ritiene essenziale mantenere inalterato il forestierismo.
Ultima modifica di Freelancer in data sab, 27 mag 2006 17:53, modificato 1 volta in totale.
Avatara utente
Marco1971
Moderatore
Interventi: 10445
Iscritto in data: gio, 04 nov 2004 12:37

Intervento di Marco1971 »

Mi stupisce davvero che Giovanni Nencioni trovi normali queste formazioni (anche se dice che sono indice di buona reattività della lingua; nel caso dei verbi parlerei piuttosto di via obbligata: non posso certo scrivere *Noi vi forward il messaggio ricevuto da X); io ho letto altrove che non era affatto a favore degli anglicismi (se ne parlò anche nel forum della Crusca, in un intervento di eros barone). Le sarei grato se potesse ritrovare quella citazione nencioniana e riportarne qualche brano. Grazie.

Ma becappare non è, appunto, un adattamento integrale? Credevo che gli italiani non trovassero piú appropriato questo sistema... ;) Ah, ecco, ha risposto mentre scrivevo.
Avatara utente
Freelancer
Interventi: 1896
Iscritto in data: lun, 11 apr 2005 4:37

Intervento di Freelancer »

Marco1971 ha scritto:Mi stupisce davvero che Giovanni Nencioni trovi normali queste formazioni (anche se dice che sono indice di buona reattività della lingua; nel caso dei verbi parlerei piuttosto di via obbligata: non posso certo scrivere *Noi vi forward il messaggio ricevuto da X); io ho letto altrove che non era affatto a favore degli anglicismi (se ne parlò anche nel forum della Crusca, in un intervento di eros barone). Le sarei grato se potesse ritrovare quella citazione nencioniana e riportarne qualche brano. Grazie.
Qui c'è un riferimento indiretto, appena ho tempo le riporto qualche riga di quanto scritto da Nencioni.
Avatara utente
Marco1971
Moderatore
Interventi: 10445
Iscritto in data: gio, 04 nov 2004 12:37

Intervento di Marco1971 »

Trascrivo un passo dal nesso gentilmente fornito da Freelancer.
Riferendosi alla "lingua di comunicazione, usata nei laboratori e nelle officine, nelle istruzioni per l’uso, nella presentazione commerciale, nella divulgazione", Giovanni Nencioni notava come la terminologia inglese dell’informatica venisse in qualche modo "aggredita dalla forza assimilatrice dell’italiano, che ne trae softuerista, harduerista, formattare, ecc." e concludeva: "Tale aggressività dell’italiano è buona garanzia della sua conservazione strutturale" (Nencioni 1994, pp. 7, 8).
Softuerista è un adattamento integrale.
Nella maggior parte dei casi, infatti, l’italianizzazione dei prestiti integrali si ottiene attraverso il meccanismo della suffissazione. Le forme più diffuse sono costruite con i suffissi di uso più frequente nella lingua italiana: -are e -izzare per le forme verbali (cliccare, settare, resettare, digitalizzare, scannerizzare); -aggio e -izzazione per quelle nominali (settaggio, inizializzazione); -abile e -izzabile per le forme aggettivali (formattabile, randomizzabile). È tuttavia da sottolineare come queste forme derivate siano ancora attestate quasi esclusivamente nel parlato, dove si registrano fenomeni talvolta anche vistosi come backuppare ("fare una copia di salvataggio"), per il quale ritengo molto probabile che si possa giungere, forse nel giro di qualche anno, a una trasformazione nella forma grafica becappare.
Manifestazioni più significative del grado di assimilazione dei prestiti inglesi si hanno con forme di nuovo conio come faxare (v.tr.), derivato di fax (abbreviazione d’uso molto comune di telefax), con il significato di "trasmettere mediante un apparecchio telefax". Un caso sorprendente è rappresentato da accatiemmellista, sostantivo formato sulla base dell’acronimo HTML (linguaggio di marcatura degli ipertesti) con l’aggiunta del suffisso
-ista, per indicare l’esperto nella predisposizione di documenti destinati a Internet [9].
Sulla base di queste osservazioni non mi sento di condividere pienamente l’opinione di quanti sostengono una certa passività dell’italiano nei confronti della lingua egemone. Preferirei parlare piuttosto di una sorta di ‘eclettismo’ che —nonostante trovi la sua prima ragion d’essere in una pur comprensibile forma di snobismo tecnologico [10], quasi a sottolineare il divario che separa l’emergente cultura informatica dall’analfabetismo computazionale— necessita tuttavia di rimedi correttivi. E duole notare ancora una volta che ignorare le conseguenze che queste forme di disordine linguistico possono comportare equivale soltanto ad aggravare la naturale progressione del fenomeno.
Attendo precisazioni sulle parole di Giovanni Nencioni, quando sarà in comodo di farlo, Roberto, e la ringrazio sin d’ora per il tempo che vorrà dedicar-mi/-ci.

P.S. Per me resta oscuro come mai si abbia tanta disinvoltura coi verbi (becappare, resettare, cliccare) mentre coi sostantivi no (back-up, reset, clic[k]): si abbia allora il coraggio di dire anche becappo, resetto e clicco (come d’altronde avevo proposto, per clicco, appunto).
Avatara utente
Marco1971
Moderatore
Interventi: 10445
Iscritto in data: gio, 04 nov 2004 12:37

Intervento di Marco1971 »

Riporto l’inizio dell’intervento cui alludevo qui sopra.
eros barone, nel forum della Crusca, ha scritto:IL BEL PAESE LÀ DOVE L'OKAY SONA

Da tempo l'illustre linguista Giovanni Nencioni, presidente onorario dell'Accademia della Crusca, propone di costituire un 'osservatorio' per segnalare le violazioni perpetrate contro la lingua italiana e difenderla dall'invasione delle parole straniere, in particolare inglesi (fenomeno, questo, che, se non può sorprenderci, essendo l'inglese la lingua dell'impero, non può nemmeno avallare la nostra indifferenza o, peggio, acquiescenza). In altri Paesi, ha spiegato il presidente Nencioni, un simile ente esiste già ed ha lo scopo di controllare la frequente formazione di neologismi da parte dell'industria, della scienza, dell'informatica, della medicina (ove, tanto per fare un esempio, il nostro Paese ha battuto ogni primato di infingardaggine, oltre che di servilismo, adottando pari pari, per designare la sindrome da immunodeficienza acquisita, la stessa sigla usata nei Paesi dell'area anglosassone, cioè AIDS, e ignorando l'esempio di altri Paesi, come la Francia e la Spagna, che usano correttamente la sigla conforme alle lingue dell'area neolatina, cioè SIDA). [...]
E poi mi dètte il riferimento, ma non sono riuscito a trovarlo... :(
Caro Marco 1971, non avendo in pronto il riferimento da Lei richiesto, citavo a memoria e quindi Le rispondo soltanto adesso. "Quod differtur non aufertur", recita d'altronde il proverbio latino. La posizione di Giovanni Nencioni si evince dal testo della prolusione svolta in occasione del Congresso internazionale della Società "Dante Alighieri" tenuto a Lugano il 28 settembre 1997 e riprodotto sulla rivista "API", 5-6/97, con il titolo "Plurilinguismo in Europa".
Avatara utente
Infarinato
Amministratore
Interventi: 5212
Iscritto in data: gio, 04 nov 2004 10:40
Info contatto:

Intervento di Infarinato »

Marco1971 ha scritto:E poi mi dètte il riferimento, ma non sono riuscito a trovarlo... :(
…La posizione di Giovanni Nencioni si evince dal testo della prolusione svolta in occasione del Congresso internazionale della Società "Dante Alighieri" tenuto a Lugano il 28 settembre 1997 e riprodotto sulla rivista "API", 5-6/97, con il titolo "Plurilinguismo in Europa".
Eccolo! :D
Avatara utente
Marco1971
Moderatore
Interventi: 10445
Iscritto in data: gio, 04 nov 2004 12:37

Intervento di Marco1971 »

Infarinato, you are a mago! :D Grazie infinite!
Avatara utente
Infarinato
Amministratore
Interventi: 5212
Iscritto in data: gio, 04 nov 2004 10:40
Info contatto:

Intervento di Infarinato »

Due articoli (il secondo del «nostro» Crivello) per allargare la discussione: uno e due
Avatara utente
Freelancer
Interventi: 1896
Iscritto in data: lun, 11 apr 2005 4:37

Intervento di Freelancer »

Marco1971 ha scritto: Attendo precisazioni sulle parole di Giovanni Nencioni, quando sarà in comodo di farlo, Roberto, e la ringrazio sin d’ora per il tempo che vorrà dedicar-mi/-ci.
Ecco il saggio di Giovanni Nencioni. L'ho ripreso con lo scanner e corretto velocemente, quindi eventuali errori ortografici non vanno imputati all'autore.
IL DESTINO DELLA LINGUA ITALIANA*

1. Mai prima, come oggi, è serpeggiata tra i cittadini più o meno colti, nelle pagine dei quotidiani e dei periodici, e nelle trasmissioni radiofoniche e televisive una inquietudine sul presente e sull'avvenire della nostra lingua. S'intervistano scrittori, grammatici, lessicografi; si emettono giudizi, previsioni, profezie. I pareri sono diversi, anche opposti; le loro motivazioni sono spesso emotive, intuitive, infondate. Il fenomeno, però, indica il destarsi di una coscienza linguistica pubblica, un tempo confinata nelle scuole e in una ristretta cerchia di scrittori e scriventi.
Io credo che, invitandomi a parlare sul “Destino della lingua italiana” nella 50a Giornata della “Dante Alighieri” di Bologna, il presidente amico Emilio Pasquini abbia inteso farmi riflettere sul gran tema a fondo, cioè senza appassionamenti: con la consapevolezza che lo stato e il divenire di una lingua sono oggi il prodotto di fattori, nazionali e internazionali, così numerosi e complessi da vietarci giudizi impulsivi e sommari; per scansare i quali, e le seguaci amarezze, nulla vale più di un conoscere calmo e sereno.
La parola “destino”, enunciante il tema che mi è stato proposto, guarda al futuro; a quel futuro che nello speculare e sperare umano tende a migliorare il presente. E dunque dal presente, dalle sue insufficienze e lacune, ma anche dalle sue proprietà positive, che bisogna muovere. Io muovo appunto da una di queste: dal fatto che l'italiano è una lingua nazionale; ossia la lingua che lo Stato italiano usa come voce ufficiale propria e di tutti i suoi cittadini, anche se appartenenti a comunità alloglotte. La lingua, invece, di queste non può valere da lingua ufficiale dell'Italia come unità politica. Può, tuttavia, godere di uno statuto particolare, specie se è lingua nazionale di uno Stato confinante (come il tedesco dell'Alto Adige e il francese della Valle d'Aosta), o essere variamente tutelata ai sensi dell'ari. 6 della nostra Costituzione (faccio esempi di casa nostra, ma potrei farne di molti Stati europei, dove le lingue etniche ma non nazionali, tutelate o perseguitate, non sono rappresentative della nazione).
Dire di una lingua che è nazionale la definisce solo formalmente. Pensiamo alla condizione sostanziale dell'irlandese, che è lingua materna di circa il 10 degli abitanti dell'Irlanda e non riesce, nonostante l'impegno dei nazionalisti, a riacquistare la dignità di lingua principale del paese, toltagli dal lungo dominio inglese. La condizione dell'italiano prima dell'unificazione politica del 1861 era veramente singolare, non rientrando nel diffuso schema della lingua etnica oppressa e soppiantata ufficialmente dalla lingua dello Stato oppressore. La lingua italiana era una lingua aristocratica, impostasi per incruento prestigio letterario, come lingua scritta e letteraria, ai ceti colti dell'Italia, ma parlata soltanto in Toscana e a Roma, mentre il resto della penisola e delle isole, colto ed incolto, persisteva nel parlare i propri dialetti. Dal 1861 il nuovo Stato unitario adottò come propria voce ufficiale la lingua ormai chiamata italiana (da toscana che era detta), la quale tuttavia non poté cambiare all'improvviso il proprio carattere di lingua scritta e letteraria, quindi socialmente e tematicamente aristocratica; diventò lingua nazionale solo formalmente e il neonato Stato italiano dovette mettersi a fucinarne le specialità settoriali: per la politica, il diritto, l'amministrazione, l'esercito, la scuola. L’instaurazione dell'istruzione obbligatoria e la relativa lotta contro l'analfabetismo, i liberi contatti tra le regioni, il servizio militare promossero la conoscenza della lingua nazionale; ma solo l'avvento della radio e soprattutto della televisione riuscì a trasformare un lento progresso in quel rapido, impetuoso moto di diffusione per cui negli ultimi quaranta anni l'italiano è divenuto la lingua compresa, parlata e scritta (ovviamente con coloriture regionali e con diverse approssimazioni di correttezza) da quasi tutti gl'italiani. Questo vasto processo di socializzazione ha reso l'italiano lingua effettivamente, oltre che formalmente, nazionale; ne ha inoltre dimostrato la vitalità, e la recente inchiesta del gruppo De Mauro, condotta sull'italiano parlato in quattro grandi città (Milano, Firenze, Roma e Napoli), ne ha constatato la fondamentale unità, la tendenza a riassorbire i dialettalismi, la scarsa accoglienza di forestierismi, e la riduzione della ricchezza sinonimica della lingua colta, cosa normale nel registro parlato e scontata in un fenomeno di carattere quantitativo e di rilevamento totalizzante.
Pare dunque che del presente stato interno della lingua italiana possiamo dirci soddisfatti. Ma - ci si obietta - e il degrado? Quel degrado della lingua che molti lamentano ad alta voce? Dove lo mettiamo?

2. Il lamento sul degrado della lingua è un pedale della stampa e delle conversazioni. Non si può tuttavia citarlo senza analizzarlo; riconoscendo, intanto, che l'italiano odierno si è mantenuto quasi uguale a quello creato da Dante, e lo dimostra il fatto che noi possiamo leggere la Divina Commedia, scritta sette secoli or sono, senza troppa difficoltà, mentre i francesi non possono leggere il loro poema delle origini, la Chanson de Roland, senza imparare una lingua profondamente diversa dal francese odierno. “Bella forza! - mi sento dire -. L'italiano creato da Dante e divenuto lingua classica della nostra letteratura più alta non si è modificato, perché si è tramandato come lingua scritta; la lingua d'oïl invece, cioè il francese, è stato anche lingua parlata, e si sa bene che le lingue parlate, spontaneamente vive, si trasformano, mentre quelle soltanto scritte, come canforate, si conservano”. Non possiamo negarlo; ma dobbiamo constatare che degrado vero della lingua italiana, nei sette secoli passati, non c'è stato. Ce n'è il rischio oggi, perché l'italiano oggi è parlato, oltre che scritto, da oltre cinquanta milioni di persone, che hanno istruzione e sostrato dialettale diversi e che la scuola non ha informato ne informa debitamente dei criteri della pronuncia, della differenza tra lo scritto e il parlato, dei punti in cui la lingua è in crisi, della pluralità dei suoi registri (per la quale un costrutto improprio in un registro può essere proprio in un altro); persone che si sentono rinfacciare violazioni di pseudoregole o di licenze le quali, per ricorrere nelle bocche e nelle stampe, meritano spiegazioni prima che condanne; e spiegazioni volte a motivare, con parole semplici, il fenomeno senza omettere di far notare che una lingua naturale non è una macchina logica ne un congegno perfetto ma una istituzione soggetta ai mutamenti della cultura e del costume, e la grammatica, piuttosto che un camposanto di divieti, deve essere guida a comprenderla e ad orientarci nelle sue e quindi anche nostre difficoltà.
L'odierna crisi di crescenza della lingua e l'impreparazione della scuola ad affrontarla - e la scuola è l'unica istituzione che, seguendo un alunno per molti anni, sarebbe in grado di farlo con efficacia possono darci l'impressione di una confusione babelica; che però non esiste. Esiste finalmente un italiano parlato che sperimenta sé stesso, cioè sperimenta l'intonazione, la sintassi, il lessico, la concertazione, l'avvicendamento propri del colloquio; e c'è un italiano scritto che, sotto la pressione del parlato, va semplificando le architetture sintattiche e spogliandosi di arcaismi, di forme elette, di varianti sinonimiche per avvicinarsi a quel livello di lingua media comune cui il parlato tende. Siamo in una fase di sperimentazione non riflessa, ma collettiva e spontanea; nella quale - per fare qualche esempio - ci accorgiamo a un tratto che se diciamo, o anche scriviamo, “Considerandoli amici, ho fatta loro questa proposta” invece di “...
gli ho fatto questa proposta"; oppure “Cerco una stanza dove sistemare i miei libri” (la relativa con l'infinito! bestia nera del purista Basilio Puoti) invece di “Cerco una stanza dove possa sistemare i miei libri”, ci sentiamo in pace con l'aurea grammatica, ma nel numero di coloro (non già di quelli) che parlano distinto. Tanto ormai è galoppante il ritmo della lingua. E l'acuita sensibilità di quel ritmo e delle sue implicazioni ci conferma che una diffusa coscienza linguistica va sorgendo anche in Italia.
Proprio quella coscienza punta l'indice accusatore del degrado non tanto sull'agonia del congiuntivo, sui gerghi giovanili e sul turpiloquio (giacché una lingua veramente comune deve essere in grado di dar voce a tutta l'esperienza di un popolo, anche ai gerghi, al turpiloquio e alla bestemmia), quanto sul forestierismo nella specie attuale dell'anglismo. L'allarme non pare giustificato dall'inchiesta De Mauro, a causa probabilmente del fatto che essa ha coinvolto anche strati poco colti della popolazione e quindi più propensi a macchiare il loro italiano con dialettalismi che con esotismi. E non conviene dar peso agli anglismi di moda, snobistici, destinati a tramontare come tanti francesismi che correvano nella mia gioventù; ne a quelli che ammiccano intenzionalmente all'appartenenza al costume straniero, come fast food, che in bocca italiana ha la stessa intenzione connotativa di pizza o spaghetti in bocca americana. Il vero problema è quello degli anglismi scientifici e soprattutto tecnologici. A questo punto la nostra considerazione della lingua da interna deve farsi esterna; deve passare dal confronto con sé stessa nel corso del suo tempo al confronto con una lingua straniera nel presente della vita. Può esserci utile la rievocazione di un simile precedente episodio della nostra storia linguistica: la penetrazione, nell'Italia settecentesca, della cultura illuministica per mezzo del principale suo strumento, la lingua francese, che inondò l'italiano di francesismi, provocando una sdegnata reazione puristica. Ma una parte di quei forestierismi introduceva in paesi culturalmente attardati, come l'Italia e buona parte dell'Europa, una cultura nuova e valida, sì che spiriti importanti quali - per fare due esempi nostri - Leopardi e Manzoni li accolsero con favore, e il primo li definì “europeismi”, cioè termini di una cultura unificante intellettualmente l'Europa. Leopardi giustificò il suo antipurismo con una motivazione consegnata al suo Zibaldone di pensieri: che per avere il diritto di battezzare cose o idee nuove con la propria lingua bisogna esserne inventori; e Manzoni rimettendosi all'autorità dell'uso. Quei francesismi avevano tuttavia, per essere accolti, un titolo, oltre che culturale, linguistico: possedevano radici latine o greche e avevano forme facilmente assimilabili dalla nostra lingua: chi può accorgersi, alla forma, che parole come epoca, industria (nel senso di utilizzazione di materie prime), progresso (nel senso di progresso della civiltà), coalizione, società (in senso assoluto) sono francesismi? Se veniamo al fenomeno odierno, dobbiamo riconoscere che gli anglismi non di radice latina (quali invece sono sponsorizzare, computazionale, implementare, interfaccia, facilmente, come si vede, assimilati alla struttura italiana), ma di radice anglosassone o più latamente germanica, quali trust, trend, spot, spray, stick, team, flash, break, bit, sprint, staff, presentano, oltre ad una diversità radicale, una diversità di struttura fonetica, non fosse che per terminare in consonante; donde la difficoltà dell'assimilazione all'italiano, scavalcata dal gusto della parola breve, spesso monosillabica, contro la lamentata lunghezza delle nostre parole. Tuttavia la nostra lingua, memore della felice operazione bistecca, non esita ad aggredire i prestiti inglesi, che nella divulgazione commerciale devono essere presentati in veste più o meno italofona: ed ecco, anche nella terminologia angloamericana di una disciplina nata negli Stati Uniti come l'informatica, spuntare italianizzazioni suffissali come softuerista, softuerizzare, scannerizzare “analizzare” o (ironicamente) scannare.
Ma nel campo della terminologia tecnica, dove l'anglismo imperversa, il problema non è soltanto linguistico; è anche, e soprattutto, culturale. Dobbiamo renderci conto che la cultura europea, dal Settecento ad oggi, con moto progressivamente accelerato ha mutato un orientamento plurisecolare: dal polo umanistico si è volta al polo scientifico e tecnologico, di cui gli Stati Uniti sono ormai divenuti la principale fucina. Conseguenza del nuovo orientamento e di eventi bellici e politici degli ultimi cinquant'anni sono stati l'apertura di molte frontiere statali, l'intensificarsi degli scambi di persone, idee e merci, lo sviluppo di fulminei mezzi di comunicazione (come l'informatica) che aboliscono le distanze spaziali e temporali del vecchio mondo. Se si aggiunge - come i già osservava Leopardi nel suo Zibaldone- che la scienza tende ad una lingua universale, evitando con una rigorosa monosemia gli errori della traduzione (la quale inoltre recherebbe inevitabili indugi alla fulmineità della comunicazione); appare naturale che la scienza odierna, e ancor più la tecnologia industrializzata, commercializzata e concorrenziale, cerchino un veicolo linguistico (artificiale o naturale) unico, meglio se già largamente familiare e accettato come lingua di grande comunicazione; e se lo trovano nella principale fucina di ricerca e di tecnologia, e per giunta come ramo specifico della più diffusa lingua nazionale, perché dovrebbero rifiutare l'ottima delle soluzioni?
L'inglese è dunque oggi la maggiore delle lingue di comunicazione tra le nazioni europee ed estraeuropee culturalmente più progredite. È, per dirla col linguista francese Claude Hagège, che si è molto occupato di questi problemi, una lingua a vocazione federativa. L'italiano non è così. Dobbiamo compiangerlo? Riflettiamo. I sostenitori di una lingua artificiale, che sottragga l'enunciazione scientifica e tecnologica all'insegna di una nazionalità e cultura determinate, non sono stati ascoltati. Le due lingue europee a vocazione federativa dell'antichità, il greco e il latino, furono fortemente caratterizzate in senso culturale e politico, e solo il latino del Medioevo e dell'età moderna fino al secolo XVIII poté assumere la neutralità di veicolo del sapere enciclopedico europeo.
Il francese dell'età illuministica, nella fase anteriore alla sua imposizione ad opera delle occupazioni napoleoniche, assurse a voce colta delle borghesie e aristocrazie europee non per il fatto di essere un chiaro, logico e armonioso strumento di conversazione, ma di unirle nella costruzione di una civiltà. La qualità di lingua nazionale e di lingua di una nazione dotata di forza e di prestigio fu certamente un coefficiente della diffusione internazionale del francese, non il fattore principale; e anche della sua affermazione in paesi estraeuropei colonizzati dovettero restare fondamento il rango culturale dei colonizzatori e la loro intelligenza nel farne partecipi i colonizzati: che se oggi conservano, accanto alle lingue indigene, l'uso del francese, è altresì per mantenere rapporti con un mondo più vasto e più civile. Ma si danno casi in cui il potere politico o militare può essere un fattore negativo: le conquiste della Germania nazista e la violenza esercitata su etnie e linguaggi anche a costo di deportazioni non hanno giovato, anzi hanno nociuto alla cultura e alla lingua tedesche, la cui espansione nell'Europa centrale e orientale ha subito un arresto, non soltanto per la sconfitta militare.
L'affermazione quasi universale dell'inglese non può vantare alle sue origini la crociata culturale che propagò il francese; ma una tentacolare tessitura di relazioni mercantili e di stanziamenti coloniali, fino alla costruzione del suo multiplo statunitense, che costituisce, con la sua poliedricità etnica e culturale e con la sua radicalità tecnologica e industriale, un mondo nuovo; e con tale novità ha saputo mettere in corsa o in crisi il mondo vecchio. Con la stessa lingua della madrepatria, ma con ben altra vigoria e capacità realizzatrice ha estremizzato l'orientamento sperimentale e imprenditoriale dell'Europa moderna. Se a questi fattori aggiungiamo quello della potenza economica e politica, ci rendiamo conto del persistere della lingua inglese come strumento preferito di comunicazione internazionale, nonostante la diminuzione del potere politico e del dominio coloniale dell'Inghilterra. Un altro elemento che contribuisce all'ulteriore diffusione dell'inglese o, come oggi si preferisce dire, dell'angloamericano, è la necessità - per entità etniche che non hanno una lingua nazionale o per Stati in cui si parla una molteplicità di linguaggi nazionalmente non rappresentativi (come accade in non pochi Stati africani) - di adottare una grande lingua di comunicazione come strumento dei rapporti internazionali.
L'inglese che oggi collega i centri informatici dei cinque continenti non è dunque simile al francese che collegava i circoli illuministici dell'Europa settecentesca. Quel francese era la raffinata voce del più elevato strato etico e speculativo di una cultura nazionale non molto settorializzata e radicata in un profondo humus umanistico; cultura dotata di forti virtualità di propagginazione in centri intellettualmente congeniali. L'odierno inglese ha assunto il compito di pragmatico inter- prete di relazioni internazionali e di diffusore dell'attività scientifica e tecnologica del mondo anglosassone (e del restante mondo che condivide quell'attività), con spirito, se non culturalmente neutrale, prevalentemente strumentale. Funge infatti da lingua settorialmente specificata (bancaria, commerciale, diplomatica, informatica ecc.) oppure circuita, nei suoi limiti di lingua naturale, quei risultati delle scienze pure ed applicate che negli aspetti più esoterici ed essenziali si servono di codici artificiali accessibili ai soli iniziati. In tali funzioni l'inglese tende a farsi convenzionale e modulare e ad ibridarsi di elementi ambientali.
L'universalizzazione di una lingua naturale, se produce vantaggi economici e politici alla sua nazione, può inferire - nella civiltà odierna - danni alla natura e al rango della lingua; fino a giungere agli estremi degenerativi della creolizzazione. Ma il suo primato costituisce un'insidia anche per le lingue minori; non tanto con la diretta penetrazione dell'esotismo quanto con un procedimento indiretto, inerente alla tecnica informatica, che è stato chiamato industrializzazione della lingua. È in corso, ormai anche da noi. la compilazione di thesauri, cioè di dizionari interattivi dei singoli rami del sapere, che memorizzano in lingua inglese le lingue scientifiche e tecnologiche nazionali allo scopo di rendere possibile una comunicazione monolingue immediata e continua. Ora, se i thesauri che noi (e con noi gli altri Stati ] europei) compiliamo vengono condotti sullo stampo di quelli già compilati negli e Stati Uniti (pionieri di tutti gli aspetti dell'informatica e dell'organizzazione tecnologica del sapere), avremo, attraverso il ricalco della terminologia statunitense, un conguaglio ed una omologazione del nostro sapere a quello americano. La fretta, sempre cattiva consigliera, e il desiderio di calcare le vie già pronte ed ecumeniche, i minacciano gravemente la sopravvivenza - delle lingue scientifiche nazionali. La prepotente tecnica informatica, coi suoi in, dubbi vantaggi di memorizzazione ed elaborazione dei dati, potrà eliminare, con le parole italiane per cui i thesauri statunitensi non offrono corrispondenze, concetti e strumenti della nostra tradizione. Abbiamo già denunciato questa insidia, che è in atto, e oggi torniamo a denunciarla perché, più assai del prestito diretto e male assimilabile, potrebbe portare alla eliminazione occulta di parte del lessico scientifico italiano (che ha una storia più lunga di quello americano) e avviare una lenta deriva lessicale della nostra lingua. D'altra parte il rifiuto dell'Italia a partecipare al concerto informatico angloamericano produrrebbe un isolamento dalle conseguenze non meno gravi.

3. Siamo entrati - quasi senza accorgercene - nel discorso sul futuro della nostra lingua; quel futuro incerto e insieme fatale denotato dalla parola destino, che pesa sul nostro tema. Una scienza non è però un oracolo, cui si possa chiedere un responso sul destino della lingua italiana; e se lo fosse, il suo responso sarebbe, come tutti i responsi oracolari, ambiguo. Una scienza non può nemmeno profetare; non ha quel 'dono divino. Ma può fare previsioni di probabilità sul fondamento di premesse ragionevoli. Io ne ho già fatta, or ora, una, quando ho segnalato il pericolo di una deriva lessicale, se ci mettiamo sulla via del ricalco dei thesauri scientifici e tecnologici angloamericani. C'è anche un altro spauracchio degli amatori e di qualche cultore della lingua: l'uso strumentale dell'inglese, tanto impellente da indurre i laureandi in materie scientifiche a scrivere le loro tesi in inglese, gli scienziati a scrivere i loro saggi e a tenere le loro comunicazioni congressuali in inglese, i congressi organizzati in Italia e le riviste scientifiche italiane a raccomandare o prescrivere l'uso dell'inglese. Il tutto al dichiarato fine di una immediata accoglienza nel mondo anglofono; aspirazione, per studiosi cui basti un codice di comunicazione, legittima. Questo spauracchio ha fatto emettere a un valente lessicografo la dolorosa profezia della scomparsa della lingua italiana; profezia preceduta, qualche anno fa, da analogo catastrofico presagio di un eminente storico della nostra lingua.
Io mi rifiuto di cedere alla irrazionalità delle visioni apocalittiche, cercando di tenermi, oltre che alla scienza, al buon senso. E mi domando, vedendo pullulare risentite rivendicazioni, da parte di minoranze anche modestamente dialettali, del loro idioma oppresso o naturalmente languente, mi domando: è possibile che un popolo di 56 milioni d'individui che possiede una lingua neolatina in pieno rigoglio e contigua o vicina a non meno rigogliose sorelle (lingua, per di più, nazionale e largamente socializzata); è possibile che quel popolo sostituisca tutto ciò con un inglese strumentale? Chi teme questo, pensi seriamente .che cosa è una lingua. Una lingua non è un codice. Chi usa un codice come quello matematico o geometrico o quello logico o altro convenuto sistema segnico, esprime e comunica una definita operazione mentale, una specifica funzione; ma chi forma un enunciato nella propria lingua naturale, esprime, anche non volendo, tutto sé stesso. Questa è la differenza radicale; questo è ciò che la scuola deve dimostrare nei suoi corsi d'italiano.
Se vogliamo essere pessimisti, possiamo al massimo prevedere che l'inglese strumentale si affianchi all'italiano nei settori internazionalizzati della tecnologia e nell'ormai universale codice informatico.
Una misura precauzionale - anche pel timore che i tecnicismi stranieri, penetrando nel lessico comune nazionale in forza del loro prestigio, ne emarginino o snaturino gli elementi indigeni e tradizionali - può essere la costituzione di osservatori neologici, rivolti a dettare norme per una formazione di neologismi tecnici che non violi i modi compositivi e il carattere delle lingue nazionali. La Francia, che ha grande cura della propria lingua, si è già mossa in questo senso, compilando, ad uso dei laboratori e delle industrie, un dizionario delle formanti terminologiche. Si vanno anche istituendo in più di una università europea insegnamenti e lauree in terminologia, miranti alla formazione di terminologi che aiutino i laboratori scientifici e industriali a una denominazione dei nuovi prodotti nazionalmente corretta e congruente con quella internazionale. A impiantare un simile osservatorio anche in Italia e a suscitare l'interesse delle nostre università e del nostro governo a questo importante compito di ingegneria linguistica si sta adoperando l'Associazione Italiana per la Terminologia (ASS.I.TERM), costituita a Roma nel 1991.
Tutto considerato, non dobbiamo lamentarci che la lingua italiana non sia “destinata” a possedere, nel futuro prevedibile, gli eterogenei ed aleatori requisiti per diventare una lingua di grande comunicazione. E essenziale che essa sia e resti, internamente ed esternamente, la lingua di un'alta cultura e che come tale sia ricercata dai colti stranieri in Italia e all'estero. Ed è bene che internamente sia divenuta anche una lingua di ampia socialità, cioè adeguata a tutti i livelli espressivi e comunicativi dell'intera società nazionale e sentita da essa naturalmente propria.

4. Credo necessario, a questo punto, approfondire il concetto di universalità della lingua scientifica, che si è modificato da quando lo enunciava Leopardi nel suo Zibaldone. Anzitutto in fatto di scienze egli distingueva “i moralisti, i politici, gli scrutatori del cuore umano e della natura, i metafisici, insomma i filosofi propriamente detti” dai “professori di scienze matematiche o fisiche”, cioè di scienze esatte, che “debbono esser trattate colla maggior possibile esattezza, e non danno luogo all'immaginazione... ma solamente all'esperienza, alla notizia positiva delle cose, al calcolo, alla misura ec."; scienziati esclusi - a differenza dei filosofi - dalla possibilità di scriver bene ed elegantemente (28 e 30 maggio 1823, cc. 2727-31). Quanto poi ai termini scientifici, cioè alla nomenclatura delle scienze, affermava che la nomenclatura propria di ognuna di esse è così propria che, cambiandola, si cambierebbe la faccia a quella tale scienza. “Com'è avvenuto che la rinnovazione della Chimica ha portato la rinnovazione della sua nomenclatura... La Chimica ha nuova nomenclatura, perché scienza nuova e diversa dall'antica. E così accade alle altre scienze, quando si rinnovano in tutto o in parte. Perdono l'antica nomenclatura, e ne acquistano altra, che diviene però universale come la prima... Quindi i termini di tutte le scienze, esatte o no, ma alquanto stabilite, sono stati sempre universali, ne sarebbe mai possibile, nel trattarle, l'adoperare altri termini da quelli universalmente conosciuti, intesi e adoperati, senza nuocere sommamente alla chiarezza, e toglier via la precisione” (26 giugno 1821, e. 1219). I termini delle scienze, a differenza delle parole (ricche di polisemia e di aloni connotativi e metaforici), erano per Leopardi rigorosamente monosemici e propri per forza di convenzione (ivi, cc. 1219-20). E simile gli pareva, nel suo complesso, una lingua universale: incapace di assumere l'abito delle altre lingue, di rappresentarle in qualunque modo, quindi “sommamente unica d'indole, di modo ec. e sommamente incapace d'ogni altra che di sé stessa, ed in sé stessa minimamente varia, e da sé medesima in ogni caso il men che si possa diversa. E una lingua che tenga l'estremo contrario è di sua natura... estremamente incapace dell'universalità. Non bisogna dunque figurarsi che una lingua universale ne debba ne possa portare questa utilità di supplire alla cognizione di tutte le altre lingue, di esser come lo specchio di tutte le altre, di raccoglierle, per così dir, tutte in sé stessa, col poterne assumer l'indole ec.; ma solo di servire in vece di tutte le altre lingue, e di esser loro sostituita. Anzi ella non può veramente altro ch'esser sostituita all'uso dell'altre e di ciascuna altra, e non supplire ad esse ec. Ben grande sarebbe quella utilità, ma essa è contraria direttamente alla natura di una lingua universale” (11 dicembre 1823, e. 3972). “Una lingua appropriata ad essere strettamente universale - aveva già scritto il 25 agosto 1823 deve... essere di natura sua servilissima, poverissima, senza ardire alcuno, senza varietà, schiava di pochissime, esattissime, e stringentissime regole, oltra o fuor delle quali trapassando, non si potesse in alcun modo serbare ne il carattere ne la forma d'essa lingua, ma in diversa lingua assolutamente si parlasse” (cc. 3257-58).
Così definendo una lingua universale, Leopardi definiva una lingua strumentale: cioè una lingua che, dovendo sostituirsi alle lingue naturali, poteva assolvere una funzione neutralmente e scheletricamente comunicativa, spoglia del costume, della cultura e della tradizione, della polpa insomma individuante che la lingua naturale materna porta con sé anche nella persona più incolta. Leopardi giudicava lingua universale (e perciò strumentale) anche il francese (ivi, cc. 3972-73), perché dotato di regolarità geometrica, facilità di struttura, esattezza e chiarezza materiale, precisione e certezza dei significati, “cose che si fanno apprezzare da tutti, essendo fondate nella secca ragione e nel puro senso comune"; cose, aveva precisato altrove, da.
cui deriva principalmente l'universalità di una lingua (12, 13, 14 settembre 1820, e.
243). Eppure al tempo suo il francese era la lingua soprattutto di quelle scienze filosofiche che egli riconosceva non remote dal bene scrivere ne ripugnanti alla riflessione che produce il bello e l'elegante. Figuriamoci che cosa avrebbe detto oggi dell'inglese, lingua prevalentemente applicata alla tecnologia mondiale.
Ma sono le stesse scienze esatte ad aver oggi messo in crisi il concetto di universalità. In primo luogo perché hanno emarginato dal loro intimo la presenza di una lingua naturale universale, in quanto nessuna lingua naturale, sia pure strumentalizzata a servizio di una disciplina scientifica, ne può incarnare la complessa articolazione e processualità mentale. Il vero linguaggio di quella disciplina sarà un codice artificiale, nella specie il codice matematico o geometrico, riservato a pochi iniziati, e la lingua naturale strumentale sarà ridotta ad assolvere funzioni non costitutive, ma periferiche.
In secondo luogo, il concetto di universalità è entrato in crisi all'interno degli stessi codici artificiali. Il galileiano libro della natura, leggibile con la matematica e la geometria, si è rivelato essere - ha scritto di recente un astrofisico. Luigi Radicati di Brozolo - “piuttosto una sterminata biblioteca che ormai nessuno è più in grado di conoscere nella sua totalità. La scienza si è così frammentata in tante discipline separate, fra le quali la comunicazione diventa sempre più diffide. Peggio ancora, all'interno di ciascuna disciplina si sono creati sottogruppi che si vanno rapidamente separando... Il libro che sembrava aperto è divenuto col tempo sempre più ermetico: a molte parti di esso hanno accesso solo pochissimi iniziati, mentre gli altri - non parlo dei laici, ma della maggioranza dei cultori di una disciplina - devono accontentarsi di resoconti, di sillogi... Tutto ciò non crea per ora alcun problema, perché il numero di iniziati è sufficientemente alto da permettere controlli incrociati. Potrà divenire un problema serio quando la complicazione e il costo di una osservazione o di un esperimento dovessero diventare tanto grandi da non poter essere ripetuti... Un altro grave problema dovuto alla crescente ermeticità del linguaggio matematico... continua Radicati - riguarda la comunicabilità della scienza al mondo dei laici...
Il tempo delle lettere londinesi di Voltaire, nelle quali egli diffondeva la filosofia naturale di Newton, è passato da un pezzo.
Spiegare le leggi della gravitazione newtoniana era relativamente semplice e infatti essa divenne, già durante la vita stessa di Newton, patrimonio comune della cultura. Sembra invece che la versione einsteiniana della gravitazione resti, ottant'anni dopo la sua formulazione, praticamente inassimilabile dai laici [2].
Le riflessioni del consapevole e perplesso scienziato ci avvicinano quell'esperienza scientifica e tecnologica, quel mondo delle scienze esatte che a noi profani apparivano dotati del privilegio della unità e della universalità. Nossignore come noi del mondo umanistico soffriamo ab origine della pluralità dei linguaggi, così, dopo una primitiva fase di unità e universalità, si avvia a soffrirne la scienza non nella marginalità della sua lingua strumentale (ieri il latino o il francese, oggi l'inglese), ma nella centralità dei suoi codici specifici, divenuti estremamente complessi ed ermetici ai più.
Sembra dunque che nel destino dell'esprimersi umano rientri la vocazione della differenza. Al continente che è stato il più ricco e vario di cultura, l'Europa, Claude Hagège riconosce quella vocazione anche nel campo delle lingue. È una vocazione che, culturalmente e linguisticamente, costa fatica: di comunicazione, di comprensione, d'intesa. Ma quella fatica, che si distende e riposa in aree di affinità (area neolatina, germanica, slava ecc.), ha risultati costruttivi: dal confronto con gli altri scaturisce una conoscenza riflessa di noi stessi, e la cultura e la lingua nostre abbandonano lo stato di costume passivo. Titolari, in quanto italiani ed europei, di questo destino alla differenza facciamo dunque, come consiglia il proverbio, di necessità virtù; accettiamo e miglioriamo la via assegnata dalla storia alla nostra lingua: di continuare a vivere e a svilupparsi com'è nata. nobile e pacifico strumento di cultura, in fraterna comunione con le lingue neolatine e con intelligente attenzione a lingue di struttura e tradizione diverse. Ad una universalizzazione come quella dell'inglese non la renderebbe idonea neppure la sua natura plasticamente libera, cioè scarsamente - fino ad oggi - strutturata. Di una sua strutturazione - magari analoga a quella geometrizzante che Leopardi rimproverava al francese - sarà forse fattore l'uso parlato, in cui per la prima volta il nostro italiano sperimenta sé stesso, cercando di diventare, ad ogni livello sociale, una lingua di conversazione.

5. Nel 1869 Gino Capponi, meditando sulla proposta manzoniana di soluzione della “questione della lingua” in relazione alla storia linguistica della nazione finalmente assurta ad unità statale, concludeva con parole indimenticabili, cui spesso ritorno e che voglio qui ripetere come strettamente pertinenti al nostro discorso (e al suo carattere un po' tinto - almeno nel titolo prescelto dal presidente Pasquini - di astrologia). Oggi che l'Italia unita c'è Capponi si domandava - che cosa si deve fare in materia di lingua, quando della lingua nazionale tuttora si disputa, tuttora si cerca? “Più grave - rispondeva - è fatto il nostro debito ora in tempi di sorti mutate, di sorti maggiori ma più difficili a portare; noi siamo venuti ad esse non preparati, e s'io dovessi quanto alle future condizioni della lingua fare un pronostico, direi senz'altro: la lingua in Italia sarà quello che sapranno essere gli Italiani"3. La enigmatica risposta si spiega chiarendo il pensiero di Gino Capponi, uomo del Risorgimento e ghibellino, per il quale l'eccellenza culturale e linguistica non bastava a far dell'Italia una nazione; occorreva la reale e vivente unità politica del paese, con le sue prerogative di libertà, dignità, socialità; e che la lingua non si limitasse ad essere uno strumento precostituito e imponibile esternamente a una società, ma fosse quella stessa società nella pienezza della sua individuazione ("Se lo stile è l'uomo diceva -, la lingua può dirsi che sia la nazione"). Con quel pronostico, dunque, Capponi respingeva le formule dotte e affidava alla maturazione dell'acerba unificazione politica dell'Italia, tra gli altri compiti, la responsabilità di una degna unificazione linguistica.
Invece di domandarci se l'evento storico, compiutosi sotto i nostri occhi, della effettiva nazionalizzazione e della socializzazione della lingua italiana corrisponda alle attese di Capponi, consideriamo la differenza tra i termini in cui il gran problema si pose nel tempo suo e quelli in cui si pone nel nostro. Allora si trattava di un problema prevalentemente interno all'italiano (se preferire il fiorentino o toscano, o altro impasto), essendosi attenuata, dentro una cultura europea sufficientemente omogenea, la protesta puristica contro gli europeismi illuministici di provenienza francese, ma di origine per lo più latina o greca, facilmente assimilabili dalla nostra lingua. Oggi si tratta di un problema prevalentemente esterno: del contrasto tra una soverchiante cultura internazionale pragmatica, sperimentale e tecnologica e una cultura nazionale tuttora fondamentalmente e nostalgicamente umanistica, duplicato dal contrasto tra due lingue radicalmente diverse e scarsamente assimilabili. In tanta comunicazione di persone, idee, cose, quanta il mondo di oggi promuove, un isolamento puristico della lingua nazionale è improponibile, anche perché un antico fiorentino ci ha autorevolmente insegnato che “le lingue non possono esser semplici, ma conviene che sieno miste con l'altre lingue”. Palliativi, d'altronde, come i divieti legislativi del forestierismo elaborati recentemente in Francia presuppongono una rigorosa politica linguistica che neppure là raccoglie consenso unanime. In un incontro italo-francese svoltosi a Roma, su tali problemi, il 6 maggio 1994 i partecipanti italiani si dichiararono contrari, per l'Italia, a subitanei provvedimenti autoritari, e favorevoli ad una certo più lenta, ma costruttiva educazione del cittadino alla comprensione dei valori della lingua nazionale e alla sua preservazione come doverosa preservazione di una tra le più antiche e ricche culture europee. E solo tale educazione, che - senza impedire una prevedibile evoluzione della lingua, divenuta comune e corrente, in forme più agili e più semplici, o ellittiche o proiettive, quali già si annunciano nel parlato e anche nello scritto - potrà mantenerla collegata alla tradizione letteraria, in modo che non s'interrompa l'accesso diretto ai testi originali dei nostri classici, da Dante a Manzoni, e si evitino gl’insipidì volgarizzamenti che se ne vanno facendo. Ma tale educazione non dovrà essere introversa, restando carcerata nella turris eburnea patria; dovrà aprirsi alle altre lingue neolatine - soprattutto alla francese e alle iberiche - per farsi parte attiva di una vasta solidarietà culturale. E concedendo la necessaria ospitalità all'anglismo nelle attività tecnologiche e industriali, sarà - come già consigliava Leopardi4 - largamente ospitale alle lingue sorelle, che le procureranno un arricchimento connaturale e perciò non alienante. Dal quale consiglio leopardiano viene a noi linguisti classificatori l'invito a sfumare l'usuraio concetto di prestito.
A fornire l'educazione che ho auspicata io chiamo la scuola e le chiedo un insegnamento d'italiano che riservi una parte di sé alla metodica riflessione sulla lingua nazionale: sulla sua storia, la sua struttura, i suoi valori, il suo vivere presente; ed anche sui suoi limiti di lingua naturale, per l'origine remota, lo sviluppo alluvionale e fortunoso, l'inerzia della sua (anch'essa molto naturale) antropologia arcaica, l'incapacità di esprimere tutte le operazioni della mente moderna senza il complemento di codici artificiali; ma capace, lei sola, di essere voce della nostra identità individuale e nazionale. Tale riflessione dovrà abbracciare i due aspetti fondamentali di una completa teoria dell'elocuzione: le forme del parlato e dello scritto, per darne i caratteri e le motivazioni pertinenti, ed evitare d'imporre al parlato le rigide forme dello scritto e condannare l'applicazione allo scritto di agili forme del parlato, cioè salvando quella libertà e arditezza della nostra lingua vantata da Leopardi nei confronti della eccessiva grammaticalizzazione del francese.
Una siffatta educazione mirerà dunque, col filtro di una gelosa ma aperta coscienza, a mantenere la lingua italiana fedele a sé stessa e alla insigne cultura di cui è stata banditrice; fedele, ovviamente, nell'essenza, non negli accidenti del versatile divenire. Se la scuola italiana si renderà idonea a impartirla, e i poteri pubblici se ne faranno promotori e mallevadori, il destino della nostra lingua ridurrà la sua incognita numinosa nei confini di una probabilità prevedibile e responsabile; e potrà ritenersi avverato positivamente il pronostico di Gino Capponi: “La lingua in Italia sarà quello che sapranno essere gli Italiani”. Il suo e loro destino non sarà la fissità retrospettiva dei puristi, ma la prospettiva costanza dei cittadini.
Giovanni Nencioni

*Discorso pronunciato il 22 maggio 1995 a Bologna in occasione della 50a Giornata della Società Dante Alighieri.

[1] Mi riferisco all'opera di Claude Hagège, Le soufflé de la langue. Voies et destina des parlers d'Europe, Paris 1992, tradotta come Storia e destini delle lingue d'Europa, La Nuova Italia, Scandicci (Firenze), 1995.

[2] Cito dal discorso Variazioni su un tema di Galileo, tenuto nell'Accademia Nazionale dei Lincei il 22 aprile 1995, pubblicato in “La Crusca per voi”, n. 11, ottobre 1995.

[3] Fatti relativi alla storia della nostra lingua, “Nuova Antologia”, 1869, p. 682.

[4] Cfr., anche per lo spagnolo, Zib. cc. 3389-3410, 9-10 settembre 1823. Mi scuso di avere troppe volte citato, ed ora per la penultima volta, il nome del nostro Leopardi. Ho ecceduto perché egli fu il primo grande storico della lingua italiana ed ebbe chiarissima coscienza testimoniale dello stato culturale e linguistico dell'Italia in una condizione europea che, nella mutazione degli orientamenti e su scala più vasta, si va oggi in qualche modo ripetendo.
Avatara utente
Marco1971
Moderatore
Interventi: 10445
Iscritto in data: gio, 04 nov 2004 12:37

Intervento di Marco1971 »

Grazie molte, Roberto.

So che non è questo l’aspetto essenziale del discorso (prima che qualcuno creda ch’io lo creda), ma vorrei richiamare l’attenzione su questo passo:
Quei francesismi avevano tuttavia, per essere accolti, un titolo, oltre che culturale, linguistico: possedevano radici latine o greche e avevano forme facilmente assimilabili dalla nostra lingua: chi può accorgersi, alla forma, che parole come epoca, industria (nel senso di utilizzazione di materie prime), progresso (nel senso di progresso della civiltà), coalizione, società (in senso assoluto) sono francesismi? Se veniamo al fenomeno odierno, dobbiamo riconoscere che gli anglismi non di radice latina (quali invece sono sponsorizzare, computazionale, implementare, interfaccia, facilmente, come si vede, assimilati alla struttura italiana), ma di radice anglosassone o più latamente germanica, quali trust, trend, spot, spray, stick, team, flash, break, bit, sprint, staff, presentano, oltre ad una diversità radicale, una diversità di struttura fonetica, non fosse che per terminare in consonante; donde la difficoltà dell'assimilazione all'italiano, scavalcata dal gusto della parola breve, spesso monosillabica, contro la lamentata lunghezza delle nostre parole. Tuttavia la nostra lingua, memore della felice operazione bistecca, non esita ad aggredire i prestiti inglesi, che nella divulgazione commerciale devono essere presentati in veste più o meno italofona: ed ecco, anche nella terminologia angloamericana di una disciplina nata negli Stati Uniti come l'informatica, spuntare italianizzazioni suffissali come softuerista, softuerizzare, scannerizzare “analizzare” o (ironicamente) scannare.
Il discorso del 1995 è molto simile a quello del 1997, e sinceramente non vedo in che cosa contraddice le nostre posizioni.
Avatara utente
Federico
Interventi: 3008
Iscritto in data: mer, 19 ott 2005 16:04
Località: Milano

Intervento di Federico »

Piuttosto ripetitive queste due lezioni, ma interessanti; certamente dopo averle lette non si può che concludere che il pensiero di Nencioni è alquanto sfaccettato e sicuramente non facilmente etichettabile, e che presenta notevoli sovrapposizioni e convergenze colla "nostra" "scuola di pensiero", ma anche certe non trascurabili differenze.

Comunque, ho trovato interessante questo passo:
Nencioni ha scritto:è stato nel cinquantennio dopo la seconda guerra mondiale che, per effetto di una più capillare azione scolastica e soprattutto per l'intensa trasmissione di italiano letto e parlato ad opera della radio e della televisione, la lingua virtualmente nazionale è divenuta nazionale effettivamente, in quanto compresa e parlata da quasi tutto il popolo italiano. Naturalmente tale diffusione, mentre è stata un progresso sociale, ha prodotto come spesso i fenomeni quantitativi un impoverimento qualitativo della lingua, che era e continua ad essere l'italiano dei libri scolastici. Bisogna dunque far sì che una lingua letteraria scritta, più che parlata, da una minoranza colta, estesasi in breve tempo a ceti privi di una cultura adatta a riceverla nella sua ricchezza, divenga una lingua media di civile conversazione, come è il francese.
Insomma, la rapidissima diffusione della lingua nazionale ad opera della tv è stata sicuramente positiva, ma l'italiano ha troppo rapidamente sradicato i dialetti senza essere adeguatamente assimilato nella sua ricchezza dal parlante medio (o anche medio-alto, e in generale nel parlato [comune]), che per questo motivo è impossibilitato ad attingere alla sterminata nostra ricchezza lessicale che potrebbe e dovrebbe rendere inutili tanti esotismi.
Avatara utente
Marco1971
Moderatore
Interventi: 10445
Iscritto in data: gio, 04 nov 2004 12:37

Intervento di Marco1971 »

Federico ha scritto:Piuttosto ripetitive queste due lezioni, ma interessanti; certamente dopo averle lette non si può che concludere che il pensiero di Nencioni è alquanto sfaccettato e sicuramente non facilmente etichettabile, e che presenta notevoli sovrapposizioni e convergenze colla "nostra" "scuola di pensiero", ma anche certe non trascurabili differenze.
Potrebbe elencarle, o almeno citarne qualcuna? A una prima, veloce lettura, non ho ravvisato nulla che si opponga al nostro modo di vedere.
Avatara utente
Federico
Interventi: 3008
Iscritto in data: mer, 19 ott 2005 16:04
Località: Milano

Intervento di Federico »

Marco1971 ha scritto:Potrebbe elencarle, o almeno citarne qualcuna? A una prima, veloce lettura, non ho ravvisato nulla che si opponga al nostro modo di vedere.
Be', devo dire che non sono sicuro di aver capito nel profondo il pensiero di Nencioni, che in certo modo può apparire (lo dice lui stesso) contraddittorio.
Ad ogni modo, ruotano tutte attorno alla differenza fra una lingua "umanistica" e una "scientifica" (nella fattispecie, soprattutto informatica), che è poi anche la differenza fra "parole" e "termini".

Sostanzialmente (spero di non riassumere troppo erroneamente), Nencioni dice che, per non isolarsi, non ci si può opporre all'uniformità nell'inglese della terminologia internazionale informatica e piú in generale scientifica, anche se al contempo non bisogna perdere il lessico scientifico e tecnologico italiano già esistente, che ha una storia piú lunga dell'anglofono, per semplificare la comunicazione internazionale. La vera ricchezza dell'italiano, e il motivo per cui è apprezzato e studiato nel modo, è il suo lato umanistico e culturale: è questo aspetto che va preservato, e che non può certo essere intaccato da qualche moda passeggera come, in passato, molti francesismi che non hanno lasciato traccia.

Ce n'è di differenze rispetto a quanto pensiamo noi (certo che detta a questo modo sembra che il nostro pensiero sia monolitico, dogmatico e perfettamente uniforme :?), infatti noi:
1)crediamo che usare dei termini italiani in Italia anche per descrivere i nuovi oggetti sia non solo possibile ma anche certamente non dannoso (cioè non provochi isolamento internazionale);
2)riteniamo indispensabile o quantomeno altamente opportuno creare (nei vari modi possibili) dei termini italiani per sostituire gli esotismi che tracimano nel linguaggio comune e non solo strettamente settoriale;
3)temiamo che molte parole non siano affatto solo mode passeggere, e
4)constatiamo quindi che anche il linguaggio "umanistico" è in pericolo, quantomeno di impoverimento;
5)siamo sicuri che non si possa separare nettamente il linguaggio scientifico e settoriale da quello comune e umanistico, perché si influenzano a vicenda (e che anche per questo rinunciare a un lessico scientifico autoctono renda inevitabile un'influenza permanente ben diversa dalle mode passeggere);
6)auspichiamo in ogni caso un linguaggio scientifico italiano che riduca i rischi di incomunicabilità;
7)temiamo delle modificazioni strutturali nella lingua (be', alcune sono assodate);
8)altre cose che adesso mi sfuggono.
Avatara utente
Federico
Interventi: 3008
Iscritto in data: mer, 19 ott 2005 16:04
Località: Milano

Intervento di Federico »

Vedo però che sono un po' troppo uscito dal seminato, e ho parlato di altro rispetto alle riflessioni da cui eravamo partiti, che riguardavano la reattività dell'italiano nell'assimilare parole straniere. In effetti, mi pare che questo argomento occupi veramente un ruolo marginale nell'economia di queste due lezioni, o forse non ci ho fatto caso io. Ricordo comunque che Nencioni dice che non bisogna rigettare i prestiti dalle lingue romanze "consorelle" ma anzi apprezzarli, perché sono facilmente assimilabili e diventano cosí perfettamente italiani senza danno (che poi è quello che diceva Leopardi e che abbiamo anche letto recentemente nel relativo filone).

Ma in effetti forse non è un caso che parli poco di questo argomento, perché è ottimista sul futuro dell'italiano "umanistico" e quindi dell'italiano in generale: ritiene che non possa essere cancellato dalle abitudini di 56 milioni di persone in un batter d'occhio, trova che certe parziali assimilazioni anche di termini non molto adatti alla nostra lingua (a differenza di quelli anche inglesi che derivano in qualche modo dal latino o dal greco) siano dimostrazione di questo fatto già lapalissiano e quindi non si sofferma piú di tanto sull'argomento.
Ultima modifica di Federico in data sab, 27 mag 2006 22:28, modificato 1 volta in totale.
Avatara utente
Marco1971
Moderatore
Interventi: 10445
Iscritto in data: gio, 04 nov 2004 12:37

Intervento di Marco1971 »

Stento tuttora a rinvenire una contraddizione, almeno col mio pensiero. Forse erro, ma il professor Nencioni, parlando di «felice operazione bistecca», non parrebbe avversare l’adattamento fonetico. Ricordo brevemente i principi ai quali m’ispiro (ripresi dal Castellani):

1. I forestierismi (utili) compatibili con le strutture italiane s’accettano (tango, ecc.).
2. Quelli che sono adattabili s’adattano (click –> clicco).
3. Quelli che non sono facilmente adattabili si sostituiscono con parole già esistenti (abstract –> sunto, ecc.) o con neoformazioni (smog –> fúbbia, ecc.).

E nelle neoformazioni, come credo dica anche Nencioni, sarebbe auspicabile una certa uniformità con le altre lingue neolatine.
Intervieni

Chi c’è in linea

Utenti presenti in questa sezione: Neve e 9 ospiti