«Niente da» / «niente di cui»

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patrizio
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«Niente da» / «niente di cui»

Intervento di patrizio »

"Non c'è niente da preoccuparsi/Non c'è niente di cui preoccuparsi".
Ammesso che la seconda forma è sicuramente corretta, è accettabile anche la prima? Grazie a chi interverrà.
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

La sola forma corretta è: Non c'è niente di cui preoccuparsi, perché, appunto, preoccuparsi si costruisce con la preposizione di. La frase sarebbe corretta senza niente (Non c'è da preoccuparsi), ma dal momento che il verbo impiegato richiede una preposizione, questa non può mai essere ignorata:

(1) Non c'è niente per cui non mi adopererei. (Adoperarsi per qualcosa)

(2) Non c'è niente su cui soffermarsi. (Soffermarsi su qualcosa)

(3) Non c'è niente da cui non possa scaturire un'altra cosa. (Scaturire da qualcosa)

Ecc. :)
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Millermann
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Intervento di Millermann »

Marco1971 ha scritto:La frase sarebbe corretta senza niente (Non c'è da preoccuparsi), ma dal momento che il verbo impiegato richiede una preposizione, questa non può mai essere ignorata
Mi scusi, caro Marco: non sarebbe possibile considerare quel niente come avverbio, quindi col significato di «in nessuna quantità, in nessun modo», secondo quanto riportato dal Treccani, o ancora (dal mio vecchio Zingarelli) «punto»? :?

Costituirebbe un semplice rafforzativo della negazione, come in «non me ne importa [niente]; non è [niente] vero; non ci credo [niente]».
In alcune espressioni quest'uso mi sembra molto comune: pensiamo a «qui non c'è [niente] da scherzare!», con un significato lievemente diverso da «qui non c'è niente su/di cui scherzare!».

Questi i risultati forniti da una ricerca su Google libri:
«niente da scherzare»: 427
«niente su cui scherzare»: 25
«niente di cui scherzare»: 5
Anche limitandosi alle sole forme pronominali, si nota una certa diffusione:
«niente di cui vergognarsi»: 1500
«niente da vergognarsi»: 331

Non saranno espressioni cristalline, lo ammetto (anche se, talvolta, possono essere... cristallizzate :mrgreen:), tuttavia non mi sembrano scorrette. Che ne dite?
In Italia, dotta, Foro fatto dai latini
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Marco1971
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Iscritto in data: gio, 04 nov 2004 12:37

Intervento di Marco1971 »

Naturalmente c’è tutta quella zona grigia della lingua parlata, che può ammettere frasi al limite dell’accettabilità; ma per me – non so cosa ne pensino gli altri –, le frasi da lei citate non rientrano nell’italiano normale, e ne sconsiglierei l’uso in qualsivoglia scritto che aspiri a un italiano perfettamente corretto.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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marcocurreli
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Intervento di marcocurreli »

Anche a me sembrano scorrette; anche nella lingua parlata. Volendo rafforzare la negazione, mi verrebbe spontaneo dire: «non c'è da preoccuparsi proprio per niente».
valerio_vanni
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Località: Marradi (FI)

Intervento di valerio_vanni »

Mi viene in mente la frase "Non c'è niente da ridere", che ha la stessa struttura ma suona meglio perché è molto più diffusa.

Certamente non sono assimilabili a "non c'è niente da mangiare".

Forse, nel caso di cui parliamo, quel "da" ha un significato diverso.
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Marco1971
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Iscritto in data: gio, 04 nov 2004 12:37

Intervento di Marco1971 »

Ha fatto bene a portare questo esempio, perché in effetti siamo in un caso diverso: come scrive il Battaglia, la locuzione da ridere ha valore aggettivale:

20. Locuz. – Da ridere o ridersi, da far ridere (con valore aggett.): che provoca ilarità, in quanto assurdo o strampalato o buffo; ridicolo, ridevole.

Quindi Non c’è niente da ridere potrebbe equivalere a Non c’è niente di ridicolo.

Ma questo caso particolare non mi sembra poter giustificare la costruzione incriminata oggetto di questo filone.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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