L’intervento letterario, la Critica e il lettore

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Ladim
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Iscritto in data: lun, 08 nov 2004 14:36

L’intervento letterario, la Critica e il lettore

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Metto qui alcune riflessioni, su un argomento non solo linguistico.

Il testo letterario è il risultato di un gesto semplice e complesso a un tempo... Alla ‘semplicità’ di ordinare una sequenza inalterabile di significati grafici, rispettando o evadendo norme e convenzioni più o meno ‘tradizionali’, si accompagna la complessità di organizzare una coerente e coesa successione di significati semantici: l’autore imprime nelle strutture dell’opera (nella forma e nel contenuto), attraverso un lavoro consapevole e intenzionale, le tracce di quella che potremmo chiamare, semplificando enormemente, una personale ‘interpretazione del mondo’ — a cui il lettore deve momentaneamente aderire, giusta un’azione semiotica caratterizzabile in due diversi orientamenti per certi aspetti opposti: la comprensione — quando il lettore si sforza di comprendere il proposito immesso nell’opera; la pura consolazione — quando il lettore affida la propria lettura esclusivamente ad associazioni libere, in certo modo indipendenti da quella che possiamo ancora definire la volontà dell’autore.

Questi due ‘modi’ della lettura, entrambi legittimi e appartenenti alle possibilità dell’enunciazione letteraria, preludono tuttavia alle responsabilità del lettore, il quale, di fronte a un’alternativa così fatta, può esercitare liberamente (se ne ha la possibilità) la propria scelta di conoscere o d’ignorare il messaggio dell’opera. Nel secondo caso, ovvero quello di una fruizione edonisticamente individualizzante e svincolata dall’ipotisi di un controllo filologico, la peculiarità della comunicazione letteraria — che stabilisce immutabilmente i ruoli di emittente e destinatario — soggiacerebbe a un’eversione: se al lettore non è permesso di ‘rispondere’ alla sequenza segnica del dettato, gelosamente custodita dalle proprietà allografiche del testo, egli può nondimeno ricontestualizzarne la significazione semantica, attribuendo al piano del discorso valori del tutto ‘occasionali’. Di qui ci incamminiamo verso quella particolarissima situazione in cui, essendo inibita l’evenienza di replicare a un’‘enunciazione’ ormai cristallizzatasi in un ‘detto’ immodificabile, l’unica via da percorrere equivarrebbe a quella di proporre una nuova interpretazione che possa approvare le istanze della sua replica. Sebbene quest’ultimo sia un procedimento semiotico ad ogni modo raffinato, frutto di una consapevole strategia interpretativa (cfr. il ri-uso giuridico del codice penale o dell’esegesi biblica), per certi aspetti condividerebbe alcuni dei presupposti pragmatici della lettura ‘ingenua’.

Ciò che ora rientrerebbe nei domini della nostra attenzione non è dunque la sussistenza o l’assenza, nel destinatario, di una particolare volontà interpretante, ma la focalizzazione di un comportamento, ovvero quello di chi assume un testo entro i termini di circostanze intellettuali ed empiriche arbitrariamente personalizzate. Paradossalmente, dunque, troveremmo molto vicine le due posizioni riconducibili a un lettore ‘ingenuo’ e a un lettore particolarmente scaltrito, spinto dalla necessità di adeguare la sentenza di un dettato a una realtà successiva ad essa (è il caso del giurista). Questo si spiegherebbe con il fatto che ogni lettore per sua natura è indotto ad attuare le possibilità di un testo, con propositi più o meno saldi, misurando di continuo l’utile che gliene deriva: questo utile può presentarsi sotto la forma di una semplice curiosità o di un fondamentale bisogno; ad ogni modo l’attenzione si concentra sulle esigenze del destinatario, assumendo quelle dell’emittente entro una prospettiva puramente strumentale. La critica letteraria (comunque soddisfacendo una necessità della ‘ricezione’) diversamente punterebbe la propria attenzione sulle esigenze dell’autore, ovvero dell’emittente, istituendo un dialogo meglio controllato tra i due poli della comunicazione letteraria. Si pone quindi l’accento sul comportamento ascrivibile a un modo della lettura, quello filologico (contiguo alla comprensione), il quale non si darebbe se alla fonte dell’emissione non trovassimo una volontà orientata verso uno scopo comunque determinato.

Queste considerazioni ci portano a identificare (provocatoriamente) proprio nel filologo il lettore ideale cui si rivolgerebbe la fatica dell’autore — si badi che per lettore ideale non si allude al ‘lettore implicito’: ciò a cui si pensa è qualcosa di meno ‘tecnico’, cioè a dire un individuo disposto a voler ascoltare la ‘voce’ dell' ’opera, impegnandosi a rimandare a un momento successivo a quello conoscitivo-interpretativo le più immediate esigenze solipsistiche.

(Fermiamo qui una breve e divertita considerazione di ordine etimologico: chi ‘legge’ «raccoglie» ciò che non avrebbe; chi trova quel che si attende non raccoglie, ma ribadisce ciò che già possiede; pertanto il lettore che si propone unicamente di soddisfare un’attesa preesistente alla lettura di un testo in particolare, riducendo l’intera dimensione culturale di esso alle sollecitazioni personali, giungerebbe a confermare le strutture della propria dimensione interiore senza nessun acquisto autentico — sarebbe il caso della letteratura di puro genere).

Dalla parte dell’autore, quindi, è sempre in agguato un rischio: quello di ottenere comunque un’udienza, ma senza essere ascoltato. Questo rischio (precedente anche alla democratizzazione borghese dell’aristocratica repubblica letteraria) avrebbe suggerito la strutturazione classica dei generi e degli stili in considerazione di un comportamento esigente: definire una guida implicita all’opera a cui affidare la lettura e l’interpretazione. Le stesse risorse dell’ornatus diverrebbero gli strumenti [pragmatici] con cui l’autore tenta di suggerire, per mezzo d’indicazioni metatestuali, il comportamento più idoneo alla sua lettura. Ma anche qui il rischio di vedere 'strumentalizzata' la propria fatica in una prospettiva individualizzante ed edonistica si sarebbe presentato alla coscienza dell’autore, seppur forbito dagli ausilî ‘retorici’ e ‘generici’. Sicché affidare il proprio messaggio a una sequenza di parole, pur entro un motivato e convenzionale sistema letterario, avrebbe imposto all’autore di confrontarsi con una progettazione testuale che andasse oltre le pacifiche attese di un uditorio preparato. La determinazione di un discorso interiore, depositato ad hoc nelle strutture dell’opera, diviene allora il medium per disporre la lettura su una direzione la più possibile coerente.

La ricorrenza di temi, motivi, l’uso meditato di certe soluzioni stilistiche quali si possono individuare nell’assetto di un lessico trascelto vanno a costituire l’intelaiatura con cui l’autore imposta il suo pensiero, un’elaborata catena anaforica che pervade l’intera opera, sul piano del contenuto e su quello dell’espressione. Tutte le risorse dell’autore, dunque, sarebbero finalmente impegnate a imporre al proprio interlocutore un’opinione che, al momento della lettura, non ammetterebbe alcun tipo di replica — opinione da cui tuttavia si può sempre dissentire: chiudendo anzitempo il libro. Sicché quando un autore scrive un’opera letteraria in realtà esercita l’arte di una raffinatissima persuasione, per certi aspetti non dissimile da quella di colui che ad ogni modo voglia ottenere la ‘ragione’ a spese di chi la pensa diversamente. La protesta, intesa latamente, costituirebbe la causa radicale che porterebbe all’esigenza di comporre un’opera letteraria: una più o meno risentita presa di posizione esistenziale oppure civile, o ancora tutt’e due le cose insieme (ferme restando la convinzione dell’efficacia della letteratura e la sua edificante piacevolezza). È come se ogni Autore sapesse il proprio lettore immerso nell’errore o nell’atonia morale, ed egli prendesse su di sé la funzione d’indicare la ‘giusta direzione’, la ‘verità’ offuscata da una presunzione debole ma dura a morire.

Tuttavia, a un tale sforzo promosso dal genio creativo dovrebbe rispondere un impegno proporzionatamente serio dalla parte del lettore. E ciò avviene di rado.

Il compito della Critica [la ‘meno’ paludata] sarebbe quello di sottolineare, questa volta in un linguaggio piano e chiaro, la dimensione pragmatica imposta dalla lettura di un’opera, fermare gli aspetti testuali, retorici e stilistici — a loro volta contestualizzati in una convenzione condivisa e tradizionale —, riconducibili alla strutturalità culturale dell’autore; ad esempio: una lettura che debba tener conto delle possibilità prosodiche della lingua sottolinea alcuni aspetti del contenuto attraverso un impiego particolare della figurazione verbale (l’espressione linguistica); una tipica strutturazione dei ‘campi linguistici’ concorre alla definizione di un’altrettanto tipica ‘griglia interpretativa’, che la lingua, l’idioletto dell’autore, ammannisce per analizzare a suo modo un aspetto della realtà; la concertazione di determinati motivi definisce a più riprese, attraverso quella che potremmo chiamare ‘isotopia tematica’, la coesione, la coerenza, l’intenzionalità, l’accettabilità, l’informatività del testo — tutti aspetti fondamentali della testualità che concorrono a precisare la ‘situazione comunicativa’, voluta dall’emittente, in cui deve avvenire lo scambio tra messaggio e destinatario, in altre parole la cooperazione tra autore e lettore.

Insomma, prima ancora di proporre un’idea interpretativa sul contenuto di ciò che l’autore ‘dice’, sarebbe opportuno chiarire l’atteggiamento che il lettore deve prendere su di sé per acquisire consapevolmente la peculiare ‘esperienza intellettuale’ introiettata nell’opera — o meglio, sarebbe consigliabile far sempre derivare la prima (l’idea interpretativa) dalla seconda (il comportamento del lettore secondo l’autore).
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