«C’era una volta il DOP»

Spazio di discussione su questioni che non rientrano nelle altre categorie, o che ne coinvolgono piú d’una

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Intervento di Infarinato »

bubu7 ha scritto:I fonetisti moderni hanno fatto tesoro della constatazione che i sistemi fonologici dell’italiano sono molteplici (in particolare, ma non solo, a livello spaziale e sociale) e hanno tradotto in pratica tutto questo con l’elaborazione di opere come il DiPI.
Solo una piccola chiosa: come si evince dal MaPI dello stesso Canepàri, di «sistema» fonologico italiano ce n’è sempre uno solo, con [marginali] varianti diastratiche e diacoriche, e di «pronunce modello» ce n’è una sola («moderna» o «tradizionale [aggiornata]» che sia).

Gl’italiani regionali non centrali sono fonologicamente troppo «incoerenti» per «fare sistema»: cfr. ancora il MaPI (…ovviamente i soggiacenti dialetti sono perfettamente coerenti).
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bubu7
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Intervento di bubu7 »

Quella del Canepari è sicuramente una posizione «moderna», da tenere in considerazione.
Quella del Mioni mi sembra aggiunga una sfumatura diversa, più strettamente legata, forse, alla pratica sperimentale.
Nel capitolo conclusivo, Conclusioni generali sulle tendenze evolutive del sistema, del saggio citato in precedenza, egli afferma (i corsivi sono originali):
Risulta sempre più difficile parlare di un solo sistema fonologico italiano. Ci troviamo ormai di fronte a un insieme di sistemi fonologici relativamente diversi tra loro (descrivibile in termini di diasistema) dato che la fonologia è la componente dell’italiano che ha avuto il più basso grado di standardizzazione, a causa delle modalità storiche con cui essa è stata imparata nelle diverse regioni d’Italia. La tendenza della fonologia italiana è certamente quella di un ravvicinamento a un qualche tipo di standard: ma il vecchio italiano ortoepico è un miraggio lontano.
Ho l’impressione che Canepari e Mioni dicano oggi, con parole diverse, la stessa cosa.

Per quanto riguarda la possibilità di diverse pronunce modello, mi riferivo all’indicazione, a volte presente sul DiPI, di varianti legate a sottoaree, sempre ovviamente della zona modello «centrale».
Riporto anche queste interessanti osservazioni del Mioni, sempre dalle Conclusioni:
L’abitudine a sentire rese anche molto diverse dalle proprie in bocca a parlanti della stessa o di altra regione, finisce per ridurre opposizioni come /e/ vs /E/, /o/ vs /O/, /ts/ vs /dz/, come d’altronde aveva predetto Devoto (1953), a pure varianti stilistiche o regionali libere; a maggior ragione, ciò vale per la perdita, ormai pressoché totale, dell’opposizione /s/ vs /z/.

Devoto G. (1953). Profilo di storia linguistica italiana. La Nuova Italia, Firenze.
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Intervento di Infarinato »

bubu7 ha scritto:Ho l’impressione che Canepari e Mioni dicano oggi, con parole diverse, la stessa cosa.
Piú o meno sí, ma mi sembra che il Mioni si spinga oltre, quasi a dire che le diversità [fonologiche] fra i diversi italiani regionali impediscano di fatto oggigiorno di sceglierne uno [come punto di partenza] per definire una/la «pronuncia modello».

Però, a ben guardare, portando questo ragionamento alle sue estreme conseguenze, si finisce per negare la possibilità stessa di definire una pronuncia modello per qualsiasi lingua. E allora mi pare piú coerente la posizione «nichilista» del Lepschy.

Per il resto (e anche per chiarire ciò cui accennavo poco fa), non mi ripeto e rimando a un mio vecchio intervento —e al termine di quella discussione, mi pare ci trovassimo tutti d’accordo. :)
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bubu7
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Intervento di bubu7 »

Per quanto ho capito io, il Mioni dice, giustamente, che non c’è mai stato, per l’italiano (postunitario ovviamente), un modello teorico di pronuncia desunto dalla pronuncia effettivamente diffusa in tutt’Italia. Si è cercato di estendere, al resto d’Italia, il modello teorico del fiorentino emendato (nella pratica quotidiana non applicato neanche dalla maggior parte dei fiorentini colti).
Oggi invece un modello si sta creando, partendo da un diasistema effettivo i cui diversi elementi sono sempre più vicini tra loro.
Una pronuncia modello quindi sarà sempre più consolidata (come diceva lei, con varianti marginali) ma sempre più lontana dal «vecchio» modello teorico. Quest’ultimo può benissimo però, sia per ragioni storiche sia per le sue caratteristiche, essere preso come modello di partenza per definire il nuovo, sempre più diffuso, standard.
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Veramente a me non pare che si stia diffondendo una pronuncia stàndara (né mi parrebbe auspicabile). Lo dico da anni, fin dal primissimo mio intervento nel forum della Crusca: le pronunce regionali, finché non ostacolano la comprensione, sono del tutto legittime, e sarebbe affettato per un milanese cominciare a pronunciar bène invece di béne nel parlar quotidiano. La pronuncia modello non va estesa, secondo me, a tutta la popolazione (né si potrebbe); è tuttavia, sostanzialmente, la pronuncia adottata dai professionisti della voce (attori, doppiatori, ecc.), e dovrebbe essere, sempre secondo me, osservata anche dai giornalisti televisivi.
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Federico
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Intervento di Federico »

Capisco i doppiatori (già gli attori mi convince meno, perché un attore è un personaggio, non deve essere spersonalizzato e oggettivato), ma perché i giornalisti?
Perché devono essere d'esempio? Ma l'esempio della televisione non determina certo la pronuncia di parole come bene...
Se poi intende che devono controllarsi giusto un minimo, per evitare di dire (come ho sentito recentemente al Tg1*) paziente colla z sonora... :?

*ma che telegiornale squallido e desolante, che è! Da ogni punto di vista!
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Mi sembra il caso di riproporre qui ciò che trascrissi (aiutato da Infarinato) nel forum della Crusca (filone Cadenze assurde) poco piú d’un anno fa. L’articolo, di Giuliano Bonfante e Giovanni Torti, apparve negli Studi Linguistici Italiani (20, 1994, pp. 119-122), col titolo Il problema della corretta pronuncia nel doppiaggio cinematogràfico italiano.
Ci sono molte certezze nell’ortoepia italiana, ma c’è pure qualcosa che a prima vista non quadra. Se si mette a confronto l’uso dell’italiano parlato come si può ascoltare in prevalenza tra le persone meno colte e abituate al dialetto, tra le persone con maggiori esperienze e interessi e letture, tra le persone che del parlare davanti a un púbblico si sono fatte una professione, è fàcile osservare che passando dall’uno all’altro di questi gradini si fa via via piú piena e sicura l’aderenza a quelle règole di grammàtica stòrica per cui dal latino s’è formato l’italiano e l’osservanza di quella distribuzione dei fonemi della nostra lingua che nei punti lasciati ambigui dall’ortografía è concordemente indicata da tutti i vocabolari e altri repertori di cui si dispone.

Eppure, ed ecco che cosa non quadra, ci sono alcuni particolari dell’ortoepía concordemente insegnata e registrata sui quali si sèntono, proprio sulle labbra dei professionisti della dizione, deviazioni frequenti da quella norma ideale; deviazioni che si pòssono attribuire il piú delle volte a pregiudizi o a règole inventate chissà da chi e chissà su quali fondamenti. C’è purtroppo un distacco tra l’insegnamento delle scuole di dizione e recitazione e lo studio serio della fonètica italiana secondo le sue ragioni stòriche e strutturali. Cercò di ridurre questo distacco la RAI coi suoi corsi per annunciatori degli anni tra il ‘50 e il ’70, àuspice Bruno Migliorini. Ma quei corsi sono stati poi soppressi da chi pensava che la varietà spontànea fosse preferíbile alla norma, e che quel che contava fosse unicamente farsi capire in un modo o nell’altro.

I corsi della RAI dimostràrono quanto fosse in fondo fàcile, volendo, giúngere a una pronuncia interamente corrispondente al modulo tradizionale. Ricorderemo l’esempio del compianto Màssimo Valentini, romano, che nelle sue trasmissioni al telegiornale 1 osservava in modo attentíssimo le règole di pronuncia estrànee al suo tipo natío (come quella riguardante la distinzione tra esse sorda e esse sonora in posizione intervocàlica).
Una delle vie piú importanti attraverso le quali la corretta pronuncia italiana si può diffóndere è quella del cinematògrafo. E soprattutto, data la preponderanza delle pellícole di provenienza straniera, quella del doppiaggio cinematogràfico. Ci sembra quindi útile segnalare la campagna intrapresa da un linguista attore, Àngelo Galbini, che vanta una preparazione ad alto livello tècnico nella fonología della nostra lingua contemporànea. Il Galbini, laureato all’Università di Genova nel 1973 con una tesi su Fattori stòrici e fattori strutturali della formazione del sistema fonològico dell’italiano nazionale, à deciso d’attenersi scrupolosamente, nella sua recitazione, a ciò che prescrívono senza nessuna eccezione tutti i vocabolari della lingua italiana, anche i piú recenti, come pure i lèssici e i prontuari specializzati. La pronuncia «normale» dell’italiano, per usare il termine preferito da Arrigo Castellani, esce quindi dai confini regionali della Toscana e si presenta al púbblico televisivo e delle sale cinematogràfiche di tutta Italia, sia pure per ora solo isolatamente, nella sua realtà integrale, secondo il desiderio di tanti cultori della nostra lingua.

Ci si domanda perché i professionisti del doppiaggio non si siano posti cosí seriamente il problema prima d’ora, accontentàndosi d’usare o di consigliare una pronuncia il piú possíbile neutra (anche se spesso, ma certo non sempre e soprattutto non per ogni particolarità, fondata sull’uso fiorentino o sul non troppo divergente uso romano). Se formuliamo in tal modo la domanda, è possíbile intravedere in essa la risposta: affrontare «seriamente» il problema della corretta pronuncia italiana, esse intervocàlica e rafforzamenti iniziali inclusi, è impresa complessa e delicata che esige attenzione e profonda sensibilità. Le règole che si pòssono enunciare, in questi settori, sono lontane dall’essere soddisfacenti. Se diciamo, per esempio, che tutti gli aggettivi che finíscono in -ese ànno l’esse sorda, ci troviamo poi di fronte a cortese, francese e palese, che ànno la sonora; e se si pensa d’estèndere la stessa règola a tutte le parole che finíscono in -ese, dovremo fare i conti anche con marchese e paese, che si pronúnciano con esse sonora. Né si può dare una règola única per quanto riguarda le alternanze in parole che ànno la stessa radice: borghesía [sonora] contro borghese [sorda], derisi [sonora] contro risi [sorda]. Intendiamoci: in queste differenze e alternanze non c’è nulla di capriccioso. Esse sono dovute agli sviluppi stòrici della nostra lingua, o a cause d’órdine fonètico: cortese, francese, marchese ànno [-z-] perché si tratta di voci di provenienza galloromanza o italiana settentrionale, o in cui s’è fatto sentire l’influsso settentrionale (e lo stesso è probabilmente vero anche per paese); palese e derisi perché si tratta di voci dotte (e nelle voci dotte la esse vien pronunciata sonora); borghesía perché c’è una maggior tendenza a sonorizzare in posizione protònica (ma anche e soprattutto perché la parola, diffúsasi nel sècolo scorso in collegamento con le teorie marxiste, à il suo modello nel franc. bourgeoisie). Rimane però il fatto che i non Toscani, se vògliono esser sicuri di pronunciare sempre in modo perfetto, dèbbano tener presente una casística assai particolareggiata oppure ricórrere al dizionario (come del resto si fa normalmente per l’inglese): e questo perché a suo tempo non s’è adottata una distinzione gràfica che sarebbe stata quanto mai opportuna.

Osservazioni anàloghe vanno fatte per il raddoppiamento o rafforzamento sintàttico. Il rafforzamento sintàttico è proprio, oltre che della Toscana, della màssima parte dell’Italia centro-meridionale. Ma i casi in cui esso avviene non sono dovunque gli stessi; e la scrittura non ne tiene conto (tranne quando è rappresentata l’unione di due elementi lessicali: e pure > eppure). Questo spiega perché molti di coloro che fanno un uso professionale della parola tèndano a trascurarlo, soprattutto dopo le voci bisíllabe come, dove, qualche, sopra. Ed è un peccato anche dal punto di vista della recitazione, che à tutto da guadagnare da una maggiore presenza nella frase di consonanti forti (a parte la norma della lingua nazionale che impone di rafforzare la consonante iniziale della parola che segue a dove, alcune volte il rafforzamento permette di raggiúngere una piú forte intensità drammàtica, e conseguentemente un livello artistico piú alto: per esempio in battute concitate come «Dove sei», «Dimmi dove sei», che dèvono essere pronunciate «Dove ssei », «Dimmi dove ssei »).

Anche da questo sommario ragguaglio possiamo rènderci conto della complessità del problema. Ecco dunque la necessità che i professionisti dello spettacolo si documéntino adeguatamente: solo una buona conoscenza della fonología della nostra lingua può perméttere loro di affrontare il micròfono con assoluta sicurezza; i toni e le colorazioni della voce sono ed è giusto che siano moltéplici per dar vita alle parole e ottenere una buona recitazione, ma única deve èssere la pronuncia. Una pronuncia corretta in ogni minimo particolare conferisce sicuramente una qualità superiore alla prestazione dell’artista. Ci auguriamo vivamente che i colleghi del Galbini séguano il suo esempio; e con essi gli annunciatori e i giornalisti della radio e della televisione. Occorrerebbe che attori, annunciatori e giornalisti s’impegnàssero in uno sforzo tenace per migliorare la loro fonètica, nell’intento d’offrire al pubblico, che coscientemente o incoscientemente tende ad imitarli, un modello in tutto corrispondente a quello accettato e proposto dai grammàtici e dai lessicògrafi. Non vi è nessuna difficoltà reale: basta volere, come à voluto il Galbini, e come ànno voluto tante altre persone, illustri e úmili, che àmano la propria lingua e spèrano che essa si trasmetta tutta intera ai propri discendenti.
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Intervento di Federico »

Ma tutti quegli inutili e fastidiosi accenti li hanno messi gli autori? :x
Comunque ho alcuni dubbi sulla maggiore «intensità drammàtica [...] livello artistico piú alto [...] assoluta sicurezza [...] qualità superiore alla prestazione»: mi sembra che ciò sia valido solo se lo spettatore è un "esperto" "purista" di fonetica. :roll:
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Intervento di Infarinato »

Federico ha scritto:Ma tutti quegli inutili e fastidiosi accenti li hanno messi gli autori?
Sí, e non sarebbero/sono «inutili», ma «ortoepici»… ;)
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Intervento di Federico »

Infarinato ha scritto:
Federico ha scritto:Ma tutti quegli inutili e fastidiosi accenti li hanno messi gli autori?
Sí, e non sarebbero/sono «inutili», ma «ortoepici»… ;)
Appunto. Sono "inutili" in quanto fastidiosi. L'inutilità (come l'utilità) è soggettiva.
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Federico ha scritto:
Infarinato ha scritto:
Federico ha scritto:Ma tutti quegli inutili e fastidiosi accenti li hanno messi gli autori?
Sí, e non sarebbero/sono «inutili», ma «ortoepici»… ;)
Appunto. Sono "inutili" in quanto fastidiosi. L'inutilità (come l'utilità) è soggettiva.
No, per chi vuole/deve apprendere la [pronuncia modello della] nostra lingua è oggettivamente utile… E poi Lei è sicuro d’azzeccare tutte le vocali aperte e chiuse? (Io, sí. 8) )
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Intervento di Federico »

Infarinato ha scritto:E poi Lei è sicuro d’azzeccare tutte le vocali aperte e chiuse?
No, anzi ne sbaglio parecchie (di quest'articolo, solo poche e per la verità): ma una simile folla di accenti non mi fa certo venir voglia di correggermi; mi irrita soltanto. Perché non si può mischiare l'intento educativo con le altre funzioni (o non funzioni) della scrittura, anche se è comprensibile in un articolo in tema come quello: ma mi auguro che non siano tanto prodighi di accenti in ogni loro scritto.

P.s.: comunque ribadisco che l'utilità è soggettiva, nel senso che una cosa è utile non tanto quando serve a raggiungere uno scopo, ma piuttosto quando offre un buon rapporto scopo raggiunto/prezzo per raggiungerlo. E questo prezzo è soggettivo. Potrei fare degli esempi, ma meglio non divagare.
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Intervento di Marco1971 »

Anche l’irritazione è soggetta alle varie circostanze fisiche e psicologiche dell’individuo, e se si fosse scritto sempre con tutta quella folla d’accenti, ora lei non sarebbe irritato. :D
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Intervento di Federico »

Marco1971 ha scritto:Anche l’irritazione è soggetta alle varie circostanze fisiche e psicologiche dell’individuo
Certo. Per questo il "prezzo" di cui parlavo (e quindi l'utilità) è soggettivo.
Marco1971 ha scritto:e se si fosse scritto sempre con tutta quella folla d’accenti, ora lei non sarebbe irritato. :D
Ah, be', certo, si fa l'abitudine a tutto: anche ai forestierismi, ai regimi totalitari, alla guerra, agli assassinî*... non mi sembra un buon motivo per non opporsi (o, nel caso di cose piú semplici come gli accenti, per negarsi il diritto di infastidirsi e irritarsi).

*esempi esagerati e casuali
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Ma i regimi totalitari, gli assassinii (e anche, spesso, i forestierismi) causano danni profondi, mentre se il solo danno di segnare gli accenti ortoepici è la sua personale irritazione, voglia scusarmi, ma mi pare trascurabile. ;)
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