Freelancer ha scritto:Era un esempio che, insieme con fiat, voleva indicare che l'italianità di una parola può essere individuata - secondo i punti di vista - con la struttura identificante, come dice Marco, o con il significato particolare da essa assunto e la diffusione dell'uso o con entrambi. Insomma una parola può essere nata straniera e rimanere straniera nell'aspetto; ma se la lingua l'adotta, la fa propria.
Anzitutto
fiat e
bar non condividono lo stesso grado d’italianità: sia che si consideri la frequenza d’uso, sia che si guardi alla forma,
bar è una parola accettabile in italiano, mentre
fiat rimane una citazione occasionale con terminazione anitaliana.
Una parola
può rimanere straniera nell’aspetto, ma quando diventa d’uso comune ci si può domandare se non sia auspicabile darle un abito che non contrasti troppo col lessico di base.
Freelancer ha scritto:Un figlio adottato è diverso da uno naturale perché può avere tratti genetici diversi da quelli dei genitori; i quali però lo plasmeranno a loro immagine e somiglianza per quanto riguarda i gusti personali e la loro cultura, senza parlare dell'influsso dell'ambiente, che sarà completamente diverso da quello che sarebbe stato esercitato dall'ambiente in cui il bambino sarebbe altrimenti cresciuto.
Un figlio adottato appartiene all’ambito ristretto della propria famiglia e cerchia sociale, le parole son di tutti; il figlio adottato dura quanto umana vita può durare, le parole (non tutte, sia chiaro) attraversano i secoli; e come il figlio adottato si piega alle convenzioni dell’ambiente in cui viene a trovarsi (o viene emarginato), cosí le parole dovrebbero assoggettarsi alle convenzioni della lingua che le accoglie (e non sto a ripetere quali sono, ché lo sanno tutti).
Freelancer ha scritto:Quindi la struttura identificante del bambino (della parola) lo contrassegna come straniero, ma il suo sviluppo (la sua risemantizzazione) ne stabilisce inequivocabilmente la sua appartenza al nuovo ambiente in cui vive e prospera.
Il paragone, s’è capito, non è molto calzante, e si potrebbe anche aggiungere che il bambino adottato (mettiamo che sia di lingua straniera), nel giro di pochi anni parlerebbe un italiano che non lo distinguerebbe piú dagli altri bambini indigeni: si sarebbe, insomma, fuso colla circostante loquela (come i forestierismi utili si sono sempre fusi col resto della lingua).
E concludo con questa riflessione: quando si parla di lingua non si può mai prescindere dalla forma: le lingue
sono forme. Sequenze di suoni (rappresentate da sequenze di lettere) che permettono di distinguere un sistema da un altro. Togliere di peso una voce da un’altra lingua, cambiandone o no il significato, non rende quella sequenza fono-grafica italiana, a nessun effetto. Rimane un prestito, piú o meno comune, ma sempre un prestito. E che ci possano essere prestiti integrali nelle lingue non costituisce minaccia alcuna per esse. La minaccia prende corpo e consistenza vampiresca quando questi esotismi guadagnano sempre piú terreno, fagocitando in modo surrettizio le risorse autoctone.
Est modus in rebus: sunt certi denique fines, / quos ultra citraque nequit consistere rectum.