Sullo stile di Carmelo Bene
Inviato: mar, 10 nov 2009 19:03
Buongiorno a tutti,
Il brano riportato qui di seguito è tratto dall’inizio di Lorenzaccio, un racconto di Carmelo Bene. Mi interesserebbe molto sapere cosa pensano degli studiosi della letteratura e della lingua italiana come voi dello stile e della tecnica di Bene. Io, da profano, trovo il suo modo di scrivere immaginifico e ingegnoso, seppure a tratti un po’ difficile e (perdonatemi la volgarità) al limite della “supercazzola” (a proposito, esiste tale parola in qualche dizionario?).
"Lorenzaccio è quel gesto che nel suo compiersi si disapprova. Disapprova l’agire. E la Storia Medicea, dispensata, non sa di fatto stipare questo suo (?) enigma eroico; ha subìto e glorificato di peggio, questa Storia.
Ma le cose son due: o la Storia, e il suo culto imbecille, è una immaginaria redazione esemplare delle infinite possibilità estromesse dalla arbitraria arroganza dei “fatti” accaduti (infinità degli eventi abortiti); o è, comunque, un inventario di fatti senza artefici, generati, cioè, dall’incoscienza dei rispettivi attori (perchè si dia un'azione è necessario un vuoto della memoria) che nella esecuzione del progetto, sospesi al vuoto del loro sogno, così a lungo perseguito e sfinito, dementi, quel progetto stesso smarrirono, (de)realizzandolo in pieno. Certosini nel lavoro paziente del lucidar la trama dei preparativi, cauti, meticolosi, febbrili dell'angoscia inconfessabile dell'insonnia dell’esserci - onnipresenza inumana intollerabile del sé a se stesso -, precipitarono nell'attimo tutta una vita pensosa: il gesto. E non furono più. Per un attimo. Estromessi dalla godibilità del vuoto dalla felicità sempre invisibile; per svegliarsi subito dopo, nuovamente sovreccitati e infelici, mascherati da zingare a cavallo - turisti o esuli poco importa - per le vie d’acqua putrida a Venezia, città termale del nostro secolo per coloro che vogliono morire.
Non si può assassinare un bel niente. Tutti i Bruti son bruti minerali in quell’attimo, che non è commendevole, non è esecrabile; perchè non è. Dunque questi non è son l’accaduto. Infinito futuro trapassato; mai presente. Non si dà un delinquente. Delinquere è mancare. Delitto è il vuoto del progetto-crimine; la realtà del progetto è la sua vertigine, finalmente impensabile e vuota. Vezzeggiare un progetto è dissuadersene, svogliarlo. Si può azzardare un gesto, non mai compierlo. Ogni azione, per quanto comprensibile, è impensabile, e la Storia è un ipotesi dell’antefatto, o il dizionario del mai accaduto. Resta il “misfatto”, di che va fiero ogni storicismo: il misconoscimento d’ogni fatto, consegnato dal vuoto all’eresia della storia irreale dell’essere. Storia del vicinato. Se davvero criminali e colpevoli, le nostre storie (irruzioni nell’attimo) non ci riguardano; accadono ai vicini e alla loro indignata indifferenza. E non è certamente quello in fiamme l’appartamento che brucia, ma l’occhialuta curiosità dirimpettaia, e quell’altra indispettita adiacente delle finestre.
Numerazione e nominazione è la Storia; storiografia dei morti che mi esclude. Vivente, io sono incomprensibile alla Storia; così come la Storia non mi riguarda.
Lorenzino di Pierfrancesco de’ Medici scelse un volto al disagio giovanissimo d’essere al mondo; una idea sola, ossessiva, sorteggiata dal groviglio chimerico delle speculazioni umanistiche, dal magma troppo eclettico della ricerca etica, perseguìta dai molti al solo scopo di raccontarsela. Un’idea fissa in che identificare un mestiere esigente da sostituire alla propria idea di spettro. Un giorno, forse - pensava o era pensato -, mi basterà disfarmene, per appendere il tragico cappello celebrale all’incoscienza del vuoto. Gli occorse una palestra: Roma e la corte di Clemente VII, per cominciare, simulacro del Dio per eccellenza; la città santa dove si coltiva, gratuito, il sogno d’attentare al Papa. Lorenzino dà prova d’inquietudine e insofferenza per quell’umanesimo che inganna il trauma del nessun presente nel culto dei relitti imperiali, sedicente memoria degli eventi che non furono mai, se non presenti anch’essi e smemorati.
Cominciò a “rovinare le rovine”, quelle dell’arco di quel Costantino che, impugnata la croce dall’elsa, legittimò il ridicolo della fede e la mondanità temporale dell’Essere. Si faceva la mano, Lorenzaccio. S’allenava a disfarsi della mano, disapprovando il gesto. Nella luna romana di quella notte, armato d’un arnese occasionale, prese a infierire su quelle teste pietrificate: il suo gesto veniva anticipato dal rumore prodotto; il tufo frantumava ancora prima d’esser percosso. Lorenzo, interdetto, vibrò un secondo colpo e un terzo, e di nuovo le statue rovinarono in suono amplificato prima d’esser colpite dal suo intento barbarico. L’accaduto sonoro precedeva la dinamica gestuale.
Purtroppo Lorenzo s’accaniva, eccitato non forse dallo scandalo asincrono, ma dalla risonanza comunque spropositata dei colpi inferti: eccessiva, come se ne vibrasse, enorme timpano, la città eterna. E Lorenzino, con la sua brigata, aveva improvvisato e non preordito quello scempio degli uomini di pietra, e lo compiva reduce esaltato dal naufragio del vino. Infieriva sulla irrealtà trascorsa di quei sassi, sognando d’essestare i suoi fendenti sopra il cranio metallico dello zio Pontefice che, impigliato tra il marmo sudaticcio dei lenzuoli, non opponeva resistenza alcuna, ma risuonava, è vero, e quanto alonato!, del rumore ch’è proprio al guscio vuoto delle armature nella sala immensa. Irrappresentabile."
Saluti.
Il brano riportato qui di seguito è tratto dall’inizio di Lorenzaccio, un racconto di Carmelo Bene. Mi interesserebbe molto sapere cosa pensano degli studiosi della letteratura e della lingua italiana come voi dello stile e della tecnica di Bene. Io, da profano, trovo il suo modo di scrivere immaginifico e ingegnoso, seppure a tratti un po’ difficile e (perdonatemi la volgarità) al limite della “supercazzola” (a proposito, esiste tale parola in qualche dizionario?).
"Lorenzaccio è quel gesto che nel suo compiersi si disapprova. Disapprova l’agire. E la Storia Medicea, dispensata, non sa di fatto stipare questo suo (?) enigma eroico; ha subìto e glorificato di peggio, questa Storia.
Ma le cose son due: o la Storia, e il suo culto imbecille, è una immaginaria redazione esemplare delle infinite possibilità estromesse dalla arbitraria arroganza dei “fatti” accaduti (infinità degli eventi abortiti); o è, comunque, un inventario di fatti senza artefici, generati, cioè, dall’incoscienza dei rispettivi attori (perchè si dia un'azione è necessario un vuoto della memoria) che nella esecuzione del progetto, sospesi al vuoto del loro sogno, così a lungo perseguito e sfinito, dementi, quel progetto stesso smarrirono, (de)realizzandolo in pieno. Certosini nel lavoro paziente del lucidar la trama dei preparativi, cauti, meticolosi, febbrili dell'angoscia inconfessabile dell'insonnia dell’esserci - onnipresenza inumana intollerabile del sé a se stesso -, precipitarono nell'attimo tutta una vita pensosa: il gesto. E non furono più. Per un attimo. Estromessi dalla godibilità del vuoto dalla felicità sempre invisibile; per svegliarsi subito dopo, nuovamente sovreccitati e infelici, mascherati da zingare a cavallo - turisti o esuli poco importa - per le vie d’acqua putrida a Venezia, città termale del nostro secolo per coloro che vogliono morire.
Non si può assassinare un bel niente. Tutti i Bruti son bruti minerali in quell’attimo, che non è commendevole, non è esecrabile; perchè non è. Dunque questi non è son l’accaduto. Infinito futuro trapassato; mai presente. Non si dà un delinquente. Delinquere è mancare. Delitto è il vuoto del progetto-crimine; la realtà del progetto è la sua vertigine, finalmente impensabile e vuota. Vezzeggiare un progetto è dissuadersene, svogliarlo. Si può azzardare un gesto, non mai compierlo. Ogni azione, per quanto comprensibile, è impensabile, e la Storia è un ipotesi dell’antefatto, o il dizionario del mai accaduto. Resta il “misfatto”, di che va fiero ogni storicismo: il misconoscimento d’ogni fatto, consegnato dal vuoto all’eresia della storia irreale dell’essere. Storia del vicinato. Se davvero criminali e colpevoli, le nostre storie (irruzioni nell’attimo) non ci riguardano; accadono ai vicini e alla loro indignata indifferenza. E non è certamente quello in fiamme l’appartamento che brucia, ma l’occhialuta curiosità dirimpettaia, e quell’altra indispettita adiacente delle finestre.
Numerazione e nominazione è la Storia; storiografia dei morti che mi esclude. Vivente, io sono incomprensibile alla Storia; così come la Storia non mi riguarda.
Lorenzino di Pierfrancesco de’ Medici scelse un volto al disagio giovanissimo d’essere al mondo; una idea sola, ossessiva, sorteggiata dal groviglio chimerico delle speculazioni umanistiche, dal magma troppo eclettico della ricerca etica, perseguìta dai molti al solo scopo di raccontarsela. Un’idea fissa in che identificare un mestiere esigente da sostituire alla propria idea di spettro. Un giorno, forse - pensava o era pensato -, mi basterà disfarmene, per appendere il tragico cappello celebrale all’incoscienza del vuoto. Gli occorse una palestra: Roma e la corte di Clemente VII, per cominciare, simulacro del Dio per eccellenza; la città santa dove si coltiva, gratuito, il sogno d’attentare al Papa. Lorenzino dà prova d’inquietudine e insofferenza per quell’umanesimo che inganna il trauma del nessun presente nel culto dei relitti imperiali, sedicente memoria degli eventi che non furono mai, se non presenti anch’essi e smemorati.
Cominciò a “rovinare le rovine”, quelle dell’arco di quel Costantino che, impugnata la croce dall’elsa, legittimò il ridicolo della fede e la mondanità temporale dell’Essere. Si faceva la mano, Lorenzaccio. S’allenava a disfarsi della mano, disapprovando il gesto. Nella luna romana di quella notte, armato d’un arnese occasionale, prese a infierire su quelle teste pietrificate: il suo gesto veniva anticipato dal rumore prodotto; il tufo frantumava ancora prima d’esser percosso. Lorenzo, interdetto, vibrò un secondo colpo e un terzo, e di nuovo le statue rovinarono in suono amplificato prima d’esser colpite dal suo intento barbarico. L’accaduto sonoro precedeva la dinamica gestuale.
Purtroppo Lorenzo s’accaniva, eccitato non forse dallo scandalo asincrono, ma dalla risonanza comunque spropositata dei colpi inferti: eccessiva, come se ne vibrasse, enorme timpano, la città eterna. E Lorenzino, con la sua brigata, aveva improvvisato e non preordito quello scempio degli uomini di pietra, e lo compiva reduce esaltato dal naufragio del vino. Infieriva sulla irrealtà trascorsa di quei sassi, sognando d’essestare i suoi fendenti sopra il cranio metallico dello zio Pontefice che, impigliato tra il marmo sudaticcio dei lenzuoli, non opponeva resistenza alcuna, ma risuonava, è vero, e quanto alonato!, del rumore ch’è proprio al guscio vuoto delle armature nella sala immensa. Irrappresentabile."
Saluti.