«Purismo e neopurismo»
Inviato: gio, 27 apr 2006 20:16
Per chi fosse rimasto scioccato dalle mie considerazioni balzane di oggi, riporto alcuni brani del saggio di Bruno Migliorini «Purismo e neopurismo», in La lingua italiana nel Novecento, Firenze, Le Lettere, 1990 (ristampa 2003), pp. 97-107.
L’aspetto di parole italiane è dato dalla conformità alle norme strutturali della lingua. Anzitutto quelle fonologiche. Riprendiamo l’esempio di prima: tango e rumba da un lato, charleston e jazz dall’altro. Nei due primi termini i singoli suoni, la formazione delle sillabe, le vocali finali sono conformi a innumerevoli altre voci italiane; invece in charleston l’accento iniziale e la sillaba finale, in jazz il timbro della vocale e la z sonora rappresentano altrettante caratteristiche del forestierismo. S’aggiunge, nei due ultimi casi, la grafia straniera.
Mentre il principale criterio del purismo ottocentesco era piú o meno chiaramente quello della provenienza, il neopurismo considera come criterio fondamentale la disformità dalle norme strutturali della lingua. I fatti dimostrano che questo criterio è molto piú applicabile del primo: mentre i puristi non sono riusciti a eliminare debutto, sabotare ecc., s’è visto che alcuni tentativi neopuristici sono riusciti quasi del tutto: chauffeur, régisseur, record sono in breve tempo quasi scomparsi. Sarà, riteniamo, da perseverare su questa via: procurare cioè di sostituire le parole che presentano caratteristiche fonetiche forestiere.
Per ottenere ciò, non è sufficiente eliminare i gruppi difficili solo nella scrittura: scrivere clacson, futbol o reclàm non basta a rendere italiani quei vocaboli. Meglio, se non si può giungere a un’assimilazione piú radicale, ciò che sembra molto difficile, eliminarli per altra via (sostituirli con sirena, calcio, pubblicità o altrimenti).
Il caso piú difficile a risolvere è quello delle finali consonantiche: bar, chifel, crup, soviet, film, ecc. Benché lo schema fonologico tradizionale dell’italiano, fondato sulla pronunzia toscana, rifiuti in genere le uscite consonantiche, la resistenza del sentimento linguistico è ora piú ora meno grande. Se è ammesso in poesia mar, si può invocare la tolleranza per bar. Ma per chifel/chifelle, rum/rumme, gas/gasse, vermut/vermutte, ecc., la lingua è ancor oggi davanti a un dilemma non risolto: essa, pur sentendo il disagio che le recano voci non conformi al ritmo generale della lingua²¹, non sa decidersi ad accettare le forme toscane, che le sembrano limitate da un punto di vista territoriale, e popolari o addirittura plebee da un punto di vista sociale.
[...] Altro punto fondamentale è l’atteggiamento verso il passato. Entro quali limiti ci si deve servire di parole appartenenti al tesoro lessicale tramandato dalla tradizione, ed entro quali limiti dar via libera ai neologismi? Ed è lecito estendere il significato delle parole, o ci si deve sforzare di mantenere intatto il significato tradizionale? Chi non dimentichi la mirabile continuità che lega da Dante a oggi tutta quanta la lingua italiana, sarà seriamente ammonito a non procedere troppo in fretta. Correr troppo, voltar bruscamente le spalle al passato significherebbe interrompere questa continuità, la piú lunga che vanti una lingua europea. Ma, si badi, altro è procedere a passi moderati, altro è fermarsi a contemplare il passato mentre gli altri camminano in fretta.
[...] Il neopurismo deve a volta a volta prender posizione anche in tali problemi per risolvere concretamente quello che è il suo problema fondamentale: come può l’italiano esprimere italianamente tutti i portati della civiltà moderna, come può essere insieme italiano ed europeo?
Una nozione non ha bisogno di essere espressa con una parola italiana finché si tratta di nozioni esclusive di altri popoli (oggetti, usi, titoli, ecc.). Chi scrive harakiri o tomahawk può adoperare la voce straniera, senza bisogno d’assimilarla: chi si sforza di conoscere l’uso o l’oggetto esotico si sforzi d’imparare anche il nome.
Ma non appena la conoscenza si fa piú approfondita e l’uso piú frequente, sarebbe desiderabile che cominciasse ad apparire una forma italianizzata. Accanto alla forma norvegese fjord si usa oggi frequentemente fiordo: il termine, pur riferendosi a una particolarità geografica locale, si conosce largamente per spedizioni e crociere nordiche, è applicato come termine geografico generale, ecc. Ma perché non s’è italianizzato iceberg in *isbergo? L’analogia lo avrebbe facilmente sostenuto (cfr. Islanda e Spilimbergo) solo che un esploratore o un giornalista l’avesse lanciato.
[...] Il neopurismo degli ultimi tempi, riprendendo con altro spirito la campagna, e scindendo la lotta contro i forestierismi da quella contro i neologismi, ha mostrato che si può benissimo soddisfare alle esigenze della circolazione linguistica europea senza venir meno alle necessità strutturali della lingua nazionale.
²¹ Meglio tollerabili riescono le voci fonosimboliche come crac, picnic, zigzag.