Grafia dei neologismi formati con un prefisso cogeminante

Spazio di discussione su questioni di carattere morfologico

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Ladim
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La persuasione e la cultura

Intervento di Ladim »

Il verbo "imporre" rimanderebbe a un comportamento del tutto fuori luogo in un contesto democratico come quello attribuibile ai «fatti di lingua» (democratico a tal punto che qualcuno potrebbe pensare anche a un'anarchia...); non esiste norma che non abbia il suo modello nell'uso, o ancora meglio nell'uso di una tradizione più o meno prestigiosa, più o meno longeva etc. La premura di istituire un'autorità in grado di fare chiarezza su quanto si debba considerare, sotto il profilo linguistico, "buono" e "non-buono" è auspicabile e sacrosanta; ma credo che il problema vada rintracciato in un ambito meno "scoperto", direi profondo nella misura in cui investe più in generale il comportamento "sociale", e non quello stesso che coinvolgerebbe il dominio (latamente grammaticale) di una autorità dirimente... o anche quello di una buona o pessima scolarizzazione (se l'assunto resta la scarsa diffusione di una lingua moderatamente sorvegliata).

Riterrei più opportuno chiedersi come mai, tra i più giovani, in generale tra coloro che ad ogni modo possono vantare una "buona" scolarizzazione, tra coloro, insomma, che, volendo, potrebbero eleggere per sé tutt'altra lingua da quella adoperata di fatto, si "ostinino" a parlare una lingua altrimenti definibile come "barbara", per i meno animosi, forse ancora «neo-standard».

Una risposta generica (ed evasiva) chiamerebbe nuovamente in causa la «cultura» in senso lato, la quale orienterebbe ancora il nostro senso estetico suggerendo a ognuno il proprio comportamento linguistico e no (metterei da parte le cosiddette «competenze testuali», l'uso dei vari «registri» e i «sottocodici» etc.).
Una risposta puntuale, diversamente (forse!), coinvolgerebbe, ancora sul piano sociale, il principio più circoscritto di «persuasione», secondo il quale un locutore mediamente scolarizzato, pur disponendo originariamente di un «repertorio linguistico» ad ogni modo vasto, limiterebbe le proprie scelte lessicali e sintattiche in funzione di un vero e proprio progetto culturale, quest'ultimo orientato non solo a realizzare una determinata identità individuale, ma anche a esibire una chiara adesione nei confronti di quel modello culturale che, in ultima analisi, si è dimostrato (al giudizio del nostro locutore) più persuasivo di altri.

Quel che inizialmente porterebbe un locutore più o meno esperto ad ammannire un discorso gravido di forestierismi, di soluzioni sintattiche marcate diastraticamente, anche di vocaboli osceni sarebbe allora il frutto di una "persuasione" ottenuta a vantaggio di un determinato (specifico!) modello culturale (e quindi a tutto svantaggio di una più estesa competenza linguistica) riconducibile proprio all'uso di quelle stesse scelte lessicali e sintattiche (ricorderei che la stessa proposta bembiana s'informava di una precisa scelta culturale prima ancora che schiettamente linguistica...) .

Una nazione come la nostra, ormai depauperata culturalmente, colmerebbe le proprie "lacune" infarcendo la propria lingua di prestiti acclimati e no anche quando potrebbe adoperare parole squisitamente nostrane.

Un individuo di quella stessa nazione si educherebbe ad adoperare quelle stesse parole perché il contesto in cui vive presenterebbe come buono un modello culturale appunto infarcito di prestiti etc.

Infine, se il modello culturale è poi quello sciorinato dalla ("nostra") televisione (per tacere dei quotidiani!), allora a maggior ragione si adopererebbero quei forestierismi e questi errori: «persuàdere, régimi, redarre, inerente il, le speci, rùbrica, ìncavo» (con tutta probabilità destinati a divenire la norma di domani) etc.

Ripeterei allora quello che qualcun altro ha già detto: per diffondere una lingua bisogna diffonderne la cultura - e per diffondere la cultura bisogna farne apprezzare, prima dell' "utilità", la bellezza (ed è qui che noi potremmo esibire la nostra "carta vincente"; la stessa di sempre [su cui si fonda la nostra migliore cultura; ma ormai, io temo, sentita da tutti confinata nel passato, e per questo meno attiva di altre - di quella, ad esempio, economica "anglo-americana" etc.]: la nostra cara letteratura italiana!).

[Ma il discorso meriterebbe un'infinità di precisazioni...]
Avatara utente
Incarcato
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Intervento di Incarcato »

Cioè, secondo Lei (sempre che abbia ben inteso), sapremmo tutti scrivere ed esprimerci ad un buon livello, ma deliberatamente sceglieremmo di conformarci ad uno stile sgangerato ed infarcito di forestierismi mal adattati ed usati a sproposito perché sentiremmo il modello culturale rappresentato da quello stile come superiore al nostro, vecchio e «depauperato culturalmente»?
atticus
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Intervento di atticus »

Il "disprezzo" per il vulgo cui accennavo consiste di quell' atteggiamento "aristocratico" che l'intellettuale italiano ha sempre (talvolta inconsciamente) assunto, a dispetto delle buone intenzioni squadernate.

Per tornare sull'autorità linguistica ecc., temo una robusta commissione parlamentare (i.e. un gracidante pantano).

Infine, ripropongo in altri termini la domanda a Marco71:
la tivvú di Stato, che fa il verso alle tivvú commerciali, troverebbe utile propagar la lingua? Una trasmissione, che ha per oggetto la lingua italiana, incontrerebbe tali consensi da permettere alla RAI quella raccolta (robusta) di pubblicità che insegue con pervicacia?
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Forse la televisione non ricaverebbe nessun utile dalla pubblicizzazione dell'autorità linguistica. Ma sarebbe un suo dovere.

Io non intendevo trasmissioni sulla lingua, ma pubblicità per l'Accademia della Crusca qualora, per legge, fosse riconosciuta come «suprema autorità sulla lingua».

Cosí come c’è pubblicità per un formaggio o per un analgesico o ancora per un detersivo, perché non si potrebbe considerare anche per la Crusca? Ricordo che qualche anno fa ci fu pubblicità per il dizionario della Treccani («IL dizionario», diceva).

Per quanto riguarda il «disprezzo per il vulgo», avevo capito bene; volevo solo sottolineare che mi dissocio dal giudicare in tal campo.
Ladim
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Intervento di Ladim »

incarcato ha scritto:Cioè, secondo Lei (sempre che abbia ben inteso), sapremmo tutti scrivere ed esprimerci ad un buon livello, ma deliberatamente sceglieremmo di conformarci ad uno stile sgangerato ed infarcito di forestierismi mal adattati ed usati a sproposito perché sentiremmo il modello culturale rappresentato da quello stile come superiore al nostro, vecchio e «depauperato culturalmente»?
No. La competenza linguistica [ad ogni modo] passiva importerebbe una volontà (mi perdoni l'ossimoro) altrettanto passiva, e l'adesione a uno specifico modello culturale avverrebbe insensibilmente, o, a essere più precisi, in modo a-critico (ed è qui il problema, io credo).

Soltanto i parlanti più colti e sensibili otterrebbero quella coscienza linguistica, critica appunto, con cui intraprendere una scelta in tutto e per tutto consapevole etc. (e di solito l'escursione in questi casi si orienta verso l'alto - ma non è detto).

In altre parole: se lei oggi provasse a spiegare al locutore "medio" (magari un laureato in Economia) che la «diatesi media» (o meglio: quella che anche nella lingua italiana potrebbe chiamarsi «diatesi media») chiederebbe l'accordo del participio delle forme composte del verbo sull'oggetto («mi sono lavate le mani» vs. «mi sono lavato le mani»), sortirebbe, con tutta probabilità, l'effetto di suscitare un'espressione incredula e diffidente in chi le porterebbe come esempio "autorevole" l'uso passato nella televisione, evidentemente indipendente dalla norma.

Il ragazzino che frequenta il "parchetto" sotto casa, irresistibilmente, di tanto in tanto, innoverebbe la lingua arricchendo lo sparuto drappello dei verbi «procomplementari» proponendole enunciati come «guarda quello lì come se la viaggia!».

In entrambi i casi vi è sì una scelta deliberata, ma, direi, strettamente legata ai limiti imposti dalla cultura di riferimento (nel primo caso la cultura «depauperata» "ruminata" dalla televisione; nel secondo caso la cultura di "strada", che tenderebbe a manifestarsi nell'uso di un «gergo» più o meno deviante dalla norma).

In questi termini i prestiti, gli anglicismi, divengono di giorno in giorno sempre più dei neo-"aulicismi" (o meglio, vengono considerati tali da coloro che, ad esempio, non conoscono il modello culturale nel quale [mi permetta] io e lei riscopriamo parte della nostra identità [la quale si manifesterebbe anche nella frequentazione di questo stesso forum]). Il prestigio culturale del mondo anglo-americano è sentito come un modello superiore soprattutto da coloro che a scuola, ad esempio, avrebbero imparato a disprezzare Dante, Leopardi, Ariosto etc., imparando invece a stimare (fuori dell'aula) le canzonette pop, (dentro l'aula) l'economia stessa e il suo linguaggio di settore, l'informatica etc. Insomma, per chi abbia studiato Virgilio e Cicerone, «summit» auspicabilmente sarebbe un latinismo (un errore che tradirebbe comunque una certa ingenuità); per un informatico, diversamente, un anglicismo tout court; e in senso opposto: per un ex studente di latino, l'espressione «sine die» è, naturalmente, da pronunciarsi "alla latina"; per un giornalista di oggi, formatosi sulle canzonette pop, si pronuncerebbe "all'inglese" [!] (e ancora: per chi non sappia dell'esistenza di una «sala règia», quest'ultima potrà essere solo una «sala regìa») etc.

Del resto la cultura «depauperata» costituisce un modello infinitamente più accessibile di quell'altra, meno diffusa, il cui possesso richiede comunque uno studio che oggigiorno è considerato sempre di più "accessorio" - il prestigio che ancora quest'ultima riuscirebbe ad esercitare tra i locutori meno accorti e scarsamente colti porterebbe, ad esempio, a definire un registro «formale» "maccheronico" riconducibile a enunciati come il seguente [le propongo un "aneddoto"]: «non vorrei che si equivoca...», in cui il malcapitato tenterebbe di combinare un costrutto impersonale con l'uso di un verbo («equivocare») sì comune, ma decisamente poco frequentato (se poi ascoltiamo la conversazione da cui ho prelevato clandestinamente quest'ultimo esempio, scopriremmo che l'argomento è proprio una trasmissione televisiva, al riguardo direi la più esemplare per individuare un preciso modello culturale [soggiacente!], l'«Isola dei famosi»).
Avatara utente
Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Ladim ha sottolineato un aspetto fondamentale, quello della cultura del parlante e dei suoi valori di riferimento. Nell’ambito della proprietà d’espressione, o adeguamento alla norma, mi sembra che la televisione potrebbe appunto svolgere un ruolo importantissimo nel ridare il suo lustro alla nostra cultura e alla nostra gloriosa — direi quasi invidiabile — tradizione letteraria; il problema è che le trasmissioni di tipo culturale di solito vanno in onda a tarda ora... Però io sono convinto che un programma sulla lingua, anche d’un quarto d’ora al giorno, che divulgasse l’esistenza dell’Accademia della Crusca e la sua autorevolezza e invitasse alla riflessione sull’uso della lingua porterebbe il parlante medio a una maggiore coscienza linguistica. O sono troppo idealista?
Avatara utente
Incarcato
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Intervento di Incarcato »

Non ho da opporre nulla al pensiero di Ladim, che esprime una legittima teoria circa l'«imbarbarimento» della lingua oggi sofferto; tuttavia non capsico (o non voglio capire) l'allusione al «locutore "medio" (magari un laureato in Economia)».


Inoltre, sebbene anch'io preferisca la forma accordata del participio nella diatesi media (e non solo), essa non è regola, in quanto che le forme non accordate sono del tutto legittime.

Dalla grammatica del Serianni:«tuttora oscillante è l'accorodo del participio passato di essere o di un verbo copulativo col soggetto (caso più frequente) oppure col nome del predicato (o col complemento predicativo). [Il caso del riflessivo indiretto (mi sono lavato le mani/mi sono lavate le mani) è ricondotto dal Serianni a quello appena citato.]»
Seguono esempi varî dal Manzoni et alii che non riporto.
Ladim
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Intervento di Ladim »

Con «locutore "medio"» (un'espressione forse infelicissima - che avrebbe voluto essere però del tutto "neutra") indicherei (senza pretendere alcuna perspicuità scientifica) il parlante in ogni caso scolarizzato la cui «lingua» possa indicativamente collocarsi ancora al di sotto dell'uso proposto dalle persone «colte» [per aver scomodato un laureato di economia (ma potrei tranquillamente scomodare un qualsiasi laureato, persino un recente dottore in lettere!), confesso di essermi rifatto a una conversazione avuta qualche giorno fa appunto con un dottore in economia - per aver inquadrato poi la lingua di quest'ultimo al di sotto dell'uso «colto», forse, sì, meriterei in parte la severità del Suo "giudizio", giacché tendenzialmente riconoscerei come «colto» ancora chi sappia padroneggiare una cultura più o meno vasta in grado di includere ad ogni modo la conoscenza (diciamo una lettura "meditata") - se parliamo di «lingua» - di almeno uno dei nostri classici (cosa, ormai, invero rarissima); qui le dovrei confidare di essere ancora convinto che sia necessario "meritarsi" una buona «lingua» soprattutto attraverso una buona lettura...].

A proposito della «diatesi media», mi trova perfettamente d'accordo: nel precedente intervento avrei voluto porre l'accento soprattutto sull'ormai diffusa "diffidenza" (non tanto l' "ignoranza") nei confronti di un uso precisamente «colto» (l'«evidentemente indipendente dalla norma» era rivolto al generale comportamento linguistico proposto dalla televisione)...

[Ma ho il timore di averLe suscitato una qualche "antipatia" - se così fosse, mi sappia dispiaciuto]
Avatara utente
Incarcato
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Intervento di Incarcato »

Non si preoccupi, nessuna offesa.

Anche a me capita spesso di sollecitare, bonariamente ed inter pocula, certi usi, come appunto l'accordo del participio: molto spesso, per non dire sempre, mi si risponde portando a testimonianza l'uso televisivo contrario (devo dire che anche la Gazzetta dello Sport è ritenuta dai piú una fonte autorevole cui ricorrere con fiducia).
Cosa vuole, è piú forte di me, la bocca parla prima che la mente comandi: ed allora ricordo la verità delle parole di Aristotele quando diceva che non di tutti gli argomenti si deve parlare con tutti.

Comincio a ritenere, ahimè, che sia inutile voler instillare certe sensibilità in chi non ne nutre.
acàdemo
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Intervento di acàdemo »

Di tutti gli interventi qui letti (tutti dottissimi, per carità, tutti condivisibilissimi) mi ha colpito particolarmente quello di marcri per la sua accoratezza di fondo, che mi trova, scusate il bisticcio, concorde. Come insegnante di italiano e latino (45 anni di età, 19 di professione, in questi non troppi anni d'insegnamento, ho visto la lingua disfarsi sotto i colpi di una società (i giovani sono i più incolpevoli) che non si cura della lingua, così come si cura di altre virtù patrie. A chi può interessare la correttezza della lingua, quando i valori trasmessi sono solo quelli del far soldi? se la scuola stessa, ormai, con la famosa "autonomia" non è diventata nient'altro che un mezzo, in competizione sfrenata con altri, per ottenere un pezzo di carta che permetterà di accedere al "mercato del lavoro"? La competizione tra istituti, che con il famoso POF (Piano dell'Offerta Formativa) si pongono sul mercato cercando di strapparsi studenti vicendevolmente, funziona con le stesse regole del mercato: da chi credete che andranno gli studenti per avere il famoso pezzo di carta? Chi può andrà da chi ti offre tutto, purché si paghi (e chi può pagare va comunque avanti, non è vero?); chi non può (e sono i più) andrà da chi ti offre poco, ma ti chiede anche poco, facendoti vivacchiare fino all'agognato "diploma". È il trionfo del miglior motto italico: il tirare a campare, poi si vedrà.
Queste scuole, insomma, pubbliche e private che siano, non preparano più perché non possono più fare a meno degli studenti, non possono più "bocciare" perché altrimenti le classi vengono accorpate e le cattedre vengono falcidiate da un aziendalismo ragioneristico e cieco.
Ma voglio dire di più: queste scuole portano ancora con sé le putride conseguenze del "sessantotto", quando si credette di aprire le scuole a tutti (e questo, in principio, è bene, è anzi sacrosanto), ma si finse che tutti fossero in grado di seguire qualunque scuola, o che qualunque scuola potesse aprire a qualunque ramo universitario (già quando ho seguito l'università io, negli anni 1979-1984, avevo "colleghi" di Lettere che non sapevano una parola di Latino perché provenivano da Ragioneria o dagli Istituto Tecnici!).
Orbene, concludo questo mio sfogo - di cui chiedo venia - con un'affermazione forte: senza la creazione immediata di scuole di eccellenza (intendo scuole fatte veramente per chi vuole studiare e ne abbia i numeri, come ad esempio i Ginnasi svizzeri o certi collegi superiori francesi), non ci saranno quadri dirigenti prevedibili secondo piani di sviluppo del Paese, e tutto continuerà ad essere lasciato al caso o all'opera meritoria (credetemi) di alcuni, troppo pochi insegnanti che ce la mettono tutta. Il nostro Paese non avrà dunque futuro, e l'assenza della sua lingua e della sua cultura dall'ambito internazionale non potrà che esserne l'inevitavile, sconsolante conseguenza.
Avatara utente
Incarcato
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Intervento di Incarcato »

Il suo sfogo è sacrosanto, ma io non sono del tutto d’accordo con lei.

Per certo il nostro sistema andrebbe riformato ab imis fundamentis, tuttavia instillare la competizione nelle scuole pubbliche io non trovo affatto che sia una scelta sbagliata per principio: quello che si dovrebbe evitare è una certa forma di essa, cioè la competizione al ribasso, che fa piú danno che altro.
Occorrerebbe in primo luogo riabilitare la figura del docente, sia economicamente (ed è questione molto seria, che incide profondamente sulla motivazione a lungo termine) sia professionalmente. Parliamoci chiaro: la classe dei professori è una delle piú eterogenee che si possa avere la ventura d’incontrare: accanto a veri insegnanti, preparati e competenti, equilibrati e moralmente integri, ci sono delle macchiette che per il fatto stesso di calcare la soglia delle aule provocano danno.

Per ottenere il posto d’insegnante di ruolo dovrebbero esserci concorsi serî e selettivi, e la figura del dirigente scolastico (perché non si chiama piú preside?) dovrebbe essere potenziata al punto da poter incidere efficacemente sulla qualità del corpo docente.
L’esame di maturità andrebbe o abolito o cambiato (cosí com’è da un lustro a questa parte — tra telefonini che squillano durante l’esame con la traduzione bell’e fatta, commissarî interni che concordano in anticipo le domande cogli alunni, metri valutativi delle singole commissioni [e relativi punteggî finali] del tutto incomparabili a livello nazionale — cosí com’è, dicevo, ha l’aspetto della burla).

Passando all’università, anche qui credo che per sciogliere il nodo di Gordio si dovrebbero abolire le università pubbliche cosí come oggi esistono: istituire prove d’ingresso (serie, ovviamente), per tutte le principali università italiane, per tutte le facoltà. A chi dice che cosí viene negata l’istruzione, domando: rebus sic stantibus, è forse garantita l’istruzione? Inoltre ad oggi, con quest’istruzione garantita a tutti (ma davvero a tutti!), il numero di laureati (laureati, attenzione, non iscritti!) è cosí basso che se ne può dedurre che l’alta dispersione verrebbe combattuta con una selezione a priori (risparmiando cosí risorse, sotto tutti i punti di vista).

Non ho detto tutto quanto volevo, ma se ho esagerato (cosa probabile), mi si scusi: la lingua batte dove il dente duole.
Avatara utente
arianna
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Intervento di arianna »

Il linguaggio è uno strumento fondamentale per l'evoluzione umana, scrivevano alcuni linguisti, ma il linguaggio non è principalmente padronanza della propria lingua? Ritengo dunque che, partendo dal nostro piccolo, sia giusto lottare per una diffusione corretta della lingua. Precisando che non sono un'intellettuale ma sono "la prima" che cerca di parlare un italiano corretto.(':oops:')
Fatta questa breve premessa ritengo che per quanto riguarda l'educazione linguistica si potrebbero già proporre delle modifiche all'interno della scuola. Trovo ch'essa sia troppo rigida nell'insegnamento linguistico grammaticale e, perfettamente d'accordo con quanto scritto da Macri, la lingua italiana viene insegnata come cantilena. Si potrebbe rendere gli alunni piu' partecipi, piu' critici, per esempio attraverso dei metodi basati sulla "scoperta" delle regole effettuata direttamente dall'allievo (metodo proposto da alcuni linguistici); o ancora attraverso il maggior utilizzo dei computer a scuola. Restano poi i maggiori mezzi di divulgazione linguistica: la tv (ahimè) e internet (e naturalmente i giornali ma non so quanto sia la percentuale di lettori) Partendo dalla tv, in accordo con Marco71 , si potrebbero proporre dei programmi che, magari attraverso un gioco per attirarne l'attenzione, diffondino un uso corretto della lingua. Passano tanti programmi (scusate) idioti, vedi il grande fratello, perché dunque non trasmettere anche programmi intelligenti? (purché non li mandino in onda la sera tardi come gran parte dei programmi interessanti ) Inoltre perché non (tentare di) suggerire, come qualcuno proponeva, il riconoscimento di un'associazione di linguisti quale autorità competente a cui si possa far riferimento? Gli stessi forum linguistici dimostrano come tanta gente si preoccupi di parlare e scrivere un italiano corretto.(':lol:')
Ultima modifica di arianna in data mar, 22 feb 2005 22:37, modificato 1 volta in totale.
Felice chi con ali vigorose
le spalle alla noia e ai vasti affanni
che opprimono col peso la nebbiosa vita
si eleva verso campi sereni e luminosi!
___________

Arianna
ann
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Intervento di ann »

Marco1971 ha scritto:Io credo che sia necessario sfumare il concetto di legge: non sarebbe possibile — né auspicabile —, secondo me, obbligare la gente a osservare una legge di tipo linguistico; sarebbe invece possibile rendere noto a tutta la popolazione quali sono le norme grafiche raccomandate dall’autorità competente (la Crusca o un’associazione di linguisti). E se anche non si riuscisse a raggiungere tutta la popolazione, almeno quelle persone che per mestiere diffondono la lingua. Ma come fare per «dare il via ai lavori»?
Sono perfettamente d'accordo con tutto ciò. Penso che non si può imporre niente per quanto riguarda la lingua che usa la gente nella sfera privata o quella scelta anche dalla letteratura, invece penso che sia un bene per il locutore trovare qualche istanza ufficiale che gli dia un aiuto per potere usare la propria lingua come "si deve" (e delle regole e divieti imposti per quanto riguarda l'uso amministrativo della lingua). Non è il ruolo dei dizionari imporre un uso piuttosto che l'altro, secondo me deve solo descrivere la lingua come viene usata. Il modo in cui L'Office de la langue française orienta la politica linguistica in Quebec è secondo me un modello, e il suo dizionario online un gioiello... (cf. http://www.oqlf.gouv.qc.ca/).
pile ou face?
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Re: Grafia dei neologismi formati con un prefisso cogeminante

Intervento di Infarinato »

Marco1971 ha scritto:Mentre in passato — e fino a tutto l’Ottocento — le parole formate con un prefisso cogeminante seguivano normalmente le regole fonetiche (i. e. sopra + tutto > soprattutto, ecc.), oggi si tende spesso a preferire la grafia con la consonante scempia.

[…]

Per alcune parole i dizionari registrano entrambe le grafie (indico per prima quella che il GRADIT usa per la trattazione del lemma):

piuccheperfetto/piucchepperfetto, soprattassa/sopratassa, sopraccitato/sopracitato, ecc.
Rileggendo il sempre delizioso Camilli-Fiorelli (Amerindo Camilli, Pronuncia e grafia dell’italiano, terza edizione riveduta a cura di Piero Fiorelli, «Sansoni», Firenze 1965) vedo finalmente sottolineata una distinzione di cui avevo sempre sospettato, ma che non avevo mai visto esplicitamente menzionata altrove.

Alla nota 236 di p. 151, il Fiorelli, dopo aver ricordato il noto fatto che
Piero Fiorelli ha scritto:di regola sopra vuole il rafforzamento se è preposizione (in quanto è inteso storicamente, e tuttora nella coscienza di molti parlanti, come sopr’a colla virtú rafforzativa della preposizione a); non rafforza invece se è avverbio
cosí continua (grassetto mio):
Piero Fiorelli ha scritto:Quindi sarebbe piú regolare non raddoppiare la consonante in sopranominato (‘nominato sopra’), soprasegnato (‘segnato sopra’), e cosí pure in sopracitato, sopradetto, sopramentovato, sopramenzionato, sopranotato, soprariferito.
Conclude:
Piero Fiorelli ha scritto:Se in tutte queste voci la grafia col raddoppiamento è comune non meno dell’altra (tranne che in sopranominato, per ragioni di chiarezza), la causa è da ricercare nell’analogia coi rimanenti composti con sopra- [preposizione (NdR)], senza paragone piú numerosi.
La Norman (1937: 61, n. 14) afferma che, per quel che le risulta, il primo a fare questa distinzione [anche per i composti] è il Petrocchi nel suo Dizionario universale.

Quanto a vie(p)piú:
Marco1971 ha scritto:…si presenta anche il caso inverso, cioè grafie con la consonante doppia laddove non ce n’era punto bisogno, come nel caso di vieppiú, che prevale di gran lunga sul corretto viepiú (molti dizionari rimandano a vieppiú)
già il Fiorelli notava che «le forme giustapporre e vieppiú… hanno ormai preso il sopravvento» (Camilli-Fiorelli 1965: 150, n. 234).
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Memore della lezione del Castellani, prima di fidarmi (parlo per me) di quanto afferma il Fiorelli, vorrei fare alcune ricerche (si appropinquano per me le vacanze, quindi fra qualche giorno avrò maggior tempo).

Per quanto riguarda soprac[c]itato, ho già trovato un esempio del Redi con doppia (ovviamente non ho consultato il manoscritto...). La mia teoria, che sicuramente verrà smentita, sarebbe che la coscienza del valore avverbiale di sopra, quando preposto al participio passato con cui forma un nuovo aggettivo, non è/era avvertito (sappiamo comunque che nell’aureo Trecento sopra non cogeminava mai, è un fenomeno apparso nel Cinquecento, se non ricordo male).

Per ora posso solo citare questo passo dall’articolo «Italiano e fiorentino argenteo» del Castellani (Saggi di linguistica e filologia italiana e romanza, Roma, Salerno Editrice, 1980, tomo I, pp. 31-32):
Nei testi antichi che mi son capitati fra le mani non ho mai notato un caso di raddoppiamento. E ancora nei primi decenni del sec. XVI il Guicciardini scrive costantemente soprasedere, sopratenere, sopravenire.

Ma dal Cinquecento in poi, a Firenze, si raddoppiano le consonanti dopo sopra. E questo cambiamento di pronuncia, che tutto fa ritenere essere stato, ai suoi tempi, piuttosto recente, viene sistematicamente introdotto dal Cav. Lionardo Salviati nel Decamerone. [...]

[Postilla] Il rafforzamento consonantico nelle parole composte con sopra [si noti che A. C. non distingue fra prep. e avv.] è probabilmente piú antico di quanto non appaia da ciò che si dice al § VI. Ne parla come di cosa normale e non nuova Claudio Tolomei (1492-1556) nel tredicesimo stabilimento del trattato sul Raddoppiamento da parola a parola, trattato conservatoci dal codice H, VII, 15 della Biblioteca Comunale di Siena e ancora in massima parte inedito (tra le voci composte con sopra che si pronunciano e si scrivono colla doppia il Tolomei ricorda soprapposto, sopravvenne, sopraffatto, sopravvesta, soprac[c]igna [cod. cit., p. 295], sopraggiungo [p. 299]).
Certamente, in origine, soprapposto (oggi sovrapposto) vale «posto sopra», quindi con sopra avverbiale.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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