L’AIS è affidabile?

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Ferdinand Bardamu
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Intervento di Ferdinand Bardamu »

Grazie della risposta.
Ligure ha scritto:D'altronde, già in quegli anni, mi riesce difficile immaginare informatori completamente ignari della lingua o non in grado di pronunciare italianismi secondo paradigmi un po' diversi da quelli della varietà dialettale locale.
Certo, ma tenga presente che in Veneto persino gli impiegati pubblici, che pure dovevano conoscere la lingua nazionale piú del comune bacanòto (contadino), commettevano errori addirittura nella registrazione dei neonati. Il mio cognome, per esempio, termina in -ini, ma quello di una delle mie zie paterne fa -in. E so di un Calearo che ha un fratello Calegaro.

Se gli informatori di Crespadoro (362), Teolo (374) e Montebello (373) erano contadini, mi risulta molto strano che abbiano fornito una risposta non conforme alle strutture di quel dialetto che parlavano correntemente e quotidianamente. Io stesso dico arcobalén.
Ligure ha scritto:Non conosco la linguistica veneta e non so come si pronuncino in veneto le parole che avevo riferito relativamente al genovese, ma, in molte varietà linguistiche settentrionali, voci quali meno, piano(forte) e treno si pronunciano all'italiana, esattamente come arcobaleno e analogamente a ciò che avviene nei dialetti di tipo genovese (e non solo!) in Liguria.

Ribadisco, non conosco le pronunce del Veneto. Proprio nessuna con /-no/?
Del lessico tradizionale, riguardante fenomeni meteorologici, no, non c’è nemmeno una parola che non rispetti la normale fonotassi del veneto. Treno e piano sono oggetti moderni e rimangono treno e piano (anche se trèn mi suona perfettamente normale e comune, e io stesso direi sia «Go ciapà el trèn» sia «Go ciapà el trèno»…).
Ligure
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Intervento di Ligure »

Non ho alcun desiderio d'insistere, ma la realtà del superstrato è sempre stata considerata in modo inadeguato dagli studiosi, non intendo riferirmi in particolare a quelli del veneto.

Per altro, se pure per treno e piano, che ascolto continuamente dai veneti, si possano stabilire date abbastanza certe (e per piano non, poi, così recenti), tutte le attestazioni venete indicano – anche per i ceti illetterati e con datazioni molto antiche – pronunce sulle quali già ci siamo soffermati quali, ad es., macaco, spetacol(o) o miracolo.

Il sistema linguistico locale, in ossequio al rispetto della lenizione, realizzata come sonorizzazione, avrebbe richiesto /-g-/, ma l'influenza del superstrato, è lo stesso che parlare d'italianismi, fece sì che si sia mantenuto /-k-/.

Gli aspetti sociolinguistici furono sempre più potenti rispetto all'osservanza della fonotassi locale. Altrimenti, i venetofoni pronuncerebbero pian per pianoforte, ma così non è. O soltanto tren (v. il P.S.) anziché treno, come posso ascoltare assai frequentemente. Quanto sopra affermato vale per tutti i dialetti settentrionali, e non solo! Altrimenti, avremmo tutti esiti perfettamente regolari. Il che non è assolutamente. Gli esempi sono moltissimi.

Il fatto che i dialettologi se ne siano scarsamente occupati, o non se ne siano sufficientemente resi conto, non può cancellare un fenomeno concretamente esistente. :wink:

P.S.: risulta interessante e vero anche quanto lei riferisce in merito alla sua pronuncia di arcobaleno. Per molte voci, non per tutte, in dipendenza dai parlanti e dalle varietà linguistiche interessate, vi furono tentativi di adattamento al sistema linguistico locale. Il che dimostra l'importanza e la vitalità delle relazioni osmotiche tra il superstrato e le diverse varietà linguistiche locali.
Ligure
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Intervento di Ligure »

u merlu rucà ha scritto:Direi che è probabile che il termine originario ligure per "arcobaleno" fosse "arco" (àrcu, èrcu, ercùn ecc.). Le forme arcubalénu, ercubalénu, arcubalèn sono però molto diffuse e già riportate in atlanti linguistici datati (AIS/ALI), in un'epoca in cui la lingua corrente era il dialetto. Sarebbe opportuna una verifica, ma non mi stupirei se le suddette forme fossero un prestito diciamo marinaro, in quanto sembrano diffuse prevalentemente sulla costa. Io stesso ho sentito usare arcubalèn da un pescatore di Bordighera nato alla fine dell'ottocento.


Arcubalèn sarebbe anche compatibile con gli esiti liguri (occidentali), se balèn derivasse da *ballaenus (da ballaena "balena" se il baleno è un fenomeno atmosferico rapportato ad un animale come spesso succede a livello popolare), in quanto, come ormai saprete, nel ligure -ll- > -l-.
Certo, l'ambiente linguistico era ancora dialettofono, ma gl'italianismi, se pure gli studiosi non intendano o non siano stati capaci di occuparsene, erano già presenti da secoli, e con la loro specifica struttura.

Tuttavia, indipendentemente dall'attendibilità dell'etimo - nel cui merito non intendo entrare -, due osservazioni, non di tipo linguistico, bensì di pura logica:
  1. se la voce non fosse indigena, l'accenno relativo all'evoluzione di /-ll-/ non c'entra perché /-ll-/, ad esempio nelle varietà linguistiche di tipo toscano, non conosce restrizioni di sorta;
  2. risulta molto dubbio che la voce possa essere indigena e che, quindi, ci si debba preoccupare degli esiti di /-ll-/. Baleno sembra essere voce toscana e ignota ai lessici settentrionali e ai parlanti più tradizionali. L'etimo, allora, dovrebbe semplicemente risultare congruente con questa origine, non con i dialetti liguri, che ignorano questa voce.
Non è necessario – neppure per la Liguria – pensare sempre a oggetti o media concreti.

Il tramite più probabile e più attendibile è certamente il mare. Ma non quello salato. Si tratta quasi sempre dell'immenso mare della cultura. Propagata attraverso il linguaggio di superstrato che, in molti casi, a motivo degli aspetti sociolinguistici e del prestigio dell'italiano, ha cancellato anche il ricordo di voci di tradizione diretta, che pure ebbero vita durata lunghi secoli.
Ultima modifica di Ligure in data mer, 26 set 2018 22:27, modificato 1 volta in totale.
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Ferdinand Bardamu
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Intervento di Ferdinand Bardamu »

Ligure ha scritto:Non ho alcun desiderio d'insistere, ma la realtà del superstrato è sempre stata considerata in modo inadeguato dagli studiosi, non intendo riferirmi in particolare a quelli del veneto.
Insista pure, caro Ligure, se vuole: mi fa piacere discutere con lei, in ispecie se da posizioni divergenti possiamo raggiungere un punto d’accordo. :)
Ligure ha scritto:Per altro, se pure per treno e piano, che ascolto continuamente dai veneti, si possano stabilire date abbastanza certe (e per piano non, poi, così recenti), tutte le attestazioni venete indicano – anche per i ceti illetterati e con datazioni molto antiche – pronunce sulle quali già ci siamo soffermati quali, ad es., macaco, spetacol(o) o miracolo.
Attenzione. Stiamo paragonando una parola che si riferisce a un fenomeno meteorologico, intrinsecamente legato dunque alla vita nei campi, a forestierismi, cultismi e tecnicismi estranei (anche qui per natura) alla vita tradizionale e quindi d’uso assai marginale per la persona comune dell’epoca. La mia perplessità nasce proprio da qui: il treno da un certo momento in poi è diventato un oggetto comune, sicché la forma italiana convive con l’adattamento veneto, il quale è oggi — a esser sinceri — abbastanza raro pur non essendo scomparso. Ma il treno non era il borocin («barroccio»), bensí un mezzo connesso con i primi spostamenti di massa. Il piano, poi, lo sonavano i siori, i ricchi, e non fa meraviglia che si dica come in italiano. :)

È chiaro, insomma, che c’è un drappello, sempre piú nutrito, di parole non adattate alle strutture del veneto, ma occorre esaminarne la natura. Che macaco rimanga macaco e non diventi *magago o *maàgo non mi sorprende; mi sorprenderebbe assai, invece, sentire da un venetofono nativo «El va ramengo par le capezagne» invece che «ca(v)ezagne» (propriamente ‹spazi erbosi incolti e senz’alberi in testa ai campi›; per estensione, ‹viottoli di campagna›). Mi sonerebbe come un tentativo ironico di italianizzazione.
Ligure
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Intervento di Ligure »

Penso che l'obiettivo del confronto possa consistere nell'ampliamento delle prospettive, escludendo un poco utile unanimismo acritico che, per altro, non ci appartiene. :) :wink: Spero di non avere perso il filo dei ragionamenti che ci hanno coinvolto né mi sembrava che le posizioni fossero così distanti; per altro, nulla di male, se anche fosse!

Dovrei premettere, per correttezza, che personalmente sono abbastanza convinto della trasversalità (ad esempio, nell'ambito di molte varietà linguistiche settentrionali) dei cosiddetti italianismi. Aspetto confermato da molti dati oggettivi, anche se ben poco trattato, e forse scarsamente compreso, dagli studiosi.

I quali tutti si dichiarano convinti e competenti in merito alla teoria del superstrato, se pure – nella pratica dei loro studi e nella realtà delle loro pubblicazioni – considerano i dialetti come costituiti dal solo lessico di tradizione diretta oltre a qualche decina/centinaio di voci di origine straniera.

Mentre quanto riferito rappresenta soltanto un sottinsieme della realtà dialettale, perché viene trascurato l'enorme apporto che (in parallelo all'evoluzione di quelle voci che saranno ex post definite di derivazione diretta) è stato determinato dalla lingua di superstrato.1 Ovviamente, le teorie valide devono poter mostrare un riscontro concreto, altrimenti non sapremmo che farcene dopo averle acquisite.

Ritengo, alla luce delle evidenze esaminate, che nei dialetti settentrionali la voce arcobaleno possa essere considerata un italianismo. La trasversalità risulta presente, la mancanza di congruenza colle strutture fonotattiche locali anche. Inoltre, esiste l'evidenza che voci quali baleno, balenio o balenare non risultano presenti nei lessici locali.

E, a mio modesto avviso, queste condizioni risulterebbero già sufficienti per potersi esprimere, perché oggettive, non ideologiche. A quanto esposto viene opposta una considerazione di tipo categoriale. Che personalmente considero in altro modo, ma che, comunque, potrebbe rivestire un aspetto almeno ambivalente.

Cerco di spiegarmi. L'arcobaleno non è un fenomeno che davvero abbia a che fare direttamente col ciclo delle stagioni e colla suddivisione dei tempi dell'agricoltura: quello della semina, quello del raccolto ecc. Sembra più legato ad aspetti e nozioni tradizionali riguardanti la religiosità, ma anche la magia e le superstizioni, ben note a chi si occupa di folclore.

In alcune zone, dove, ad esempio, è ancora presente la denominazione arco di Noè, il riferimento risulta esplicito.
  • Arcum meum ponam in nubibus et erit signum fœderis inter me et inter terram.
Per altro, ho potuto anche ascoltare direttamente "leggende", note fin dall'epoca dei Romani, secondo le quali l'arcobaleno riassorbirebbe, per le prossime piogge, l'acqua già riversata sulla terra…

Personalmente, non mi meraviglierei più di tanto se la cultura di tipo borghese avesse contribuito a cancellare le tracce di denominazioni troppo legate agli aspetti sopra accennati.

Come, in effetti, ad esempio, anche in zone montane molto arretrate, l'adozione di modelli di aratro più moderni ha inevitabilmente implicato l'adozione della nomenclatura italiana o di quella di dialetti di zone di pianura per componenti che il vecchio modello non possedeva.

Ma, mi permetto di ribadire, a mio avviso l'oggettività della classificazione su base fonotattica – indiscutibile – non ha necessità della spiegazione di tipo ideologico. O meglio, la valutazione fonologica ci dice che cosa quella voce è davvero – italianismo o di tradizione ininterrotta – mentre le considerazioni di tipo ideologico forniscono un livello esplicativo ulteriore, cioè perché essa è stata introdotta nel dialetto. Questo secondo livello esplicativo può ammettere ragionamenti più variegati (talora più sfuggenti 2), mentre il primo permane dicotomico: sì o no!.

1 Neppure gli studiosi delle varietà venete (la pace sia con loro, direbbero gl'islamici) trattano minimamente il tema. Eppure chiunque può direttamente riscontrare come, ad esempio, vidal risulti nome di derivazione diretta, mentre tale non è la voce vita. Siccome non risulta ragionevole ipotizzare che questo vocabolo non fosse presente nella lingua quotidiana quando ancora la lenizione risultava operante, sorgono problemi ai quali neppure i dialettologi veneti sanno rispondere. Soprattutto perché non pare si siano mai poste le giuste domande. Vita va inserita, oggi, nel gruppo cui appartengono voci quali gata o mata (mi riferisco a un noto proverbio veneto). Bene, sappiamo dall'analisi comparata, colla lingua e cogli altri dialetti, che gatta e matta in Veneto (in senso linguistico) si salvarono dalla lenizione in quanto voci geminate. Dopo operò la degeminazione e s'ebbero gata e mata. Ma sarebbe da farisei posticipare a dopo l'acquisizione della voce vita. Essa preesisteva, ma non poteva essere fonotatticamente tale. Il sistema linguistico non ammetteva più /-t-/>/-d-/. Era possibile soltanto /-tt-/, in cui nessuno dei due fonemi [t] risulta intervocalico.

Genova, e tutti i dialetti di tipo genovese, hanno, infatti, tuttora vitta /'vitta/, gatta /'gatta/, matta /'matta/ come si può riscontrare nei lessici locali e come si può ascoltare dalla pronuncia locale, anche in quella di chi si avvale (ormai, solo occasionalmente) del linguaggio cittadino.

Quindi, parrebbe che, nei dialetti settentrionali, la geminazione anetimologica (di cui permangono tracce in varietà linguistiche della Svizzera italiana, mentre essa risulta tuttora florida in genovese) abbia contrassegnato, quando la lenizione risultava ancora operante, le voci acquisite dalla lingua italiana, le quali, quindi, non ne subirono gli effetti.

In seguito le voci (escludendo quelle genovesi, che conservano tuttora la geminazione, sia pure anetimologica, postaccentuale) riassunsero la forma italiana a causa della degeminazione. Ma non tenere conto dei processi accennati significa 1) non avere capito l'evoluzione linguistica e 2) falsare l'epoca di acquisizione di molti italianismi, semplicemente perché non si riesce neppure a capire che essi vennero assunti originariamente con una forma diversa da quella attuale. Mentre la Liguria ne testimonia tuttora l'esito antico. Queste, a mio modesto avviso, sarebbero considerazioni interessanti e adeguatamente trasversali, mentre noto che, purtroppo, molti studiosi non si occupano di una visione d'insieme: conoscono, nel migliore dei casi, una sola varietà linguistica e si baloccano stucchevolmente con etimi che anche un liceale vispo risulterebbe in grado di padroneggiare.


2 Senza troppo approfondire, perché moddu ['mɔddu] = modo (la voce antica, esito di un'evoluzione perfettamente regolare, era mőu /'mɵ:u/) e migliaia di altre voci genovesi, apparentemente del tutto neutre, sono evidenti italianismi e s'è perso l'uso e il ricordo – mantenuto unicamente a livello scientifico grazie alle attestazioni scritte – dei termini corrispondenti di derivazione diretta? Nessuna di queste voci corrisponde a un nuovo oggetto, una nuova invenzione. Nessuna è relativa a termini più frequenti nell'eloquio delle classi egemoni. Si tratta di voci comunissime nel linguaggio quotidiano. Tutto avvenne soltanto per ragioni di tipo ideologico. Quelle di tradizione ininterrotta risultavano ormai troppo lontane da quelle corrispondenti del superstrato. E lo Zeitgeist ne impose la sostituzione. Per quanto geminata! E si badi che sto parlando di parecchi secoli fa. Infatti, quanto ho sopra riferito non s'è verificato recentementemente, ma neppure nel Novecento né nell'Ottocento, bensì ancora prima, quando, evidentemente, non esistevano ancora repertori dialettali o atlanti linguistici.
Ultima modifica di Ligure in data ven, 28 set 2018 19:15, modificato 1 volta in totale.
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Ferdinand Bardamu
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Intervento di Ferdinand Bardamu »

Grazie dell’approfondita risposta. Credo anch’io che siamo sostanzialmente d’accordo, ma mi preme comunque fare alcune precisazioni.
Ligure ha scritto:Ritengo, alla luce delle evidenze esaminate, che nei dialetti settentrionali la voce arcobaleno possa essere considerata un italianismo. La trasversalità risulta presente, la mancanza di congruenza colle strutture fonotattiche locali anche. Inoltre, esiste l'evidenza che voci quali baleno, balenio o balenare non risultano presenti nei lessici locali.
Sono d’accordo. Lessicalmente e fonotatticamente baleno è un italianismo, o almeno è certamente estraneo alla lingua veneta.
Ligure ha scritto:L'arcobaleno non è un fenomeno che davvero abbia a che fare direttamente col ciclo delle stagioni e colla suddivisione dei tempi dell'agricoltura: quello della semina, quello del raccolto ecc. Sembra più legato ad aspetti e nozioni tradizionali riguardanti la religiosità, ma anche la magia e le superstizioni, ben note a chi si occupa di folclore.
Io infatti sopra parlavo di vita tradizionale, ma possiamo anche dire vita contadina. Mi riferivo insomma alla piú ampia sfera dell’esperienza che un contadino poteva avere, non soltanto al lavoro dei campi. In veneto, per esempio, si sono piú o meno ben mantenute tutte le parole che riguardano fenomeni meteorologici e atmosferici: es. lumièra («fuoco fatuo», ma anche «lampo di calore»), sbaƚàre («spiovere»), s’ciantixo («lampo»), sita («fulmine»), calinverna («brina cristallizzata su rami e foglie»). Tutti fenomeni che, come l’arcobaleno, non sono legati direttamente a semina e raccolto, ma fanno parte dell’esperienza quotidiana, comune, della vita rustica.

Fa molta meraviglia, dunque, che la parola tradizionale per arcobaleno sia andata perduta e sia stata sostituita cosí presto da un italianismo, soprattutto alla luce del fatto che il fenomeno in questione si carica di significati sacrali, religiosi, propiziatòri, ecc. I termini locali per coccinella e per chiocciola — animaletti che con semina e raccolto non c’entrano direttamente (oddio, forse il secondo sí) ma con le concezioni parareligiose e sacrali dei contadini sí — nelle inchieste dell’AIS si sono invece mantenuti. Possibile che già negli anni Venti il contadino di Teolo dicesse, indicando l’orizzonte, «Àrda, a ghe vignú fóra l’arcobaleno»? Riesce davvero a immaginare un semianalfabeta (quando non un analfabeta totale) usare un italianismo per designare un fenomeno meteorologico che faceva parte da tempo immemorabile della sua cultura e della sua vita, anzi della sua esperienza della natura?
Ligure ha scritto:Personalmente, non mi meraviglierei più di tanto se la cultura di tipo borghese avesse contribuito a cancellare le tracce di denominazioni troppo legate agli aspetti sopra accennati.
Intende dire che in Veneto, ma anche altrove, un contadino possa essersi vergognato di usare il termine tradizionale perché legato a superstizioni, e abbia dunque adottato senza batter ciglio la parola italiana senza nemmeno adattarla alla fonotassi della sua lingua madre? Non so, non mi convince. Le posso dire che da me sussistono tuttora, almeno negli anziani, convinzioni che non si esiterebbe a considerare superstizioni, come evitare di indicare col dito le angurie o le zucche per non arrestarne lo sviluppo.
Ligure ha scritto:Come, in effetti, ad esempio, anche in zone montane molto arretrate, l'adozione di modelli di aratro più moderni ha inevitabilmente implicato l'adozione della nomenclatura italiana o di quella di dialetti di zone di pianura per componenti che il vecchio modello non possedeva.
Scusi se insisto su una «considerazione di tipo categoriale», ma credo che l’innovazione tecnologica non si possa paragonare a fenomeni atmosferici, che per natura non subiscono alcuna evoluzione. Una volta el varsóro lo tiravano i , ora c’è il tratóre. Ma l’arcobaleno è sempre lo stesso.

Stanti queste considerazioni, e visti i ben noti difetti dell’AIS, escluderebbe la possibilità di una clamorosa svista nella raccolta delle testimonianze? Non ci sono altri studi sull’arcobaleno e sui termini locali con cui confrontare i dati dell’AIS? E se in questo caso l’AIS è attendibile, quale può essere la vera ragione della scomparsa del termine tradizionale?

Ah, beninteso: non nego l’influenza di superstrato che può aver esercitato la lingua nazionale né l’esistenza di italianismi in veneto. Tant’è che ne potrei citare almeno un paio: òbito (addirittura un cultismo letterario), che vuol dire «funerale»; e apàlto, che significa tabaccaio. Ma c’è anche un pàndare («rivelare, palesare»), che tradisce la sua natura di semicultismo ed è attestato, nel latino medievale di documenti veronesi, addirittura nel 1276.
Ligure ha scritto:Eppure chiunque può direttamente riscontrare come, ad esempio, vidal risulti nome di derivazione diretta, mentre tale non è la voce vita. Siccome non risulta ragionevole ipotizzare che questo vocabolo non fosse presente nella lingua quotidiana quando ancora la lenizione risultava operante, sorgono problemi ai quali neppure i dialettologi veneti sanno rispondere. Soprattutto perché non pare si siano mai poste le giuste domande. Vita va inserita, oggi, nel gruppo cui appartengono voci quali gata o mata (mi riferisco a un noto proverbio veneto). Bene, sappiamo dall'analisi comparata, colla lingua e cogli altri dialetti, che gatta e matta in Veneto (in senso linguistico) si salvarono dalla lenizione in quanto voci geminate. Dopo operò la degeminazione e s'ebbero gata e mata. Ma sarebbe da farisei posticipare a dopo l'acquisizione della voce vita. Essa preesisteva, ma non poteva essere fonotatticamente tale. Il sistema linguistico non ammetteva più /-t-/>/-d-/. Era possibile soltanto /-tt-/, in cui nessuno dei due fonemi [t] risulta intervocalico.
Mi dispiace insistere su considerazioni di tipo estralinguistico, ma io sono convinto che vita non possa essere un termine di tradizione ininterrotta, e l’ipotesi di un ipotetico *vitta a giustificazione della mancata lenizione non mi sembra convincente (spero però di non aver frainteso il suo discorso).

A meno che non si supponga (la butto lí) un latino volgare *VĪCTA tratto dal tema del supino di VĪVO. Ma a dire il vero, a mio avviso, una parola astratta e vaga come vita forse non faceva parte del modo di parlare comune. Un contadino, suppongo, poteva dire il campare, lo stare al mondo; peraltro non trovo tracce di vita nel significato di vivere in nessuno dei lessici e delle raccolte di detti dialettali in mio possesso (e noto di passata che nell’AIS la carta «vita» non c’è!).

Potrei magari prendere un abbaglio su questo; ho preferito però esporle la mia convinzione, che mi porto dentro da un bel po’, cosí può essere eventualmente smentita.
Ligure
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Intervento di Ligure »

La ringrazio anch'io per i suoi validi commenti. Che proverò a elaborare con un po' di tranquillità e di tempo, che, al momento, mi manca. Mi sono lasciato andare a esprimere con franchezza le mie opinioni certo che non ci sarebbe stato un dibattito sterile del tipo di A contro B. Non si può far altro che tentare di ampliare la prospettiva.

La mia profonda delusione non riguarda minimamente gl'interlocutori, ma i testi e i paradigmi di scuola, ormai vecchi di quasi due secoli. Soprattutto quando, relativamente alle varietà dialettali che conosco approfonditamente (non certamente quelle venete!), formulano affermazioni contraddette dalla realtà oggettiva.

Ciò, ovviamente, ha fatto perdere la mia fiducia nei loro confronti. Anche perché evitano, con una strategia appartenente più al mondo della politica che a quello delle scienze linguistiche, di approcciare qualsiasi problema interessante di tipo fondativo o strutturale.

Sulla trasversalità e antichità del termine vita nei dialetti comprendo bene che non siamo d'accordo, ma gli esempi sono molti altri e, forse, si potrebbe indagare maggiormente. Legga, se desidera, quanto scrive al terzo capoverso di pag. 3 il documentatissimo Daniele Vitali in Per un'analisi diacronica del bolognese. Il quale, con lucida onestà intellettuale, è costretto ad ammettere, ad es., una doppia originaria anetimologica per le voci bolognesi corrispondenti alle genovesi: pippa, müttu, vitta e stüffu.

Inoltre, l'esistenza di geminate anetimologiche in italianismi nell'ambito di varietà arcaiche della Svizzera italiana continua a farmi pensare. Legga, se preferisce, quanto contenuto alle pp. 454-455 in Profilo linguistico del Grigioni italiano, anche se l'autrice non riesce a interpretare adeguatamente i dati riferiti e a inserirli convincentemente nel contesto evolutivo delle parlate settentrionali. Vengono qui riferite le voci vitta, parolla e bananna. Identiche in genovese. Bananna risulta decisamente moderna, ma non si può pensare che i villici, anche in tempi remoti, non possedessero parolla!

Certo, le emergenze – se si escludono i dialetti di tipo genovese – sono poche (a motivo dell'intervenuta degeminazione), ma le incongruenze (che non si riescono a spiegare nei diversi sistemi linguistici se non ammettendo la geminazione anetimologica negli italianismi) sono troppe! Far finta di nulla risulta troppo poco interessante!

P.S. Ho sempre pensato andreottianamente al riguardo della potenziale carta su vita. Concludo, ma questa non posso esimermi dal riferirla. Pensi al fatto che per Genova sono riportati quasi più spazi vuoti che trascrizioni. I teutonici hanno preferito compiere molti peccati di omissione piuttosto che avere l'onestà intellettuale di contrapporsi alle scorrette impostazioni di scuola (ad esempio, assenza di geminate ecc.). L'episodio, ormai affidato alla storia della linguistica, non risulta, per altro, molto edificante…
Avatara utente
Ferdinand Bardamu
Moderatore
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Località: Legnago (Verona)

Intervento di Ferdinand Bardamu »

Io non posso far altro che ringraziarla di nuovo per la pazienza e per i rimandi, che ho consultato con grande interesse. Riguardo a vita, ho voluto sottoporre questa mia idea — scorretta, ora lo riconosco — cosicché potesse essere eventualmente confutata.

Se si escludono i cultismi e i forestierismi accolti in un periodo in cui la regola di lenizione delle occlusive intervocaliche non era piú produttiva, non saprei però trovare altre parole del fondo tradizionale (oltre a vita) che presentino un’apparentemente anomala assenza di lenizione o dileguo.

Per essere piú precisi: non mi vengono in mente parole venete la cui occlusiva intervocalica tuttora integra sia spiegabile con la degeminazione di una precedente geminata anetimologica.

Forse una regola di geminazione, condizionata dal contesto fonico come nel dialetto del Grigioni italiano, vigeva in passato anche in veneto. Sinceramente, non saprei darle conferma.

Tornando brevemente a arcobaleno: che si tratti di un italianismo, è assodato. Mi preme però sottolineare come sia lecito nutrire «andreottiani» (come ha detto lei, brillantemente) sospetti riguardo alla correttezza (di questa carta) dell’AIS. Vorrei capire com’è possibile che piú di un informatore locale abbia fornito un termine non tradizionale (e passi, sarà caduto in oblío per qualche ragione) per di piú pronunciandolo all’italiana. Sono sospetti infondati? L’adozione dell’italianismo integrale si può spiegare altrimenti rispetto a quella che lei ha definito «risposta ecolalica»?
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u merlu rucà
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Intervento di u merlu rucà »

A meno che non si supponga (la butto lí) un latino volgare *VĪCTA tratto dal tema del supino di VĪVO. Ma a dire il vero, a mio avviso, una parola astratta e vaga come vita forse non faceva parte del modo di parlare comune. Un contadino, suppongo, poteva dire il campare, lo stare al mondo; peraltro non trovo tracce di vita nel significato di vivere in nessuno dei lessici e delle raccolte di detti dialettali in mio possesso (e noto di passata che nell’AIS la carta «vita» non c’è!).
Non è il primo che la butta lì...già Emilio Azaretti in "L'evoluzione dei dialetti liguri esaminata attraverso la grammatica storica del ventimigliese" afferma:

vita, che non mi sembra possa essere una parola dotta, potrebbe continuare VICTA "vita, tenor di vita", dal p.p.di VIVERE
Largu de farina e strentu de brenu.
Ligure
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Iscritto in data: lun, 31 ago 2015 13:18

Intervento di Ligure »

Il povero Azaretti sarà anche stato un perfetto gentiluomo, ma – a parte il fatto che il suo libro non costituisce un dogma di fede – non subodorava neppure minimamente il fenomeno linguistico di cui si sta trattando. Se pure ci si potesse convincere della sua interpretazione (per altro, errata) limitatamente al caso singolo di vit(t)a, la sua spiegazione non spiega nulla relativamente a tutte le altre migliaia di casi di geminazione anetimologica che non sono il participio passato di nulla e che altro non sono se non ciò che sono. A partire da mod(d)u/a

Le spiegazioni corrette devono poter consentire un certo grado di generalizzazione e quella relativa al participio passato risulta specifica, ad hoc, assolutamente non generalizzabile agli altri casi, numerosissimi.

Pensare che tutto quanto sia già stato detto – soprattutto quando l'argomento linguistico non è stato, finora, minimamente sfiorato – risulta atteggiamento che non m'appartiene e di cui non riesco a capacitarmi neppure in altri. I bolognesi e gli svizzeri paiono essersene resi conto.

Siamo nel 2018 e siamo assolutamente autorizzati e motivati a pensare colla nostra testa. È bello potersi confrontare con ciò che davvero risulta un'elaborazione personale della mente pensante di un altro utente, perbacco!

Assai più frustrante essere continuamente rintuzzati e contraddetti, sempre indirettamente, e sempre tramite lo stesso testo di un farmacista appassionato di linguistica, ormai, uscito dalla scena del mondo e col quale non posso, quindi, avere alcun tipo di confronto diretto. Autore che, con tutto il rispetto per i defunti e per la sua persona, non ho mai ritenuto, né io né altri, avere islamicamente ricevuto le parole della Rivelazione direttamente dall'arcangelo Gabriele.

La pace sia con i credenti! Ma la libertà di poter pensare autonomamente e porre in discussione – in modo intellettualmente onesto e interessante – quanto non è stato ancora preso in considerazione o non compreso dagli autori (e nella dialettologia le opportunità risultano praticamente infinite) va difesa strenuamente. Contro l'unicità di pensiero. Anche di fronte a chi potesse eventualmente ambire ad affidarsi unicamente al salmodiare del muezzin dal minareto!
Ligure
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Iscritto in data: lun, 31 ago 2015 13:18

Intervento di Ligure »

u merlu rucà ha scritto:
A meno che non si supponga (la butto lí) un latino volgare *VĪCTA tratto dal tema del supino di VĪVO. Ma a dire il vero, a mio avviso, una parola astratta e vaga come vita forse non faceva parte del modo di parlare comune. Un contadino, suppongo, poteva dire il campare, lo stare al mondo; peraltro non trovo tracce di vita nel significato di vivere in nessuno dei lessici e delle raccolte di detti dialettali in mio possesso (e noto di passata che nell’AIS la carta «vita» non c’è!).
Non è il primo che la butta lì...già Emilio Azaretti in "L'evoluzione dei dialetti liguri esaminata attraverso la grammatica storica del ventimigliese" afferma:

vita, che non mi sembra possa essere una parola dotta, potrebbe continuare VICTA "vita, tenor di vita", dal p.p.di VIVERE
L'uomo libero, che pensa colla propria testa, dev'essere anche saggio e moderato e deve dimostrare di saper rispondere a provocazioni (non soltanto di tipo intellettuale) con calma e ragionevolezza.

Ho preferito in primis dimostrare perché l'ipotesi del participio passato - definibile in modo più preciso come ipotesi fondata sull'etimologia (in questo caso, falsa) - non regga sotto l'aspetto metodologico. La quantità di voci che presentano, nei dialetti liguri, geminazione anetimologica risulta talmente ampia che non ha alcun senso procedere mediante singole spiegazioni ad hoc. Che - secondo questo tipo di approccio - rischierebbero, allora, di essere tutte diverse e che, per altro, non sono mai state riscontrate da nessuno.

L'ipotesi del participio passato - o etimologica - già non regge per la voce trattata nel filone dedicato ai Dialetti e cioè stradda /'stradda/. Anche perché essa deriva effettivamente (si verifichi il messaggio citato) da un participio passato, ma la forma verbale etimologica risulta caratterizzata da consonante non geminata /-t-/ (lat. strata). Quindi, l'approccio etimologico (o del part. pass.) non può spiegare un bel nulla. Men che meno la geminazione anetimologica della voce stradda /'stradda/, che deriva proprio da un part. pass..

Inoltre, il presunto participio passato lat. victa, che, qualora fosse esistito, avrebbe dovuto fornire, per assimilazione, vitta, non è mai esistito. Infatti, nei dialetti liguri il participio passato di vivere risulta essere visciűa /vi'ʃy:a/, struttura del tutto parallela alla forma italiana vissuta. Non l'inesistente - come part. pass. - vitta!

Ma ora chiarisco puntualmente perché l'ipotesi dell'Azaretti risulta scorretta. Almeno, relativamente all'ambito ligure. Assumiamo per valida l'ipotesi che l'Azaretti formula al § 81 del proprio testo. Concediamo cioè che, per assurdo, sia davvero esistito il participio passato lat. victa /'vikta/. Benissimo: come sanno perfettamente tutti gli studiosi e i cultori dei dialetti liguri, in essi non opera l'assimilazione, presente ad esempio nel toscano. Infatti, in ambito toscano, da /-kt-/ si sarebbe ottenuto /-tt-/. Come dal lat. factu(m) /'faktũ/ s'ottenne fatto, da un del tutto ipotetico - e inesistente lat. victa /'vikta/ - si sarebbe potuto ottenere vitta.

Ma ciò non risulta assolutamente possibile nei dialetti liguri! Infatti, l'esito di /-kt-/, nei dialetti liguri, risulta /-it-/, non /-tt-/!
Come concordano tutti gli studiosi e i cultori di queste varietà linguistiche *. Esito, per altro, condiviso dai dialetti piemontesi e dalla lingua francese. Quindi, in Liguria, l'evoluzione linguistica di un inesistente lat. victa /'vikta/ non avrebbe potuto fornire altri esiti se non /'viita/>/'vi:ta/, ben diverso dalla forma geminata /'vitta/ **.

Conservatasi nel genovese e ridottasi a vita /'vita/ nel ventimigliese attuale soltanto perché, come sviluppo ulteriore, il ventimigliese tralasciò la geminazione consonantica.

Quindi, nuovamente, l'ipotesi formulata dall'Azaretti potrebbe - del tutto teoricamente - valere se esistesse unicamente il ventimigliese. Ma non vale, ad es., a poter giustificare l'esito genovese vitta /'vitta/. Quindi, risulta trattarsi di un'ipotesi ad hoc, ma, soprattutto, di un'ipotesi fallace perché l'attuale esito conservativo genovese la contraddice nettamente.

Inevitabilmente, quanto propone l'Azaretti, oltre a non riuscire a spiegare nessun'altra delle numerosissime attestazioni di geminazione anetimologica - nel foro, per altro, ne sono state analizzate soltanto due (vitta /'vitta/e stradda /'stradda/) e non si procederà oltre... - risulta errato anche nel singolo caso specifico.

*Come conferma lo stesso Azaretti al § 98 (uso la sua originale impostazione grafica): la C del nesso CT si è palatizzata, a contatto con la consonante dentale, in [y] - intende indicare la voc. i - formando dittonghi discendenti con la precedente vocale. Cita molti esempi, tra i quali FACTU>faitu, LACTE>laite, TECTU>teitu, FRICTU>fritu e DICTU>ditu. Ai quali, dato che a Genova /'ai/>/'ɛ:/, corrispondono, nei dialetti di tipo genovese, fætu /'fɛ:tu/ = fatto, læte /'lɛ:te/ = latte, teitu /'teitu/ = tetto, frîtu /'fri:tu/ = fritto e dîtu /'di:tu/ = detto.

**Gli esiti genovesi sopra riferiti chiariscono (cosa che non pare sia neppure riuscita a sfiorare la mente dell'Azaretti) che, in origine, si avevano /'fri:tu/, /'di:tu/ e /'vitta/ tanto a Genova quanto a Ventimiglia. Cioè esiti differenziati, caratterizzati da due diverse strutture fonologiche. Genova conservò gli esiti originari, mentre, dal momento che Ventimiglia tralasciò quantità vocalica e geminazione consonantica, gli esiti ventimigliesi attuali /'fritu/, /'ditu/ e /'vita/ fecero pensare all'Azaretti a un'origine comune delle tre voci. Il che non è assolutamente! Infatti, gli esiti differenziati - più antichi - conservatisi a Genova mostrano che l'ipotesi - implicita - dell'Azaretti dell'origine comune (senza della quale non sarebbe potuto giungere alla sua errata conclusione) risulta inesatta. Anche perché l'Azaretti formula conclusioni di tipo evolutivo fondandosi sulle forme ventimigliesi attuali! Essa, inoltre, non può certamente spiegare l'attuale forma genovese vitta /'vitta/, più antica dell'attuale voce ventimigliese vita /'vita/: la degeminazione risulta, infatti, processo recenziore anche nei dialetti liguri.
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Ferdinand Bardamu ha scritto:Io non posso far altro che ringraziarla di nuovo per la pazienza e per i rimandi, che ho consultato con grande interesse. Riguardo a vita, ho voluto sottoporre questa mia idea — scorretta, ora lo riconosco — cosicché potesse essere eventualmente confutata.
Sono io a ringraziare lei. Senza il suo sostegno - data la mia mancanza di competenza - non avrei osato neppure approcciare l'ambito delle parlate venete.
Ferdinand Bardamu ha scritto:Se si escludono i cultismi e i forestierismi accolti in un periodo in cui la regola di lenizione delle occlusive intervocaliche non era piú produttiva, non saprei però trovare altre parole del fondo tradizionale (oltre a vita) che presentino un’apparentemente anomala assenza di lenizione o dileguo.
Ovviamente, non possiedo competenze in merito ai lessici veneti. Ma, ad es., mentre non so se/quanto/dove voci quali carota o salata per insalata siano/siano state davvero usate, mi chiedevo se un agg. quale muto, che ritrovo in molti testi veneti, non potesse corrispondere alle caratteristiche di cui si sta trattando.

Ovviamente, il discorso andrebbe ampliato anche agli altri fonemi, ma non intendevo allargare la focalizzazione.
Ferdinand Bardamu ha scritto:Per essere piú precisi: non mi vengono in mente parole venete la cui occlusiva intervocalica tuttora integra sia spiegabile con la degeminazione di una precedente geminata anetimologica.

Forse una regola di geminazione, condizionata dal contesto fonico come nel dialetto del Grigioni italiano, vigeva in passato anche in veneto. Sinceramente, non saprei darle conferma.
Lei ha assolutamente ragione e ritengo che nessuno possa fornirci una conferma, soprattutto perché si tratterebbe - comunque - di fatti linguistici molto antichi.

I ricercatori e gli studiosi, per altro, dovrebbero avere il compito di riuscire a formulare ragionevoli ipotesi anche relativamente agli aspetti evolutivi svoltisi in periodi ancora carenti di attestazioni scritte. Se, poi, stiano desti la notte per farlo è un altro discorso. L'opinione corrente è che non esista documentazione pervenuta in base alla quale si possa identificare un'epoca in cui le parlate venete siano state caratterizzate dalla contrastività della durata consonantica (e, conseguentemente, della quantità vocalica). Il Loporcaro, per altro, riferisce che la geminazione delle sonoranti si mantenne fino a tutto il 200, ma ignoro da dove tragga questa conclusione né se ciò possa aver riguardato anche altri fonemi veneti.
Ferdinand Bardamu ha scritto:Tornando brevemente a arcobaleno: che si tratti di un italianismo, è assodato. Mi preme però sottolineare come sia lecito nutrire «andreottiani» (come ha detto lei, brillantemente) sospetti riguardo alla correttezza (di questa carta) dell’AIS. Vorrei capire com’è possibile che piú di un informatore locale abbia fornito un termine non tradizionale (e passi, sarà caduto in oblío per qualche ragione) per di piú pronunciandolo all’italiana. Sono sospetti infondati? L’adozione dell’italianismo integrale si può spiegare altrimenti rispetto a quella che lei ha definito «risposta ecolalica»?
I suoi sospetti risultano tutt'altro che infondati e condivido i suoi dubbi. Se anche impiegassimo il nostro tempo a consultare le schede compilate dai raccoglitori (ad es., alcune dell'ALI - per altri versi, anche peggiore dell'AIS - risultano molto interessanti), non potremmo/potremo mai sapere con certezza come si sia svolta effettivamente nessuna delle innumerevoli inchieste. Metodologicamente il medium linguistico risulta troppo suggestivo, si sarebbero dovute mostrare immagini. Ma ciò risulta troppo infantilizzante nei confronti dell'informatore, costava molto all'epoca e non risulta adatto per i concetti astratti. Ciò che proprio non ha mai funzionato - ma i raccoglitori teutonici avevano furia anche perché, in molti luoghi, l'alloggio risultava per loro molto inadatto - è stata, per moltissimi Punti, l'identificazione di un unico informatore. Senza alcuna conferma o contraddizione o ampliamento della prospettiva. Paradigma operativo troppo limitativo.
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Ferdinand Bardamu
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Ligure ha scritto:Ovviamente, non possiedo competenze in merito ai lessici veneti. Ma, ad es., mentre non so se/quanto/dove voci quali carota o salata per insalata siano/siano state davvero usate, mi chiedevo se un agg. quale muto, che ritrovo in molti testi veneti, non potesse corrispondere alle caratteristiche di cui si sta trattando.
Carota e salata (=insalata) sono parole usatissime, ma potrebbero essere voci recenti; dopotutto le abitudini alimentari e le colture cambiano nel tempo. Nel Lessico dei dialetti del territorio veronese di Giorgio Rigobello, che è l’opera piú completa al riguardo e include sia arcaismi sia parole di piú recente introduzione, trovo mudo e muta (nelle locuzioni a la muta «alla chetichella» e a la muta e la sórda «di nascosto»). Muto si trova in questo vocabolario bilingue veneziano/padovano-toscano, datato 1821, e nel Dizionario del dialetto veneziano del Boerio.

Ho interrogato poi il corpus di testi veneti dalle origini al XVII secolo e ho trovato diverse occorrenze di mutto:
  • mutto e mutte in Rime di Magagnò, Menon e Begotto (seconda metà del XVI secolo) qui, qui e qui;
  • mutti in Stanze pavane (metà del XVI secolo).
A questi risultati va fatta un po’ la tara. Nel primo testo si fa un largo uso di geminate nelle stesse posizioni in cui comparirebbero in toscano; alcune forme, anzi, sembrano risentire proprio del modello piú prestigioso (es. «Pur s’a’ la rompo, a’ te la pagherò», verso 232). Si usa la grafia con le doppie anche per parole che presumibilmente erano già pronunciate alla maniera odierna, es. stracco (verso 22). Lo stesso si può dire di Stanze pavane.

Del resto, l’incertezza nell’uso delle doppie in scrittura e i vari ipercorrettismi che ne conseguono erano già stati notati da Rohlfs (cfr. Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti. Vol. I. Fonetica, Torino: «Einaudi», 1966, § 229). Difficile trarre alcunché di definitivo dai risultati veneti antichi di cui sopra; il Rohlfs, nello stesso passo summenzionato, ricorda che la degeminazione è un fenomeno seriore rispetto alla sonorizzazione delle consonanti sorde semplici: «[N]el XII secolo (presunta epoca delle migrazioni verso l’Italia meridionale) il fenomeno della degeminazione delle consonanti doppie non era ancora giunto alla sua conclusione».
Ligure ha scritto:I suoi sospetti risultano tutt'altro che infondati e condivido i suoi dubbi. Se anche impiegassimo il nostro tempo a consultare le schede compilate dai raccoglitori (ad es., alcune dell'ALI - per altri versi, anche peggiore dell'AIS - risultano molto interessanti), non potremmo/potremo mai sapere con certezza come si sia svolta effettivamente nessuna delle innumerevoli inchieste. Metodologicamente il medium linguistico risulta troppo suggestivo, si sarebbero dovute mostrare immagini. Ma ciò risulta troppo infantilizzante nei confronti dell'informatore, costava molto all'epoca e non risulta adatto per i concetti astratti. Ciò che proprio non ha mai funzionato - ma i raccoglitori teutonici avevano furia anche perché, in molti luoghi, l'alloggio risultava per loro molto inadatto - è stata, per moltissimi Punti, l'identificazione di un unico informatore. Senza alcuna conferma o contraddizione o ampliamento della prospettiva. Paradigma operativo troppo limitativo.
Non vorrei gettar via il bambino con l’acqua sporca, ma cosa si può salvare dell’AIS? Alcune carte che ho consultato mi sembrano convincenti — penso a quelle relative ai nomi locali della chiocciola e della coccinella —, altre no, ad esempio quella riguardante amico e questa di cui discutiamo ora.

Concordo del tutto con lei riguardo alla necessità di avere un raffronto tra diverse testimonianze, avvalendosi di piú informatori. Per quanto la persona scelta fosse affidabile sulla sua conoscenza della lingua locale, ci potevano essere mille fattori di disturbo a inficiarne la risposta, primo fra tutti il fatto che il raccoglitore non fosse uno del posto.
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Ferdinand Bardamu ha scritto:
Ligure ha scritto:Ovviamente, non possiedo competenze in merito ai lessici veneti. Ma, ad es., mentre non so se/quanto/dove voci quali carota o salata per insalata siano/siano state davvero usate, mi chiedevo se un agg. quale muto, che ritrovo in molti testi veneti, non potesse corrispondere alle caratteristiche di cui si sta trattando.
Carota e salata (=insalata) sono parole usatissime, ma potrebbero essere voci recenti; dopotutto le abitudini alimentari e le colture cambiano nel tempo. Nel Lessico dei dialetti del territorio veronese di Giorgio Rigobello, che è l’opera piú completa al riguardo e include sia arcaismi sia parole di piú recente introduzione, trovo mudo e muta (nelle locuzioni a la muta «alla chetichella» e a la muta e la sórda «di nascosto»). Muto si trova in questo vocabolario bilingue veneziano/padovano-toscano, datato 1821, e nel Dizionario del dialetto veneziano del Boerio.

Ho interrogato poi il corpus di testi veneti dalle origini al XVII secolo e ho trovato diverse occorrenze di mutto:
  • mutto e mutte in Rime di Magagnò, Menon e Begotto (seconda metà del XVI secolo) qui, qui e qui;
  • mutti in Stanze pavane (metà del XVI secolo).
A questi risultati va fatta un po’ la tara. Nel primo testo si fa un largo uso di geminate nelle stesse posizioni in cui comparirebbero in toscano; alcune forme, anzi, sembrano risentire proprio del modello piú prestigioso (es. «Pur s’a’ la rompo, a’ te la pagherò», verso 232). Si usa la grafia con le doppie anche per parole che presumibilmente erano già pronunciate alla maniera odierna, es. stracco (verso 22). Lo stesso si può dire di Stanze pavane.

Del resto, l’incertezza nell’uso delle doppie in scrittura e i vari ipercorrettismi che ne conseguono erano già stati notati da Rohlfs (cfr. Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti. Vol. I. Fonetica, Torino: «Einaudi», 1966, § 229). Difficile trarre alcunché di definitivo dai risultati veneti antichi di cui sopra; il Rohlfs, nello stesso passo summenzionato, ricorda che la degeminazione è un fenomeno seriore rispetto alla sonorizzazione delle consonanti sorde semplici: «[N]el XII secolo (presunta epoca delle migrazioni verso l’Italia meridionale) il fenomeno della degeminazione delle consonanti doppie non era ancora giunto alla sua conclusione».
Innanzitutto esprimo un grato apprezzamento per l'ottima acribia filologica dimostrata che consente anche ai profani di poter accedere direttamente alle testimonianze delle parlate venete tramite le grafie storiche colle quali esse ci sono state tramandate.

Nel merito e nell'interpretazione delle fonti venete mi trovo, sostanzialmente, d'accordo con lei. Mentre - almeno, a livello personale - posso pensare che voci quali muto e vita siano da ritenersi di tradizione diretta * (sono troppo diffuse - sempre con /-t-/ - anche in altri dialetti settentrionali e, per altro, esiste anche il cognome settentrionale Mutti), risulta ragionevole attribuire, ad es., l'esito salata ad epoca seriore, cioè post lenitionem.

Qualora interessi, informo che questo è, ad es., il caso del genovese. Da un poeta locale si viene a sapere che, alla fine del 500 (precisamente nell'anno 1595), il poeta stesso recrimina sull'italianismo insalatta - a Genova geminato perché la geminazione postaccentuale perdura tuttora, nel Veneto scempio perché la degeminazione aveva già effettuato il proprio compito -.

Il poeta conservatore afferma che la voce più antica era insizamme /ˌinsi'zamme/. La radice è la stessa d'incidere - ma nel senso di tagliuzzare, fare a pezzettini -.

Ferdinand Bardamu ha scritto:
Ligure ha scritto:I suoi sospetti risultano tutt'altro che infondati e condivido i suoi dubbi. Se anche impiegassimo il nostro tempo a consultare le schede compilate dai raccoglitori (ad es., alcune dell'ALI - per altri versi, anche peggiore dell'AIS - risultano molto interessanti), non potremmo/potremo mai sapere con certezza come si sia svolta effettivamente nessuna delle innumerevoli inchieste. Metodologicamente il medium linguistico risulta troppo suggestivo, si sarebbero dovute mostrare immagini. Ma ciò risulta troppo infantilizzante nei confronti dell'informatore, costava molto all'epoca e non risulta adatto per i concetti astratti. Ciò che proprio non ha mai funzionato - ma i raccoglitori teutonici avevano furia anche perché, in molti luoghi, l'alloggio risultava per loro molto inadatto - è stata, per moltissimi Punti, l'identificazione di un unico informatore. Senza alcuna conferma o contraddizione o ampliamento della prospettiva. Paradigma operativo troppo limitativo.
Non vorrei gettar via il bambino con l’acqua sporca, ma cosa si può salvare dell’AIS? Alcune carte che ho consultato mi sembrano convincenti — penso a quelle relative ai nomi locali della chiocciola e della coccinella —, altre no, ad esempio quella riguardante amico e questa di cui discutiamo ora.

Concordo del tutto con lei riguardo alla necessità di avere un raffronto tra diverse testimonianze, avvalendosi di piú informatori. Per quanto la persona scelta fosse affidabile sulla sua conoscenza della lingua locale, ci potevano essere mille fattori di disturbo a inficiarne la risposta, primo fra tutti il fatto che il raccoglitore non fosse uno del posto.
Credo che nessuno - men che meno noi - intenda buttare via l'AIS. Sempre che dell'AIS qualcuno tuttora si occupi...

Né criticare aprioristicamente i raccoglitori teutonici o il loro modus operandi. Provenienti dai centri d'eccellenza della ricerca europea, si dovettero confrontare con un'Italia scomoda. Spesso strade inesistenti, locande scomode, mal approvvigionate, informatori talora troppo vecchi (almeno, per l'epoca - chi era un po' meno vecchio aveva da fare di meglio... -), forse competenti, ma demotivati, spesso riluttanti e - assai spesso - privi di denti (i contadini non prenotavano su Internet la dentiera in Slovenia o in Croazia...). S'immaginino le difficoltà a capirli per chi non era né veneto né italiano...

Il problema, però, soprattutto ora che quasi più nessuno possiede una conoscenza effettiva di ciò che fu il dialetto, richiede di spostare il fuoco dell'attenzione dall'oggetto - in questo caso il libro, anzi, i volumoni dell'AIS - al soggetto.

Evitando atteggiamenti estremistici. Altrimenti, dovremmo stigmatizzare il libro e si sa dove questo tipo di estremismo abbia condotto gli umani (roghi, prima per i libri...). Nessuno di noi può desiderare tutto ciò.

Ma evitando anche di prendere - acriticamente - per oro colato tutto quanto i volumi dell'AIS contengono.

A scriverlo si fa presto. Oggi tutto ciò risulta alquanto difficile, in realtà. Gli studiosi - in primis - non possiedono più - personalmente - una conoscenza del dialetto adeguata. Informatori odierni attendibili risulterebbero - quasi praticamente - introvabili. Per altro e per le ragioni più disparate, ora studiosi, ricercatori e cultori hanno furia. Pur nell'ambito della loro vita confortevole. Molta più furia dei colti teutoni piombati in un'Italia arcaica, paesana, sgangherata. Soprattutto se confrontata cogli ambienti lindi e professionali della ricerca svizzera e tedesca di quegli anni. Ma, attualmente, anche gli studiosi ecc... non riescono a problematizzare, assumono come repertorio indiscutibile ciò che non è altro che il resoconto di un'interazione puntuale intercorsa - in un ambiente fisico non sempre confortevole e adeguato - un giorno di tanto tempo fa tra un colto professore teutone e un italiano incolto e sdentato.

Sta vincendo il semplicismo culturale. Non si riesce più a tenersi in pancia il dubbio, a poter immaginare la possibilità di un'alternativa.

Attendo - con disagio anticipatorio - il giorno in cui s'obietterà a qualche mia riflessione sul genovese, dicendomi: ma l'AIS riferisce che....

È criminale bruciare i libri, è improduttivo stigmatizzarli, ma è davvero sbagliato, limitativo - e, al limite, persecutorio per chi intenda continuare a problematizzare gli argomenti trattati, a elaborare dubbi e a poter pensare in libertà e autonomia a ipotesi alternative corrette - illudersi che qualcuno di essi possa valere quale Contenitore del Tutto.

Nella linguistica come in molti altri settori.

* Ovviamente, il fatto che risulti ragionevole poter anche ritenere di tradizione ininterrotta le voci riferite non implica che - data la loro struttura palesemente esente dagli effetti della [/]lenizione[/i] (e non soltanto in veneto o in genovese, ma in molte [/]varietà linguistiche settentrionali[/i] ** - che non ci si debba interrogare sulla ragione per cui ciò si è verificato e se ciò non risulti in diretta connessione col processo linguistico costituito dalla geminazione anetimologica. Esporrò in un successivo messaggio quelli che sembrano essere i collegamenti diretti che intercorsero tra la geminazione anetimologica e gli esiti esenti da lenizione in voci che non è irragionevole ritenere di derivazione diretta.

** Ad es., avevo riferito - in un messaggio precedente - le conclusioni del bolognese D.Vitali in merito al fatto che - nel dialetto di Bologna - l'esito locale corrispondente a muto, data la sua fonologia specifica (condivisa colle forme locali corrispondenti a pipa, stufo e vita), non potesse che derivare da una voce caratterizzata da geminazione consonantica anetimologica. Esattamente come si può riscontrare in genovese per tutte le voci corrispondenti a quelle analizzate dal Vitali. Quanto chiaramente riscontrato dal Vitali per il bolognese vale anche - mutatis mutandis- per molti altri dialetti settentrionali. Non è che un fenomeno linguistico non esista o non sia esistito solo perché gli Autori non se ne sono occupati o - più frequentemente ancora - non se ne sono resi conto o - come nel caso del dialetto parlato nella parte dei Grigioni linguisticamente italiana (in cui il sussistere a tutt'oggi della geminazione consonantica anetimologica impedisce il disconoscimento del fenomeno, almeno, a livello fonetico) - la spiegazione (anche perché l'Autrice dell'articolo citato in precedenza non mostra di risultare al corrente di una situazione analoga in altri dialetti settentrionali) risulta ampiamente insoddisfacente.
Ultima modifica di Ligure in data dom, 07 ott 2018 17:39, modificato 1 volta in totale.
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Ferdinand Bardamu
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Ligure ha scritto:Nel merito e nell'interpretazione delle fonti venete mi trovo, sostanzialmente, d'accordo con lei. Mentre - almeno, a livello personale - posso pensare che voci quali muto e vita siano da ritenersi di tradizione diretta * (sono troppo diffuse - sempre con /-t-/ - anche in altri dialetti settentrionali e, per altro, esiste anche il cognome settentrionale Mutti), risulta ragionevole attribuire, ad es., l'esito salata ad epoca seriore, cioè post lenitionem.
Avevo pensato anch’io, in effetti, al cognome Mutto/Mutti, presente anche dalle mie parti. Certo è che grafie come mutto, se da un lato ci aiutano molto poco per capire se la geminazione permanesse anche all’epoca in cui sono attestate, dall’altro sono segno della mancata sonorizzazione della consonante intervocalica. E una parola come muto è indubbiamente popolare ed è stata ereditata dal latino per via diretta: non può essere, questa no, dòtta. Se nel Cinquecento la geminazione non era piú produttiva, dev’essere esistita, in epoche precedenti, una forma /ˈmutto/ che ha impedito la lenizione dell’occlusiva intervocalica. D’altra parte, il Lessico di Rigobello attesta anche mudo (senza citare fonti, però), quindi l’esito del latino MUTU(M) potrebbe non essere uniforme.

In quanto a vita, ci sono altre cose da dire. In L’altra lingua. Parole a confronto: veneto-italiano di Dino Coltro, l’autore, alla voce vita (=schiena) dice, cito a memoria, che vita nel senso di vivere non si usa tanto e che la parola adoperata comunemente è vívare. Il Rohlfs in Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti. Vol. I. Fonetica, Torino: «Einaudi», 1966, § 201 precisa, alla fine del paragrafo, che «Le forme del milanese vita, natüra, creatüra, saturno, fatal, natal, del parmigiano vita, crovati ‘croati’, sono imprestiti dalla lingua letteraria».

Io credo — ma è una convinzione di profano! — che, oltre che sulle possibili geminazioni anetimologiche, si debba indagare a fondo sui rapporti tra lingua popolare e lingua colta (latino liturgico o toscano letterario che sia) e in particolare sull’influenza di quest’ultima sulla prima. Il Rohlfs stesso chiama in causa quest’influsso per spiegare il ricupero di un /d/ intervocalico perduto in parole come il veneziano monéda, fradèlo, ecc.: lo sviluppo ultimo di /-t-/ latino nel Settentrione è infatti il dileguo completo della consonante, come in suàre (=sudare), rua (=ruota), déo (=dito), maúro (=maturo).
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