A (parziale) difesa del nostro Scilens, va detto che c' (c seguito da apostrofo o apice) è stato usato in varie trascrizioni fonetiche e fonologiche del passato con il valore di /ʧ/, indipendentemente dalla vocale seguente.Ferdinand Bardamu ha scritto:Ma, caro Scilens, la regola ortografica che s’impara alle elementari (e che è valida, sempre) è questa: il grafema ‹c› si legge /ʧ/ solo se seguíto da ‹i› o ‹e›. Fine della questione.
«Ce n’è»
Moderatore: Cruscanti
A SinoItaliano:
Non solo, basta dare un'occhiata a quante volte viene usata la c apostrofata davanti ai verbi che iniziano soprattutto per a con il significato di ci (a noi).
Soprattutto nell' '800 ci sono tanti casi contrarii, di c' che significherebbe "che", ma questo dipende dalla teoria grammatica che si cercò d'affermare.
A Carnby:Scilens ha scritto: nel caso della c isolata, in compagnia del solo apostrofo (c') non si può immaginare altro che non sia una c dolce, perché si trovava davanti ad una e o una i. Non esistono altri casi e se esistono non li conosco.
Non solo, basta dare un'occhiata a quante volte viene usata la c apostrofata davanti ai verbi che iniziano soprattutto per a con il significato di ci (a noi).
Soprattutto nell' '800 ci sono tanti casi contrarii, di c' che significherebbe "che", ma questo dipende dalla teoria grammatica che si cercò d'affermare.
Ultima modifica di Scilens in data gio, 03 apr 2014 18:33, modificato 1 volta in totale.
Saluto gli amici, mi sono dimesso. Non posso tollerare le contraffazioni.
- Animo Grato
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Come si disse in questo filone, dieci anni è pronunciato naturalmente "dieciànni". Allo stesso modo, in una frase come "non ci ho voglia" ogni italiano riconosce l'uso colloquiale del ci, e dovrebbe adottare spontaneamente la pronuncia appropriata.
Altri casi dimostrano che in italiano non funziona così: si può apostrofare gl'indigeni, ma non *gl'ornitorinchi. E la pronuncia di gli in quest'ultimo caso (come anche di un diverso gli in gli ordinai) è un esempio della normalità della resa dell'elisione anche quando non è segnalata dalla grafia.Scilens ha scritto:[ I]l caso della c apostrofata deve tener conto della natura della vocale caduta, cioè non di quella che la segue, ma di quella che l'apostrofo sostituisce.
Questa è la regola giusta e applicata.
Ultima modifica di Animo Grato in data gio, 03 apr 2014 18:37, modificato 1 volta in totale.
«Ed elli avea del cool fatto trombetta». Anonimo del Trecento su Miles Davis
«E non piegherò certo il mio italiano a mere (e francamente discutibili) convenienze sociali». Infarinato
«Prima l'italiano!»
«E non piegherò certo il mio italiano a mere (e francamente discutibili) convenienze sociali». Infarinato
«Prima l'italiano!»
- Ferdinand Bardamu
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Non lo sapevo: grazie. Però, come dice lei, si tratta di trascrizioni fonetiche e fonologiche (note certamente solo a un’esigua minoranza degli scriventi), non della grafia ordinaria.Carnby ha scritto:A (parziale) difesa del nostro Scilens, va detto che c' (c seguito da apostrofo o apice) è stato usato in varie trascrizioni fonetiche e fonologiche del passato con il valore di /ʧ/, indipendentemente dalla vocale seguente.
Se ha qualche valore l’esperienza personale, quando vidi per la prima volta un «c’ho» pensai si trattasse della contrazione di «che ho» e, mentalmente, lo pronunciai come /kɔ/. E in nome della coerenza ortografica mi sono sempre rifiutato di adottare questa scrittura. Perciò credo che, quando lei dice «non si può immaginare altro che…», parli a titolo personale.Scilens ha scritto:nel caso della c isolata, in compagnia del solo apostrofo (c') non si può immaginare altro che non sia una c dolce, perché si trovava davanti ad una e o una i. Non esistono altri casi e se esistono non li conosco.
Dice benissimo, poi, Animo Grato: quelli che víolano bellamente la regola della non elisione di ci davanti a a-, o-, u-, h- per il solito non víolano, coerentemente, pure l’analoga regola che impedisce l’elisione di gli davanti agli stessi segni. Non ho mai visto un «gl’ho detto» e, se qualcuno lo scrivesse, immagino che verrebbe immediatamente corretto.
Per l’espressione grafica dei suoni /ʧ/, /ʤ/ e /ʎ/ prima di a-, o-, u- è indispensabile l’uso del segno diacritico ‹i›. Non si scappa.
Devo dire che chi sostiene la posizione della lettura "cò" di "c'ho" ha qualche ragione, perché questa "regola" cieca è diffusa a macchia di leopardo nella letteratura e addirittura negli stessi singoli scrittori, dove nello stesso autore si possono trovare varianti grafiche e saltuarie inosservanze.
Insomma, c'è una gran confusione.
Esempio Ariosto, che usa sia "c'ho" che "ch'ho" e anche "tosto ch'a Reggio".
La regola si vede contravvenuta in molteplici modi e in tanti scrittori, e si trova la stessa incertezza per un lungo lasso di tempo.
Esempio Goldoni, un altro a caso, ce ne sono di molti autori.
Egli usa "c'ho" come elisione di "che ho", però usa anche "gl'ho detto", che secondo la regola (che ritengo) errata dovrebbe essere letto "glo".
Invece il gruppo "gl" è sentito come "gli", di per sé. Nello stesso modo funziona la c, che viene istintivamente sentita come dolce in modo originario, come se il suono duro che prende davanti ad a,o,u, fosse una variante secondaria (questo fu accennato in un'altro filone). Così nasce il c'ho. Perché succeda questo bisogna che si senta la presenza della vocale elisa che lascia nel fantasma, l'apostrofo. Scrivevo sopra che le lingue contengono princìpi inespressi che vengono applicati automaticamente, come nel caso del famoso e combattuto "c'ho" per ci ho. Ma intervenne un qualche personaggio autorevole e nacque la confusione.
Questa confusione la credo dovuta alla teorizzazione di qualche grammatico che ha partorito la regola errata, forse nel '500. Il problema è che questa regola è stata seguita, ma non in modo uniforme e non in ogni caso, a pezzi e bocconi e per qualche secolo.
L'unica cosa da fare ora è tornare all'antico e ammettere quelle forme che ora si vorrebbero proibite.
Rimane il problema delle vecchie grafie (e qui capisco i timori del buon Ferdinand), che comunque possono essere capite dal contesto.
So che molti giudicheranno queste righe un'assurdità dovuta a profonda e testarda ignoranza, ma è quel che penso e non è infondato.
"Gl’occhi col core stanno in tenzamento..."
Insomma, c'è una gran confusione.
Esempio Ariosto, che usa sia "c'ho" che "ch'ho" e anche "tosto ch'a Reggio".
La regola si vede contravvenuta in molteplici modi e in tanti scrittori, e si trova la stessa incertezza per un lungo lasso di tempo.
Esempio Goldoni, un altro a caso, ce ne sono di molti autori.
Egli usa "c'ho" come elisione di "che ho", però usa anche "gl'ho detto", che secondo la regola (che ritengo) errata dovrebbe essere letto "glo".
Invece il gruppo "gl" è sentito come "gli", di per sé. Nello stesso modo funziona la c, che viene istintivamente sentita come dolce in modo originario, come se il suono duro che prende davanti ad a,o,u, fosse una variante secondaria (questo fu accennato in un'altro filone). Così nasce il c'ho. Perché succeda questo bisogna che si senta la presenza della vocale elisa che lascia nel fantasma, l'apostrofo. Scrivevo sopra che le lingue contengono princìpi inespressi che vengono applicati automaticamente, come nel caso del famoso e combattuto "c'ho" per ci ho. Ma intervenne un qualche personaggio autorevole e nacque la confusione.
Questa confusione la credo dovuta alla teorizzazione di qualche grammatico che ha partorito la regola errata, forse nel '500. Il problema è che questa regola è stata seguita, ma non in modo uniforme e non in ogni caso, a pezzi e bocconi e per qualche secolo.
L'unica cosa da fare ora è tornare all'antico e ammettere quelle forme che ora si vorrebbero proibite.
Rimane il problema delle vecchie grafie (e qui capisco i timori del buon Ferdinand), che comunque possono essere capite dal contesto.
So che molti giudicheranno queste righe un'assurdità dovuta a profonda e testarda ignoranza, ma è quel che penso e non è infondato.
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Al mio orecchio suonano diversamente.Scilens ha scritto:Invece il gruppo "gl" è sentito come "gli", di per sé. Nello stesso modo funziona la c, che viene istintivamente sentita come dolce in modo originario, come se il suono duro che prende davanti ad a,o,u, fosse una variante secondaria (questo fu accennato in un'altro filone). Così nasce il c'ho. Perché succeda questo bisogna che si senta la presenza della vocale elisa che lascia nel fantasma, l'apostrofo.
"c'ho" mi suona bene /tSO/, evidentemente sento la vocale fantasma.
"gl'occhi" invece mi suona /'glOkki/.
C'è da dire che lo "gli" intero dà meno problemi rispetto al "ci".
"Ci ho" rischia di essere letto con due sillabe "tSi O", "gli occhi" al massimo suggerisce una semiconsonante che (per punto di articolazione) si distingue poco dalla laterale.
- Infarinato
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«Gli» e «ci»
Il [i]DOP[/i], [i]s.v. [/i]«[url=http://www.dizionario.rai.it/poplemma.aspx?lid=53356]gli[/url]» (sottolineature mie), ha scritto:[E]lis[ione] normale nella pronunzia davanti a tutte le voc[ali] e semicons[onanti], ma rappresentata nell’ortografia moderna solo davanti a i[.]
…«ὁ ἔχων ὦτα ἀκούειν, ἀκουέτω».Il [i]DOP[/i], [i]s.v. [/i]«[url=http://www.dizionario.rai.it/poplemma.aspx?lid=70940]ci[/url]» (sottolineature mie), ha scritto:[N]on rappresentata dalla scrittura l’elis[ione] davanti a vocali diverse da e- o i-: non ci ho tempo [non č ǫ ttèmpo], che ci azzecca? [ke čč azzékka] (non c’ho, c’azzecca, g[ra]f[ie] frequenti in scritture trascurate, dove sembrano suggerire una p[ro]n[uncia] velare del c come in poc’anzi [pǫk ànzi], Marc’Antonio [mark antòni̯o], e in tutti i modi sottintendono, e non dovrebbero, una p[ro]n[uncia] diversa da quella di dieci anni [di̯ęč ànni])[.]
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