Futuro antico

Spazio di discussione dedicato alla storia della lingua italiana, alla sua evoluzione e a questioni etimologiche

Moderatore: Cruscanti

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bartolo
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Futuro antico

Intervento di bartolo »

C'è un canto polifonico del XVI secolo, Christo al morir tendea, nei cui versi noto una incongruenza:

«[...] Et ei, pur come Agnel che tace e more,
svenerassi per voi d’immenso amore.

Dunque, diletti miei, s’a dura croce, in man d’iniqui e rei,
dà per salvarvi ‘l sangue e l’alma e ‘l core
lasciaretelo voi per altro amore?».

In neretto ho evidenziato due futuri della prima coniugazione - da "svenarsi" e "lasciare" - dei quali il primo è formato con /er/, il secondo con /ar/.
Secondo voi - visto che il testo è del Cinquecento - siamo davanti a una leziosità o a un ipercorrettismo?

Grazie
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Nel Cinquecento non era ancora del tutto normalizzata la morfologia verbale, donde oscillazioni come questa. La grammatica dell’italiano antico (capitolo Morfologia verbale) dice:

Accanto alle forme con vocale tematica del tema primario -e-, nella I coniug. si hanno ess. di -a- (tipo non fiorentino), ad es. giudicarete (Brunetto Latini, Rettorica, p. 186, r. 3), amaranno (Distruzione di Troia, p. 163, r. 28).

Il tipo lasciarò sembra circoscritto al periodo che va da metà Quattrocento a metà Seicento: si trova da Niccolò da Correggio (1450-1508) a Pallavicino (1616-1644).
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Ladim
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Intervento di Ladim »

Abrupte: testo esemplato da copista senese.
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Infatti (lo dico per esplicitare il messaggio di Ladim), l’uscita in -arò è tipica del senese. Cito dal Rohlfs (Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, Torino, Einaudi, 1968, vol. II, Morfologia, § 587, p. 331):

Al contrario di Firenze, per Siena è di regola -arò, cfr. già nella lettera del 1260 mandarai, miraremo (Monaci, 59), oggi cantarò, mandaremo; anzi, qui anche l’e delle altre coniugazioni passa ad a (mòrdare, véndare, pèrdare), cosí come vi si ha albaro anziché albero (cfr. § 139), per cui il futuro vi suona mettarò, movarò, battarài, perdarà; già nel 1260 avaremo, rispondarà.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Dario Brancato
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Intervento di Dario Brancato »

Marco1971 ha scritto:Infatti (lo dico per esplicitare il messaggio di Ladim), l’uscita in -arò è tipica del senese. Cito dal Rohlfs (Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, Torino, Einaudi, 1968, vol. II, Morfologia, § 587, p. 331):

Al contrario di Firenze, per Siena è di regola -arò, cfr. già nella lettera del 1260 mandarai, miraremo (Monaci, 59), oggi cantarò, mandaremo; anzi, qui anche l’e delle altre coniugazioni passa ad a (mòrdare, véndare, pèrdare), cosí come vi si ha albaro anziché albero (cfr. § 139), per cui il futuro vi suona mettarò, movarò, battarài, perdarà; già nel 1260 avaremo, rispondarà.
Le desinenze "argentee" in -ar si trovano a Firenze già a partire dalla metà del Trecento (N. Maraschio, Ricerche sui tratti fonetici e morfologici del fiorentino quattrocentesco, «Studi di Grammatica Italiana» VIII, 1979, 115-171, p. 154) e si diffondono al punto tale che Varchi nell'Hercolano le predilige, pur alternandole con le quelle fiorentine in -er. Sul motivo della scelta varchiana le spiegazioni possono essere diverse: apertura ai grammatici senesi (secondo Nencioni), resistenza delle forme argentee, conguaglio delle desinenze extrafiorentine con quelle latine (secondo A. Sorella).
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Interessante. Ma non sarà il solo Varchi (alquanto anticonformista, e vissuto qua e là) a adoperare quelle forme? O questi futuri in -arò si trovano in altri autori fiorentini coevi? E quali?
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Brazilian dude
Moderatore «Dialetti»
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Intervento di Brazilian dude »

Questi futuri in arò assomigliano ancor più alle forme spagnole, catalane e portoghesi: amarò, amaré (cat/spa), amarei (por).
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Nella sua Storia della lingua italiana (Firenze, Sansoni, 1988) Bruno Migliorini scrive (capitolo sul Cinquecento, vol. I, p. 351):
L’esito -er- da -ar- è normale a Firenze e dintorni, mentre già a Siena e ad Arezzo -ar- persiste. Nella serie dei futuri e dei condizionali le forme in -erò, -erei s’impongono, conforme alle prescrizioni dei grammatici (118).
Qualche scrittore settentrionale o meridionale ancora si attiene alle forme in -arò, -arei (come il Giovio nelle lettere, ecc.); ma avendo il Vergerio adoperato invocarò, pendarò, trovarete, il Muzio lo rimprovera della trasgressione (Battaglie, c. 51 a): gli sfuggiva, evidentemente, che i futuri in -erò erano di origine fiorentina.
____________________
(118) «Era di necessità eziandio, che, in tutti i verbi della prima maniera, la a si ponesse nella penultima sillaba... Ma l’usanza della lingua ha portato che vi si pone la e in quella vece, e dicesi amerò, porterò» (Bembo, Prose, p. 131 Dionisotti). Il Trissino nella Grammatichetta dà solo honorerò, honorerei, ecc. Il Salviati (Avvertimenti, II, c. 16) biasima le forme portarò, portarei, «che alcuni scrittori a i nostri tempi hanno voluto introdurre» (il Nencioni pensa che alludesse al Varchi, eclettico nell’uso dei due tipi).
Queste forme in -e- erano già prevalenti nel Trecento a Firenze.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Marco1971
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Iscritto in data: gio, 04 nov 2004 12:37

Intervento di Marco1971 »

Ho eseguito alcuni spogli elettronici sulla LIZ[a]. Per il Trecento, il tipo -arò/-arei (tranne che, è ovvio, nelle forme dei verbi irregolari) si trova solo presso scrittori non fiorentini. In Dante non ve n’è traccia; in Boccaccio ho rinvenuto quattro forme «devianti» (una sola occorrenza per ciascuna): lasciarai, maritaremo, estimarete, rivocareste. Ma sono tutte messe in bocca a personaggi, nel discorso diretto; potrebbe darsi che il Boccaccio le abbia scelte di proposito per sottolineare la parlata non fiorentina. Non ho avuto tempo di esaminare il Quattro e Cinquecento.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Marco1971
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Iscritto in data: gio, 04 nov 2004 12:37

Intervento di Marco1971 »

Non ho potuto condurre un’indagine minuziosa e approfondita, per l’enorme produzione quattro e cinquecentesca. Mi sono limitato a cercare *arei e *arebbe. I risultati appaiono abbastanza simili a quelli per il Trecento: le forme in -ar- sono scarsamente rintracciabili negli scrittori fiorentini. Per il Quattrocento: un gridarei del Burchiello e lodarei, notarei, stimarei presso Leon Battista Alberti; per il Cinquecento, un andarebbe di Grazzini. Nel Machiavelli si trova solo il tipo -er-.

Interessante che il Bembo delle Prose prescriva il tipo -er- e negli Asolani scriva lasciarebbe; ma le Prose sono del 1525, mentre gli Asolani del 1506-12.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Dario Brancato
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Iscritto in data: mar, 25 set 2007 1:45

Intervento di Dario Brancato »

Marco1971 ha scritto:Non ho potuto condurre un’indagine minuziosa e approfondita, per l’enorme produzione quattro e cinquecentesca. Mi sono limitato a cercare *arei e *arebbe. I risultati appaiono abbastanza simili a quelli per il Trecento: le forme in -ar- sono scarsamente rintracciabili negli scrittori fiorentini. Per il Quattrocento: un gridarei del Burchiello e lodarei, notarei, stimarei presso Leon Battista Alberti; per il Cinquecento, un andarebbe di Grazzini. Nel Machiavelli si trova solo il tipo -er-.

Interessante che il Bembo delle Prose prescriva il tipo -er- e negli Asolani scriva lasciarebbe; ma le Prose sono del 1525, mentre gli Asolani del 1506-12.
Burchiello e il Lasca: cioè poeti popolareschi. È in un certo senso naturale trovare le desinenze in -ar proprio in quegli autori. Mirko Tavoni (Il Quattrocento, p. 184) ha già rilevato che l'Alberti prescrive l'uso delle desinenze fiorentine nella sua Grammatichetta, contraddicendosi nella pratica scrittoria. Non dimentichiamo che i tratti "argentei" si diffusero a Firenze dopo la peste del 1348, dal basso e dal contado: molti, spiega Paola Manni, «risultano da un'evoluzione spontanea interna al sistema le cui radici possono risalire a epoca molto antica; ma un numero non minore di innovazioni sono dovute all'influsso delle altre varietà toscane, particolarmente quelle occidentali» (Il Trecento toscano, p. 56)
Avatara utente
Marco1971
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Iscritto in data: gio, 04 nov 2004 12:37

Intervento di Marco1971 »

Grazie, caro Dario, di queste informazioni. :)

P.S. Preciso, per i nostri lettori, che il Lasca è il soprannome di Grazzini.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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