Indovinello veronese e latino volgare

Spazio di discussione dedicato alla storia della lingua italiana, alla sua evoluzione e a questioni etimologiche

Moderatore: Cruscanti

amicus_eius
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Intervento di amicus_eius »

Uri Burton, con lo spirito che sempre lo contraddistingue, più che giustamente scrive
caixine ha scritto:
...nessuno mi potrà piú venire a raccontare la fola della derivazione dal latino e quell’altra simpatica storiella dell’indoeuropeo, pensando di poterla far franca in eterno.
Mio Dio che paura. Ora ci chiudiamo tutti nel gabinetto e ne usciamo domani mattina.
Per quanto riguarda l'intervento di Caixine, è vano dare risposte. Credo che questo filone si possa anche chiudere qui.
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caixine
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Intervento di caixine »

Gentile amicus_eius

è sempre un piacere confrontarsi con la sua vivacissima intelligenza, con la sua vasta ed enciclopedica cultura e con la sua schioppettante argostuzia (mio idiotismo: argustuzia-argstuzia-argostuzia= arguzia+astuzia; liberamente e spontaneamente tratto con la meccanica della grammatica generativa e l'elettronica delle reti neurali).

Credo che se, nella “scuola-istituto-università” dove insegna, un qualche suo allievo le rivolgesse il quesito da me posto, lei non potrebbe certo cavarsela così facilmente, affermando la vanità e l’inutilità di una risposta nel merito.

Anche perché, alla luce delle precedenti e lunghe discussioni, appare piú che evidente, anche per un profano, l’impossibilità di dimostrare l’assurda-infantile tesi che un tempo tutti gli individui d’ogni luogo e d’ogni classe sociale dell’Europa romana fossero giunti a parlare “esclusivamente” una sola e identica lingua chiamata “latino” da cui secondo la stessa tesi discenderebbero i latini volgari e da questi le lingue chiamate romanze o neolatine, dialetti compresi.

Ciò che si può ragionevolmente sostenere è soltanto, che: le minoranze dominanti dei vari popoli d’Europa, in epoca romana, ossia i ceti culturalmente-economicamente-politicamente egemoni sono giunti nei secoli, a parlare e in parte a scrivere anche una quasi identica lingua chiamata latino, diffusasi con l’amministrazione romana e la sua prevalenza culturale legata al suo potere politico-militare.

Si può anche ragionevolmente sostenere che tale lingua (il latino) ha influenzato le lingue naturali e parlate dai vari popoli dell’Europa romana, dette anche volgari (perché parlate prevalentemente in modo esclusivo dal popolo, inteso come classe sociale distinta dai ceti dominanti dello stesso popolo), le quali a loro volta hanno influenzato il latino stesso, parlato e in parte scritto, dai ceti dominanti.

In questi secoli della romanità europea, nulla ci fa escludere che le genti non praticassero, normalmente e tranquillamente, il bi/trilinguismo come si pratica ai nostri giorni e come si praticava nei secoli scorsi, di cui si ha abbondante testimonianza documentale scritta.

Dal mio canto, faccio tesoro di tutto, di ogni contributo. Presto la massima attenzione ai linguisti che si occupano dell’evoluzione fonetico-fonologica delle lingue umane in generale e della famiglia indeuropea e nostratica in particolare, non disdegno neppure le loro ardite ipotesi ricostruttive, anche se a volte fanno sorridere;
rivolgo il medesimo interesse ai filologi delle lingue antiche e ad uno in particolare che, con, troppo imprudente e perciò sospetto, sprezzo, taluni tentano di liquidare tacciandolo di paretimologia, quasi che costui producesse in loro un qualche strano e inconfessabile senso di colpa;
ma tengo sempre, al primo posto, la lingua viva, quella che gli uomini parlano spontaneamente nel quotidiano quando possono esprimersi negli spazi di libere relazioni umane di affetto e di lavoro.

Anche il buon Allighieri non è stato immune da “credenze” come quella che tutte le lingue umane derivano da quella primitiva ebraica con cui era stata scritta la Bibbia.
E tra la “credenza” di Dante e la perdurante “credenza” che il latino sia la madre delle lingue volgari detti dialetti e delle lingue elittarie dette romanze o neolatine, non v’è molta differenza.
Ma se per l'acuto linguista saggista, il fine letterato e tra i più sommi poeti dell'umanità, l'umanissimo cantore Dante, vi è la scusante che ai suoi tempi la conoscenza, in generale, della storia della lingua umana era piuttosto scarsa e lacunosa, oggi non vi piú alcuna scusante per nessuno.

L’autorità di un buon insegnante, dovrebbe derivare dall'autorevolezza della sua ragione, piú che dall’autoritarismo messo in campo quando, non potendo dare risposte sensate, crede di cavarsi d’impaccio, umiliando lo studente interrogante affermando che i suoi quesiti sono semenze e quindi vane e inutili le risposte.
Così facendo l’insegnante perde in dignità, in autorevolezza e sinanche il rispetto dell’allievo.
Ke bela ke la xe la me lengoa veneta, na lengoa parlà co' piaser anca dal bon Dio!
Alberto Pento
amicus_eius
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Intervento di amicus_eius »

Gentile Caixine,

Di fronte a un alunno che mi ponesse interrogativi come quelli da lei posti, risponderei quanto segue:

1) che il latino non era un'entità monolitica, ma esso stesso presentava varianti spesso diverse a seconda della classe sociale, del luogo d'origine (se la campagna o Roma, per cui c'era un latino rustico e uno urbano); inoltre, lo stesso latino ha avuto una storia complessa e articolata, per cui il latino arcaico è molto diverso dal latino classico e il latino classico è molto diverso dal latino tardo, scritto e parlato, rustico e urbano, plebeo e colto;

2) che il latino era affiancato, nella penisola Italica e altrove da altre lingue indoeuropee e non; tuttavia, progressivamente, ha soppiantato, per la pressione militare, economica e culturale di Roma, le altre lingue italiche;

3) che il latino era affiancato, in Europa, da altre lingue, indoeuropee e non, e ha fatto in Europa quello che ha fatto anche in Italia;

4) che la presenza del latino in Italia e in Europa, come lingua ufficiale, è talmente pervasiva, che dopo mezzo millennio, le vecchie lingue di sostrato e le loro influenze erano sparite dalla circolazione, fatte salve aree marginali dalla forte identità linguistica, come i Paesi Baschi;

5) che tuttavia, nel frattempo, le varianti rustiche, urbane, plebee, colte del latino, erano divenute decine e decine, in ogni parte d'Europa;

6) che le invasioni barbariche hanno portato forti influssi di superstrato, mentre, al disgregarsi dell'impero, le spinte centrifughe di carattere linguistico hanno agito con forza sempre maggiore, giungendo a definire, col tempo, aree linguistiche distinte;

7) che tuttavia è innegabile una limitata reciproca intellegibilità fra i dialetti neolatini, fuori e dentro la penisola italiana: tale reciproca intellegibilità è da ricondursi alla ricorsività di determinate strutture ed evoluzioni parallele, a partire da un bacino linguistico comune.

In sostanza, sul piano scientifico lo schema latino - lingue neolatine, funziona meglio dello schema -assimilazione progressiva al latino delle lingue locali.

Poi ognuno è padrone di sostenere, e asserire, a suo detrimento, le sciocchezze che vuole.

C'è da dire che un'idea (lasciamo stare quanto discutibile) di forte autonomismo o secessionismo veneto sarebbe meglio fondata su un ragionamento del tipo: guardate, in Spagna si sono accorti che, come dialetto neolatino, il catalano, rispetto al castigliano, segue una strada evolutiva sua, e la Catalogna ha avuto fortissime autonomie come macro-regione o Stato federale; per gli sviluppi linguistici tali e talaltri, che il veneto ha a partire dal latino, e che invece gli altri dialetti neolatini italiani ignorano, quella del veneto è un'area linguistica a parte, come in Spagna quella dei dialetti catalani: data la peculiarità della nostra evoluzione linguistica, chiediamo di essere considerati un'etnia o gruppo linguistico a sé, come i parlanti ladino del Friuli e come i Sardi.

L'idea che il veneto sia lingua a sé perché non derivata dal latino, è invece una sciocchezza, per le ragioni su ripetute (per la millesima volta e inutilmente). Su di essa, la causa di un Veneto linguisticamente riconosciuto come entità a sé, non si può fondare (ammesso che si possa farlo) e perde di ogni credibilità linguistica, per diventare un semplice slogan ideologico. Pertanto, diviene un'argomentazione estranea ai temi di questo forum.

Quanto all'indoeuropeo, valgono ragioni analoghe a quelle indicate per il latino, con l'aggiunta che gli indoeuropei, a differenza dei Latini, non ebbero mai un unico centro politico di diffusione, ma partivano già come gruppo di pochi dialetti affini con varianti e, probabilmente, un lungo retroterra evolutivo locale, non privo, all'origine, di arcaici fenomeni di creolizzazione: per di più, si diffusero in epoche distinte, su territori cinque volte più ampi dell'impero romano, assimilando fortemente influssi di sostrato e di adstrato. Tuttavia, la comunanza di strutture di base, distinte da quelle delle lingue semitiche e ugro-finniche, identifica la famiglia linguistica indoeuropea in modo netto e inconfondibile, al di là delle discussioni particolari degli studiosi e dell'aspetto ipotetico della protolingua secondo le varie correnti.

Affermare che il veneto non è nemmeno una lingua indoeuropea, toglierebbe alla causa del veneto come area a sé ogni residuo briciolo di credibilità conservata dopo aver affermato che non è un dialetto neolatino.

Ribadire (vanamente) punto per punto il discorso sull'indoeuropeo, e ripetere (senza frutto) le discussioni già tenute altrove (indarno) è cosa che mi annoia.

Concludo dicendo che chi cerca spazi per la propria lingua, non dovrebbe negare spazio alla lingua altrui. Troppo spesso chi pretende di difendere il veneto qui e altrove, pretende di affermare che l'italiano è una non-lingua, e ne auspica magari il trapasso a beneficio dell'inglese (come poi possano sopravvivere gli altri dialetti italo-romanzi, sotto l'inglese globalizzatore, senza lo scudo di una lingua ufficiale affine, è poi un mistero gaudioso dell'evoluzione linguistica) con buona pace di un millennio di letteratura.

L'apertura al pluralismo è una virtù da esercitare con tutti, tranne con coloro i quali ne chiedono i benefici per sé e si rifiutano di concederli agli altri, diceva John Locke.
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caixine
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Intervento di caixine »

Gentile Amicus_eius

Lei ha scritto:
amicus_eius ha scritto:Gentile Caixine,

Di fronte a un alunno che mi ponesse interrogativi come quelli da lei posti, risponderei quanto segue:

1) che il latino non era un'entità monolitica, ma esso stesso presentava varianti spesso diverse a seconda della classe sociale, del luogo d'origine (se la campagna o Roma, per cui c'era un latino rustico e uno urbano); inoltre, lo stesso latino ha avuto una storia complessa e articolata, per cui il latino arcaico è molto diverso dal latino classico e il latino classico è molto diverso dal latino tardo, scritto e parlato, rustico e urbano, plebeo e colto;

2) che il latino era affiancato, nella penisola Italica e altrove da altre lingue indoeuropee e non; tuttavia, progressivamente, ha soppiantato, per la pressione militare, economica e culturale di Roma, le altre lingue italiche;

3) che il latino era affiancato, in Europa, da altre lingue, indoeuropee e non, e ha fatto in Europa quello che ha fatto anche in Italia;

4) che la presenza del latino in Italia e in Europa, come lingua ufficiale, è talmente pervasiva, che dopo mezzo millennio, le vecchie lingue di sostrato e le loro influenze erano sparite dalla circolazione, fatte salve aree marginali dalla forte identità linguistica, come i Paesi Baschi;

5) che tuttavia, nel frattempo, le varianti rustiche, urbane, plebee, colte del latino, erano divenute decine e decine, in ogni parte d'Europa;

6) che le invasioni barbariche hanno portato forti influssi di superstrato, mentre, al disgregarsi dell'impero, le spinte centrifughe di carattere linguistico hanno agito con forza sempre maggiore, giungendo a definire, col tempo, aree linguistiche distinte;

7) che tuttavia è innegabile una limitata reciproca intellegibilità fra i dialetti neolatini, fuori e dentro la penisola italiana: tale reciproca intellegibilità è da ricondursi alla ricorsività di determinate strutture ed evoluzioni parallele, a partire da un bacino linguistico comune.
Ora facciamo come se fossimo in una situazione analoga a quella dei dialoghi di Platone.

Potrebbe essere più preciso, per favore, perché non mi pare che le sue argomentazioni siano molto coerenti e chiare, e l'ordine dei punti per nulla organici (almeno per la mia limitata capacità di comprensione che non dà nulla per scontato).

Al punto 1, Lei afferma: ...che il latino non era un'entità monolitica, ma esso stesso presentava varianti spesso diverse a seconda della classe sociale, del luogo d'origine...
Ma da dove arriverebbero e come si spiegano queste differenze, forse si possono desumere dai punti 2 e 3 e 4 e 5 ?

Al punto2, Lei afferma: ... che il latino era affiancato, nella penisola Italica e altrove da altre lingue indoeuropee e non; tuttavia, progressivamente, ha soppiantato, per la pressione militare, economica e culturale di Roma, le altre lingue italiche;
Al punto 3, Lei afferma: ...che il latino era affiancato, in Europa, da altre lingue, indoeuropee e non, e ha fatto in Europa quello che ha fatto anche in Italia...
Al punto 4, Lei afferma: ... che la presenza del latino in Italia e in Europa, come lingua ufficiale, è talmente pervasiva, che dopo mezzo millennio, le vecchie lingue di sostrato e le loro influenze erano sparite dalla circolazione...
Al punto 5, Lei afferma: ... che tuttavia, nel frattempo, le varianti rustiche, urbane, plebee, colte del latino, erano divenute decine e decine, in ogni parte d'Europa;
Mi scusi tanto, ma se nel punto 4 Lei afferma che le lingue di sostrato e le loro influenze erano sparite, come si spiega il punto 5 dove Lei ribadisce che le varianti erano divenute decine e decine in ogni parte d’Europa. Varianti forse attribuibili probabilmente, alle influenze de Lei indicate ai punti 2 e 3 ?

Al punto 6, Lei afferma: ... che le invasioni barbariche hanno portato forti influssi di superstrato, mentre, al disgregarsi dell'impero, le spinte centrifughe di carattere linguistico hanno agito con forza sempre maggiore, giungendo a definire, col tempo, aree linguistiche distinte;
Al punto 7, l’ultimo, Lei afferma: ... che tuttavia è innegabile una limitata reciproca intellegibilità fra i dialetti neolatini, fuori e dentro la penisola italiana: tale reciproca intellegibilità è da ricondursi alla ricorsività di determinate strutture ed evoluzioni parallele, a partire da un bacino linguistico comune.
Nei punti 6 e 7, Lei ribadisce che esistevano ancora forze linguistiche interne, e una limitata reciproca intellegibilità fra i dialetti neolatini, fuori e dentro la penisola italiana: tale reciproca intellegibilità è da ricondursi alla ricorsività di determinate strutture ed evoluzioni parallele...mentre prima aveva affermato categoricamente al punto 4 : che le vecchie lingue di sostrato e le loro influenze erano sparite dalla circolazione...Da quanto scrive mi par di capire che la diversità delle lingue e dei dialetti romanzi non è attribuibile soltanto a quanto da Lei affermato al punto 6: che le invasioni barbariche hanno portato forti influssi di superstrato...ma anche al permanere di influenze di sostrato, ossia delle lingue prelatine che hanno continuato ad esistere in parallelo al latino, come da Lei affermato oscuramente nei punti 6 e 7.

Da questi miei rilievi appare chiaro come la sua sintetica esposizione non sia molto coerente e sia piena di contraddizioni che rendono confusa, poco comprensibile e poco credibile la sua tesi.

Non se ne abbia a male e mi perdoni se mi son permesso di fare le pulci al suo argomentare, senza malevoli intenzioni d'irriverenza.
Eppoi, per favore, provi ad usare altre parole più “appropriate e comuni” e “meno teniche, generiche e asettiche ”, come : sostrato, superstrato, varianti, ricorsività di determinate strutture, altre parole da queste che come quella "latino" che è un nome etnico, rimandino ai vari popoli o genti che esprimevano queste specificità linguistiche, per rendere il discorso comprensibile ai più (specialmente ai duri di comprendonio come me).

Mi stia bene, sselboi.
Ke bela ke la xe la me lengoa veneta, na lengoa parlà co' piaser anca dal bon Dio!
Alberto Pento
amicus_eius
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Intervento di amicus_eius »

Lasciamo perdere Platone, che obbiettava con cognizione di causa.

Prima di tutto, ripeto, inutilmente, che le differenze c'erano, perché sono attestate da iscrizioni e documenti letterari e non.

Le segnalo (inutilmente), che intorno alla fondazione della repubblica, il latino "normale" aveva il genitivo con desinenza "-i", ma nell'iscrizione di Satricum, posta dai compagni di Publio Valerio, uno dei padri fondatori della repubblica stessa, è attestato il genitivo in "-osio" (l'iscrizione recita: "Popliosio Ualesiosio suodales", "i compagni di Publio Valerio" sott. posero). Più tardi, ai tempi dell'unificazione della penisola italica, un accusativo singolare poteva avere una desinenza -om oppure -o; ancora più tardi, le forme presenti erano: -um (forma tipica della lingua "corretta", o colta), -om (arcaismo, condizionato dalla presenza di qu), u(m) forma volgare), o addirittura u/o.

Aggiungo (inutilmente) che le lingue tendono naturalmente a mutare. L'origine del mutamento si spiega in primo luogo sulla tensione fra l'esigenza di economia articolatoria (il minimo sforzo di pronuncia e memorizzazione con il massimo risultato di compresibilità) e l'esigenza di conservare un minimo di intellegibilità e di distinzione fra categorie fondamentali. Teoricamente, la lingua ideale per il parlante pigro dovrebbe esprimere tutto con un suono: "a" per esempio. Ma esiste anche l'ascoltatore pigro, che vorrebbe una lingua in cui ogni singola cosa avesse il suo contrassegno linguistico, per essere ben distinta. Per questo, da un lato le lingue si semplificano, dall'altro tendono a conservare un minimo di struttura articolata, non priva di irregolarità. Questo è anche il motivo, aggiungo (sempre più inutilmente), per cui una stessa lingua ha strutture appartenenti a tipologie diverse: ad esempio, l'italiano è una lingua flessiva, ma con le enclitiche dei pronomi si comporta da lingua polisintetica; per le funzioni logiche di nomi e aggettivi si comporta da lingua analitica, per le funzioni logiche dei pronomi si comporta da lingua a casi.

Le cose sono ulteriormente complicate dal fatto che le lingue sono marchi di identità. Se una lingua viene istituzionalizzata dal diritto e dalla letteratura, svilupperà varianti tecniche e letterarie, diversificandosi ancora di più. Poi ci sono i prestiti, i calchi e naturalmente gli influssi di substrato.

Il latino, come tutte le altre lingue, aveva queste varianti, ereditate da una fase precedente alle documentazioni, ma per lo più dovute alla naturale tendenza dei parlanti a economizzare. Una /o:/ è più facile da pronunciare, rispetto a un dittongo come /au/, perciò i rustici tendono a semplificare i dittonghi. D'altro canto, chi scrive, appartiene, in una società oligarchica come quella romana, a un'aristocrazia che deve distinguersi dai rustici e dai plebei. Perciò opera una selezione sulle forme linguistiche, in base a criteri moderatamente conservatori.

Si aggiunga che, per riuscire a campare, nelle province si doveva abbandonare la lingua locale per il latino o il greco. Certamente, in una fase iniziale, si sarà avuto un bilinguismo forte. Poi però, attraverso una fase di creolizzazione, il latino si sarà imposto, perfino con le sue varianti dialettali. Il latino tardoimperiale era parlato da una aristocrazia che veniva da tutte le parti dell'impero. In esso gli influssi di substrato, pronuncia, lessico e grammatica, si erano omogeneizzati, perdendo il loro connotato territoriale e nazionale, in un'epoca in cui alcune aree dell'impero (l'Italia in particolare) erano romanizzate da più di cinque secoli. Si aggiunga (ancor più inutilmente) che in un impero centralistico e verticistico come Roma, il livellamento linguistico era brutalmente imposto dall'alto, mentre la lingua delle leggi era il più possibile conservatrice. Le varianti locali che alla fine emergono, sono dovute all'affiorare di elementi linguistici ormai completamente latini (con forse qualche traccia fonetica -dubbia- di substrato). Poi ogni area della vecchia latinità prese una strada sua.

Quanto ai punti 6 e 7 il concetto di evoluzioni parallele era dovuto a dinamiche di trasformazione linguistica interne ai dialetti latini, senza alcun influsso delle lingue di sostrato.

Tutti i dialetti neolatini hanno formato, in modo più o meno parallelo, un futuro e un condizionale a partire dalla fusione dell'infinito con il verbo avere; un ampio gruppo di dialetti latini, a occidente, ha formato il plurale sull'accusativo plurale (la -s); un altro gruppo, quello centro- orientale, lo ha formato sul nominativo (le declinazioni di italiano e rumeno). In celtico, lingua di sostrato della Gallia, non esisteva niente di simile a un futuro composto con avere. Le lingue celtiche erano lingue a casi, nulla a che vedere con i dialetti neolatini, che i casi li hanno persi in virtù di riarrangiamenti già presenti nel latino parlato dai plebei e dai rustici. Andando sempre in ordine sparso, il Vasconico, l'Iberico, erano lingue non indoeuropee, eppure lo spagnolo è una lingua tutta latina, con fenomeni morfologici latini ancor più conservativi. Tutto il materiale linguistico dell'Europa sudoccidentale, Baschi a parte, è spiegabile con il latino e solo con il latino. Quello che c'era prima è sparito per sempre, lasciando ben poche tracce (lessico, soprattutto).

Quanto alle nuove incoerenze che si compiacerà ancora di trovare (sicuramente ce ne saranno) esse sono dovute a tre fattori:

1) la mancanza di spazio (non posso inserire qui tutta l'evoluzione di tutte le parole e di tutte le forme morfosintattiche fonetiche e lessicali di tutti i dialetti neolatini, e poi quelle di tutti i dialetti non neolatini per mostrare il contrasto e l'identità, e poi tutte le forme dei dialetti prelatini);

2) la mancanza di tempo (penso di avere di meglio da fare, nella vita, che passare i prossimi trecento mesi a stilare una risposta che soddisfi la sua cosiddetta esigenza di coerenza);

3) l'inutilità di una tale operazione, anche a volerla tentare, visto che, pur se posto di fronte all'oggettività di tutti dati linguistici effettivamente disponibili, per uno sviluppo linguistico che va dal VI sec. a. C. ai giorni d'oggi, per un'area di circa tre milioni di chilometri quadrati, lei continuerebbe a rimanere (con sostanziale malafede) della stessa, erronea, idea (che fra l'altro non ha a niente a che vedere con la legittimazione di autonomia linguistico-culturale del Veneto).

Quanto all'uso di parole tecniche, dato che questo è un forum di linguistica, e siamo in un filone di storia della lingua e linguistica storica, se non voleva sentirne, poteva andare altrove (anche sul mefitico raixevenete.com, quando si parla di storia della lingua, lei trova tanti tecnicismi adattati al veneto).

Statte bbuono, Federi'.
___________________

Giordano Bruno II
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miku
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Intervento di miku »

Acchio, qui si ricomincia :lol:

Un saluto a tutti, in buon volgare, da Miku Frangetestis.
Bue
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Intervento di Bue »

Miku Frangetestis cioè Miku Orchiolisi?

Ben tornato e Tanti Auguri!
amicus_eius
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Iscritto in data: ven, 10 giu 2005 11:33

Intervento di amicus_eius »

Un salutz e un augurium ambobus anche dall'amicus nonsempervirens...
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