«Spero partire»

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Daniele
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«Spero partire»

Intervento di Daniele »

Dalla Sintassi italiana dell'uso moderno di Raffaello Fornaciari:
Anche cogli altri verbi suindicati si può usare l'infinito, ma colla condizione che il soggetto sottinteso di esso sia quel medesimo della proposizione principale; p. es. spero di partire, penso d'esser uomo, conosco di dir bene, temo di non giungere a tempo, mi meraviglio d'essere ancor vivo; procuro, cerco, tento, mi studio di profittare, dichiaro di non aver voglia ecc. Questi verbi si costruiscono più comunemente con di, ma alcuni di essi anche senza; p. es. spero partire, temo non essere a tempo, credo aver ragione, penso recarmi a Parigi ecc.
Oggi io considererei errore i costrutti spero partire, temo non essere a tempo eccetera. Che ne pensate?
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Non è errore, caro Daniele, è stile letterario (e quindi la norma dell’italiano comune lo vieterebbe). Il costrutto senza ‘di’ si trova con qualche frequenza, ad esempio, presso Elsa Morante e, in poesia, in Ungaretti.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Completo quant’ho scritto di fretta nella pausa pranzo per mancanza di tempo, con questa citazione tratta dalla GGIC (vol. II, p. 526):

b) il secondo gruppo comprende verbi che appaiono sempre senza introduttore, come sapere (modale) e volere; verbi che normalmente compaiono senza introduttore, ma che nell’uso letterario possono reggere l’infinito introdotto da di, come p. es.: ardire, bramare, desiderare, intendere, preferire, adorare, amare, gradire, osare, usare; verbi che normalmente richiedono di, mentre nell’uso letterario di può mancare, come p. es.: contare, pretendere, sperare, cercare, degnarsi, disdegnare, permettersi, proporsi, studiarsi:

(263 a.) Ho preferito rivolgermi al padrone.
(263 b.) «Ella preferiva di far la propria vendetta su se stessa» (E. Morante, Menzogna e sortilegio, Torino, Einaudi, 1962, p. 170)

(264 a.) Non osai entrare.
(264 b.) «Non osai neppure d’entrare» (ibid., p. 633)

(265 a.) Ho cercato di sapere il piú possibile sulla storia di Roma.
(265 b.) «Simile a un bambino che altri cerchi distrarre dal suo pianto, fermava un poco su di me... uno sguardo ingrandito e perplesso» (ibid., p. 665)

(266 a.) Sperava di vederlo presto guarito.
(266 b.) «La manina con guanto di merletto nero, che il contino aveva sperato vedere, rimase in grembo a Concetta» (G. Tomasi di Lampedusa, Il gattopardo, Milano, Feltrinelli, 1961, p. 75)


Elsa Morante è davvero una fine scrittrice, dalla lingua sottile e raffinata: consiglio a chi non la conosca di leggere i suoi romanzi. :)
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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