La terza via di 'dovere' e 'potere'

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Ladim
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Iscritto in data: lun, 08 nov 2004 14:36

La terza via di 'dovere' e 'potere'

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Ho letto, ahimè sussultoriamente, il lavoro sul calco sintattico di Daniele Emanuele Grasso, ricordato da Serianni sulla piazza informatica dell’Accademia (trovato puntando un rimando intertestuale di un recente intervento di questo forum) etc.

A pagina cento, in un dettato disteso e sostanzialmente giusto, leggo: «In definitiva, il modo in cui i verbi modali sono utilizzati non è estraneo allo standard». In effetti in È normale che il governo possa cambiare orientamento non trovo nessuna traccia linguistica allogena, o altra irregolarità di sorta (diversamente equivalente, e considerato meglio normalizzato: È normale che il governo cambi orientamento).

Tuttavia, la stessa riflessione mi porta a considerare più attentamente la struttura concettuale dell’‘obbligo’ e della ‘possibilità’.

La modalità verbale coordina un pensiero d’ordine superiore, vettore d’informazioni pragmatiche e psicologiche, racchiuse in una forma tipica (qui, del modo congiuntivo). In realtà, anche l’organizzazione del contenuto non deliberatamente linguistico può trasmettere le stesse informazioni, e l’italiano, in questo, sa valorizzare molto bene lo spettro semantico sia della ‘possibilità’ sia dell’‘obbligo’ – sotto altri auspici, lo ha fatto secoli fa, dopo aver incorporato l’infinito del verbo col presente di ‘avere’ (‘amare hai’ > [hai da amare!] > amerai), trasferendo così l’obbligo di un ‘ora e adesso’ nella struttura mentale di un domani più o meno prossimo, ad ogni modo incalzante.

La coincidenza tra la ‘previsione’, che è l’unica certezza possibile nel futuro, e la ‘possibilità’ o l’‘obbligo’ è un fatto linguistico abbastanza immediato. Il ‘dovere’ o la ‘possibilità di fare qualcosa’ può evocare una certezza assente, quindi proiettare ‘altrove’ (sbrigativamente: in un altro ‘quando’) una ‘constatazione’ altrimenti impossibile: il naturale correttivo logico della lingua, tolta la modalità morfologizzata, veste quella constatazione impossibile coi panni dell’ ‘obbligo’ o, più cautamente, della ‘possibilità’.

La constatazione, nell’esempio che ‘corre’ più sopra, è confortata da una matrice ben tematizzata (È normale), accompagnata dalla ‘possibilità’ (modulata al congiuntivo, si badi, per ragioni sintattico-formali – il verbo 'che completa un senso' è preferibilmente, se sorvegliato, al congiuntivo!).

Del resto non proscrivibile (e se lo è, lo è per idiosincrasie o per motivi ora non pertinenti) è l’esito all’indicativo – È normale che il governo può cambiare orientamento – in cui la constatazione, forse più evidente, si proietta in un ‘altrove psicologico’ ancora attraverso l’idea della ‘possibilità’.

È normale che il governo cambia orientamento – la constatazione è piena e logicamente legittima, oggettivamente ancorata a un dato di fatto (ricorrente o meno, storicamente o meno).

Che cosa distingue i due esempi (quello col possa cambiare da quello col cambi)? Lasciando oltremanica le ragioni più affrettate, solo dopo aver accolto una sostanziale equivalenza tra le due forme, presenterei la questione riferendo la tendenza della lingua d’uso a suddividere in unità variamente discrete la complessità del pensiero (l’analiticità è dell’italiano, meno del latino, e più dell’italiano parlato etc.).

L’utilità di subordinare con un possa senza incorrere in grossolani errori di coniugazione potrebbe rendere buona questa analiticità ai parlanti più sensibili, ma meno esercitati.

In ultimo: che il congiuntivo, se adoperato pienamente, sia oscuro a molti, non è considerazione nuova. Non tutte le alternative però vanno segnalate coll’asterisco o sospettate di morbosità.

Watson diceva (nella penna di Serianni) che ci troviamo di fronte a una «scissione della nozione d’ ‘ipoteticità, obbligo, ecc.’ dalla radice verbale e una sua anteposizione al verbo in forma servile», coinvolgendo a sproposito l’influenza dell’inglese.

Grasso non vede identità tra i due esiti, ma accoglie quest’uso dei due modali nello «standard».

Qui, invece, si inciampa nell’uno per dare diversamente ragione all’altro.
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