Certo che: indicativo o congiuntivo?

Spazio di discussione su questioni di carattere sintattico

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odisseo75
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Certo che: indicativo o congiuntivo?

Intervento di odisseo75 »

Pongo ai frequentatori del fòro la seguente questione: l'espressione "è certo che" richiede l'indicativo (almeno credo...), ma cosa succede se la struttura della frase viene invertita? Esemplificando:
  • a) È certo che io sono romano.
    b) Che io sia romano, è certo.
La seconda non dovrebbe essere "Che io sono romano, è certo"?
Pare che l'uso oscilli tra congiuntivo e indicativo, anche se, in questo caso, vedo pochi spazi per sfumature semantiche che invochino le caratteristiche o la percezione del parlante.
Fausto Raso
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Intervento di Fausto Raso »

A mio parere solo l'indicativo in entrambi i casi (A e B).
«Nostra lingua, un giorno tanto in pregio, è ridotta ormai un bastardume» (Carlo Gozzi)
«Musa, tu che sei grande e potente, dall'alto della tua magniloquenza non ci indurre in marronate ma liberaci dalle parole errate»
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Cito la GGIC (vol. II, p. 448):

La scelta del modo può essere influenzata dalla forma sintattica della frase sovraordinata: con un aggettivo come certo, può esserci il congiuntivo solo dopo la forma sintattica è certo che. Mediante la costruzione certo è che p, che mette in particolare risalto la frase dipendente, questa è marcata come l’elemento essenziale, che di norma contiene una nuova informazione. La funzione comunicativa della frase subordinata si avvicina a quella propria di un’informazione sintatticamente indipendente:

(145 a) Certo è che al successo dello spettacolo il nostro amico contribuiva / *contribuisse soprattutto per la sua presenza.
(145 b) È certo che Maria lo conoscesse, ma non si capisce perché non si sia rivolta a lui.

La relativa autonomia della frase dipendente aumenta ancor piú all’interno di costruzioni prive di verbo, di forma Certo che p, dove vi è una subordinazione ormai solo formale e certo assolve quasi la funzione di un avverbio di frase modale:

(146) Certo che, invitato a cantare una canzone, intonò / *intonasse un Lied.


Credo che si sia già parlato dell’anteposizione della subordinata introdotta da ‘che’ e del suo favorire la scelta del congiuntivo (Sappiamo tutti che è ricco / Che sia ricco, lo sappiamo tutti).
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Non sono piú sicuro d’avere riportato il discorso sulla dislocazione a sinistra della subordinata. Eccolo, dunque, a ogni buon conto (GGIC, vol. II, p. 454).

Le frasi completive tematizzate che precedono la frase principale presentano di regola il congiuntivo. Ciò vale per quei predicati della frase principale che reggono tendenzialmente questo modo:

(179) Che lui l’abbia / *ha visto prima di noi, mi pare impossibile.

In dipendenza da predicati che di solito richiedono l’indicativo possiamo avere i due modi:

(180 a) Che non sia / è bello, è vero.
(180 b) Che fosse / era un medico abile, era evidente dal primo momento.
(180 c) Che il mare fosse / era da quella parte, l’avevo detto io per primo.
(180 d) «Che Giusti gli avesse telefonato l’indomani lo sapevo, e sapevo pure che Corradino gli aveva risposto – Va’ all’inferno» (C. Pavese, La famiglia, in Racconti, p. 299)

Il congiuntivo viene determinato qui solo dal fattore posizionale, del tutto indipendentemente dalla struttura semantico-modale, cioè indipendentemente dalla presunta verità della frase subordinata. Mettere all’inizio della frase un costituente nucleare, che nel caso non-marcato non occupa tale posizione, ha una funzione tematizzante (v. vol. I, II.1.2.1.); attraverso questa sua collocazione viene marcato come autentico tema della frase, quindi come elemento informazionale già noto su cui il resto della frase comunica qualcosa di nuovo. Risulta evidente una volta di piú che il congiuntivo essenzialmente non è il modo dell’asserzione, cioè che con esso, per le sue peculiarità, non viene comunicato nessun fatto nuovo come effettivo rema dell’enunciato (cfr. soprattutto 4.).
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
odisseo75
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Intervento di odisseo75 »

Grazie Marco.
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Ferdinand Bardamu
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Intervento di Ferdinand Bardamu »

Pur non avendo partecipato alla discussione, la ringrazio anch'io di aver riportato il brano esplicativo, Marco.

Tuttavia, non capisco bene il significato di «frase completiva tematizzata».
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Prego. :)

La tematizzazione (che alcuni linguisti poco scrupolosi preferiscono chiamare ‘topicalizzazione’) è «il porre in rilievo un elemento della frase grazie a determinati mezzi prosodici o grammaticali, quali l’intonazione, l’uso delle particelle, l’ordine delle parole, ecc.» (GRADIT). Nel nostro caso, la frase è tematizzata grazie alla dislocazione a sinistra (anteposizione rispetto all’ordine normale).
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Avatara utente
Ferdinand Bardamu
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Località: Legnago (Verona)

Intervento di Ferdinand Bardamu »

Ora m'è chiaro.

Grazie di nuovo, sempre molto gentile. :)

[AGGIUNTA]

Un altro dubbio: la dislocazione è sempre da considerarsi tipica del parlato, oppure vi sono usi che s'adattano anche allo scritto piú formale?
Avatara utente
Marco1971
Moderatore
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Iscritto in data: gio, 04 nov 2004 12:37

Intervento di Marco1971 »

Ferdinand Bardamu ha scritto:Un altro dubbio: la dislocazione è sempre da considerarsi tipica del parlato, oppure vi sono usi che s'adattano anche allo scritto piú formale?
La dislocazione (a sinistra o a destra) è propria del registro informale. Nella lingua sorvegliata viene evitata, e non sempre con effetti felici.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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