«Avere a che fare»

Spazio di discussione su questioni di carattere sintattico

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Ferdinand Bardamu
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«Avere a che fare»

Intervento di Ferdinand Bardamu »

Come detto piú volte in questo filone, avere a che fare è un costrutto errato. Ma è cosí per quell'a tra il verbo e l'oggetto?

Inoltre, si tratta di una forma recente o relativamente recente (come il piuttosto che disgiuntivo, per fare un esempio) oppure è attestata anche nei secoli passati?

Vi ringrazio in anticipo per le risposte.
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Errore non piú, caro Ferdinand, è troppo esteso e radicato per considerarlo tale ormai. Non so con esattezza a quando rimonti la «corruzione», ma farò la ricerca fra poco. Intanto, nel foro della Crusca avevo riportato le parole del Gabrielli. :)
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Infarinato
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Intervento di Infarinato »

Marco1971 ha scritto:Non so con esattezza a quando rimonti la «corruzione», ma farò la ricerca fra poco.
Ovviamente a tal riguardo c’è il fondamentale saggio della Castellani Pollidori.
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

I miei spogli nella LIZ[a] mostrano che questa locuzione è molto piú antica di quanto supponessi: la prima attestazione riscontrata è del 1610, presso Latrobio. Prima di quella data, a che fare viene adoperato esclusivamente col senso di a che pro?, per fare che?, ecc. Si salta poi al Settecento con Goldoni, poi al primo Ottocento con Foscolo e si arriva fino al primo Novecento con Pirandello. Possiamo concluderne che è documentata a sufficienza presso ottimi autori per non essere condannata – anche se, in uno stile raffinato, si può benissimo fare a meno dell’intrusa a. :)

Ecco gli esempi.

Ma ora ch’intendo il vostro umore non averò questo rispetto, se bene, quando anco mi faceste qualche dura riprensione, non resterei di cenare al solito, perché non ho a che fare con questo tiranno. (Latrobio, Il Brancaleone)

\CRESP.\ Adagio, adagio. Non andate subito sulle furie. Posso assicurarmi che dite la verità? Che non avete niente a che fare col signor Evaristo? (Goldoni, Il ventaglio)

Quella che particolarmente chiamasi virtù nelle donne non credasi già una virtù molle e di riposo, perché non abbia a che fare per ordinario se non con passioni dolci e piacevoli. (AA. VV., Il Caffè)

Sai ch’io ti scrivo, o Lorenzo, piangendo come un ragazzo? – pur troppo! ho avuto sempre a che fare con de’ tristi; e se alle volte ho incontrato una persona dabbene ho dovuto sempre compiangerla. Addio, addio. (Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis)

…sicché il paese intero si mise in subbuglio, e la gente si affollava colla carta bollata in mano, e giurava che non sapeva nulla, com’è vero Dio! perché non voleva averci a che fare colla giustizia. (Verga, I Malavoglia)

Si accorgerà allora che il così detto progresso non ha nulla a che fare con la felicità? (Pirandello, Il fu Mattia Pascal)

P.S. Vedo solo ora il collegamento d’Infarinato...
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Cito altri due brani tratti dall’articolo di Ornella Castellani Pollidori (A proposito di un’a di troppo: «avere a che fare», in In riva al fiume della lingua, Roma, Salerno Editrice, 2004, pp. 425-450):

C’è qualcosa però che non dovrebbe sfuggire a chi rifletta sulla lingua che adopera: e cioè il carattere estravagante, sotto il profilo grammaticale, del costrutto avere a che fare. Mentre infatti sul piano della logica sintattica si giustificano sia il tipo a reggenza pronominale aver che fare (cfr. spagn. no tiene nada que hacer con…), sia i tipi a reggenza prepositiva (cfr. franc. cela n’a rien à voir avec…, ingl. it has nothing to do with…, ted. es hat nichts zu tun mit…) lo stesso non si può certo dire per avere a che fare:frutto occasionale dell’interferenza col modulo tradizionale aver che fare di un tratto demotico d’area lombarda e parzialmente anche emiliano-romagnola, che nel corso dell’Ottocento prese a filtrare attraverso la prosa di autori settentrionali, comunicandosi infine all’italiano novecentesco, con progressione sempre piú marcata. (pp. 445-446)

Un ultimo rilievo. È accertata pratica di certe redazioni di giornali e riviste di “correggere” l’eventuale aver che fare di un articolista (lo segnalava anche Calabresi, per esperienza personale, nel citato numero del «Chiodello»; e so di un giovane studioso che ha dovuto battagliare per ottenere dai redattori di una rivista scientifica che non inserissero l’a nei suoi aver che fare). Ma quello che proprio non andrebbe fatto è oscurare un fenomeno che, come tutte le mutazioni dell’uso linguistico, ha un’indubbia importanza: è ciò che avviene quando si attribuiscono indebitamente degli avere a che fare ad autori del passato che non si sono mai sognati di scrivere in quel modo, e che, se solo potessero, certo protesterebbero, parafrasando il Dante del Sacchetti: «Cotesto a non vi miss’io!». Ascoltando una conferenza o leggendo un saggio critico, piú volte mi è accaduto di cogliere, in citazioni da autori dell’Ottocento, degli avere a che fare improbabili, e di fatto poi puntualmente rivelatisi, al controllo, degli aver che fare. Cito qui un paio di casi. (p. 449)

Protestai anch’io: «Cotesto di non vi miss’io!» (:D) quando, in un mio articolo, mi si stravolse un riappropriarsi questo buon gusto in riappropriarsi di questo buon gusto. :evil:

Alla luce di queste considerazioni di O. Castellani Pollidori alcune delle mie citazioni andrebbero allora forse controllate sui manoscritti…
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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u merlu rucà
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Intervento di u merlu rucà »

Tanto 'estravagante' (un po' antiquato come termine) non deve essere, visto che esiste comunque in alcune realtà linguistiche, sia pur dialettali o regionali. Nelle lingue non esiste nulla di estravagante, semplicemente perché ogni linguaggio o dialetto ha una sua logica interna. Qui non si vuol capire che l'italiano non è più parlato da un'infima minoranza di fiorentini o toscani colti, ma da milioni di persone. Se qualche tratto innovativo si impone, è nella naturale e inevitabile evoluzione della lingua. Se così non fosse parleremmo ancora latino o indoeuropeo o nostratico...
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

La Castellani Pollidori, in quel brillante articolo (troppo lungo per riprodurlo qui, ma andrebbe letto per capirne il rigore filologico), ripercorre la storia dell’espressione, dal suo primo manifestarsi ai giorni nostri, attraverso un nutrito spoglio di testi antichi e moderni, comprese diverse versioni di molti dizionari. La stravaganza, se ha letto bene, si situa sul piano della logica grammaticale, e la locuzione trae origine dal dialetto milanese.

La mia posizione, caro Merlo, differisce dalla sua in questo: troppo lassismo porta le lingue a un rapido degrado, come vediamo oggi con la marea degli anglicismi inutili e gli usi errati del congiuntivo e del condizionale; bisogna incentivare e istillare il senso della cultura e del rigore nell’espressione scritta se non si vuole decadere a popolo di scimmie. ;)
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Intervento di u merlu rucà »

Quello che mi piace poco è l'uso del termine stravagante, che trovo poco consono in un contesto 'scientifico'. In pratica si dice che esiste una logica grammaticale assoluta, cosa che non è. Anche il cinese o il basco, a questo punto, sono stravaganti.
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Intervento di Infarinato »

u merlu rucà ha scritto:Quello che mi piace poco è l'uso del termine stravagante, che trovo poco consono in un contesto 'scientifico'.
No, caro Merlo, (e)stravagante è «letteralmente» giusto: quell’«a che + inf.» [in quel contesto] è estraneo alla logica sintattica dell’italiano [di base fiorentina]. ;)
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

C’è una considerazione ulteriore da fare sulla scelta del termine estravagante: la linguista l’ha selezionato proprio perché stravagante, il cui senso comune è ‘bizzarro’, sarebbe stato «poco scientifico»; estravagante, invece, va inteso in senso etimologico come tecnicismo, secondo questa definizione del Battaglia:

Che si allontana dalla via ordinaria; che si scosta dalla norma comune, dall’uso consueto.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Intervento di caixine »

u merlu rucà ha scritto:Tanto 'estravagante' (un po' antiquato come termine) non deve essere, visto che esiste comunque in alcune realtà linguistiche, sia pur dialettali o regionali. Nelle lingue non esiste nulla di estravagante, semplicemente perché ogni linguaggio o dialetto ha una sua logica interna. Qui non si vuol capire che l'italiano non è più parlato da un'infima minoranza di fiorentini o toscani colti, ma da milioni di persone. Se qualche tratto innovativo si impone, è nella naturale e inevitabile evoluzione della lingua. Se così non fosse parleremmo ancora latino o indoeuropeo o nostratico...
Perfettamente d'accordo ad esclusione dell'ultima frase in quanto non abbiamo mai parlato tutti e nemmeno in gran parte o in una buona parte il latino, men che meno l'indoeuropeo e il nostratico che non sono mai esistiti se non un tempo come ipotesi e ora più realisticamente soltanto come indicatori "statistici" ... in ambito storico-linguistico;

indicatori "statistici" ... = scusate ma al momento non mi viene un'allocuzione migliore.
Ke bela ke la xe la me lengoa veneta, na lengoa parlà co' piaser anca dal bon Dio!
Alberto Pento
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

caixine ha scritto:indicatori "statistici" ... = scusate ma al momento non mi viene un'allocuzione migliore.
Allocuzione? Credo che voglia dire locuzione.

Per il contenuto, sarà meglio non risollevare gli antichi discorsi sopra i rapporti fra latino, italiano e dialetti, di cui s’è disquisito fin troppo.
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Intervento di caixine »

Marco1971 ha scritto:
caixine ha scritto:indicatori "statistici" ... = scusate ma al momento non mi viene un'allocuzione migliore.
Allocuzione? Credo che voglia dire locuzione.

Per il contenuto, sarà meglio non risollevare gli antichi discorsi sopra i rapporti fra latino, italiano e dialetti, di cui s’è disquisito fin troppo.
Grazie per la correzione.
Sul resto l'importante è non scordare per non commettere li :lol: stessi errori del passato.
Ultima modifica di caixine in data ven, 07 gen 2011 21:20, modificato 1 volta in totale.
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Alberto Pento
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Intervento di caixine »

Marco1971 ha scritto:...La mia posizione, caro Merlo, differisce dalla sua in questo: troppo lassismo porta le lingue a un rapido degrado, come vediamo oggi con la marea degli anglicismi inutili e gli usi errati del congiuntivo e del condizionale; bisogna incentivare e istillare il senso della cultura e del rigore nell’espressione scritta se non si vuole decadere a popolo di scimmie.) :wink:
Caro Marco
non per sterile polemica ma per correttezza antropologica devo specificare che non sono del tutto d'accordo con la sua affermazione sovrasottolineata, in quanto:
1) non è certo la lingua italiana il discrimine tra un'antropomorfa e l'essere umano; persino le macchine riescono a parlare la lingua italiana;
2) la cultura/coltura non è certo riducibile all'uso della lingua italiana o al suo uso "corretto" secondo le indicazioni o il modello di taluni "specialisti".
La coltura o cultura come la spiritualità si possono esprimere in tutte le lingue del mondo: la scienza matematica e la sienza spirituale (non mi riferisco alle ideologie religiose ma all'universalismo spirituale) si possono esprimere in tutte le lingue del mondo. Eppoi la coltura/cultura è anche saper adoperare per benino e la testa e le mani e non solo la lingua: un bravo agricoltore e un bravo marangon valgono tanto quanto un bravo professore di lettere, di qualsiasi letteratura o lingua. E un sordomuto può adoperare la testa (intelletto) e le mani meglio di un grande letterato. :wink:
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Alberto Pento
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Lei estrapola le mie parole e le interpreta in maniera errata. Non ho detto, né qui né altrove, che la cultura si riduca alla lingua! La invito anche a rileggersi, ché lascia spesso vistosi refusi nei suoi messaggi, come, qui sopra, le stessi errori. Può usare la funzione Modifica per correggere. Grazie. :)
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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