Il caso dativo o pragmatico

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Ladim
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Iscritto in data: lun, 08 nov 2004 14:36

Il caso dativo o pragmatico

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Qui lascio al lettore meno esigente alcune idee intorno a una proposta – sia inteso – «dilettantesca», mescidando due distinti argomenti di cui si dà un comun denominatore: il tempo e le risorse a disposizione ci dicono quanto sia facile incorrere in imprecisioni e oscurità di sorta. Ognuno dia il suo contributo, se vuole.

Ho letto, immancabilmente di fretta, i lavori citati da Infarinato. Il mio sguardo resterebbe confinato al metodo, e la scelta è di campo.

Resto del parere che l’«accusativo preposizionale» rispecchi, direi accidentalmente, un «uso» della lingua tipico che si allontana da altri esiti neoromanzi più lineari e meno espressivi. Un’ipotesi di massima vede nell’oscillazione latina dativo-accusativo un buon preludio a quella che diverrebbe la selezione, a monte [del monte Romanzo!], di un significato morfosintattico in particolare. Le eventuali estensioni di una struttura minoritaria neodativale, e cioè neoaccusativale, si spiegherebbe con il quarto proporzionale.

Ma le tangenze con la «pragmatica», e cioè quell’orientamento semiotico volto a estendere l’indagine linguistica al dominio contestuale (il senso è largo), specie per quegli esiti pronunciati in cui l’informazione, l’articolazione del «dato» e del «nuovo», si presentano condizionati da un uso incipiente, vivo, sottopongono al giudizio un incontro che non pare fortuito.

L’insistenza sull’identità semantico-sintattica del casus dativus – se il quesito è ancora quello dell’«oggetto preposizionale» – è fatta pertinente da un’equivalenza: al dativo latino corrisponderebbe il costrutto, se analitico, a+sostantivo di area italofona (e non solo).

Una domanda non laterale chiederebbe il senso pragmatico, e quindi la ragione delle implicazioni comunicative, di una realtà verbalizzata quale è quella del dativo. Cercare di prelevare una categoria semantica e sintattica per renderla chiara a uno sguardo diversamente disciplinare non è cosa troppo agevole; ma il tentativo potrebbe presentare qualche vantaggio.

Non so se esista uno studio sulle dinamiche pragmatiche suddivise classicamente per i soliti casi, e cioè se si possa accedere a questo argomento attraverso una riflessione sistemata. All’impronta, direi che uno studio così fatto, per quel che riguarda noi, dovrebbe determinare la qualità «illocutiva» nell’uso del pensiero e della struttura dativali: quella stessa qualità che introdurrebbe l’idea per cui l’estesa latitudine di un significato sintattico avrebbe conosciuto una certa cristallizzazione, una sua focalizzazione peculiare, fino a favorire ciò che oggi chiamiamo, nel complesso, «tematizzazione».

Ci vorrebbe una ‘cronologia’, per quanto affrettata, in grado di descrivere la giusta sequenza, direi muovendo dal concetto d’«interesse» – sebbene anche quello del «fine» non sia trascurabile (se si pensa che il «fine» è quello per cui si svolge l’azione).

È esattamente la «forza» comunicativa del dativo a corroborare quella realtà ben codificata del «dativo etico», rintracciabile in una qualsiasi grammatica, e che qui parafraserei come ‘quella di un dativo colloquiale che si colloca liberamente senza una «reale funzione logica», per contrassegnare l’«affetto» o il «vivo interesse di chi parla», appetto dell’azione indicata dal verbo’. In questo «interesse» non logico ma affettivo la pragmatica troverebbe il suo dominio d’elezione: la «partecipazione» è un fatto eminentemente contestuale, situazionale, direi già tematizzante di un comportamento non ancora linguistico e, finalmente, linguistico.

Così l’«interesse» per «relazione» trasformerebbe un significato isolato in un significato vero ‘in relazione’ a una persona in particolare. Nel dativo, la spinta emotiva è maggiormente segnalata rispetto a un caso come, ad esempio, il genitivo, al quale attribuiremmo più facilmente una dinamica «locutiva», circostanziatamente descrittiva, determinativa, epesegetica etc.

Nell’articolazione testuale, quindi nella sequenza tema/rema, al ‘noto’ contesto con ciò che ci precede si fa seguire il ‘nuovo’, o ciò che riteniamo tale. Alla focalizzazione di una logica abitudine mentale, in cui la progressione è il metodo più sicuro per passare da una nozione a un’altra, si accompagnerebbe una topologia rilevata sulla quale bilanciamo la nostra emotività. «La grammatica, l’ho studiata»: il ‘noto’ [condiviso e precedente] è la «grammatica», il ‘nuovo’ il fatto che qualcuno «l’ha studiata»; la spinta emotiva, impulsiva di chi parla cade sulla prima parola [il primo sintagma, che è un’unita accidentalmente segnata con una separazione grafica]: la bruciante limitazione morale, orientativamente pudica e consequenziale, su ciò che segue.

Un esito particolarmente efficace [e ancora normalizzato] coinvolgerebbe il costrutto [per noi] emotivo [per eccellenza]: «A Mario piace la grammatica» [cfr. la grammatica piace a Mario] in cui il ‘nuovo’ assumerebbe la prima, icastica giacitura, espressiva per vocazione. Non normalizzato: «È a Mario che piace la grammatica».

Chissà che i verbi citati in quei lavori, e che accolgono l’«oggetto preposizionale», non coinvolgano una qualità psicologica che, a uno sguardo pragmatico, legittimi un uso variamente, contestualmente collocato appunto nelle prospettive dei significati [originariamente] offerti dal dativo.
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