Terminologia linguistica

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Marco1971
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Terminologia linguistica

Intervento di Marco1971 »

Mi riferisco all’articolo di Arrigo Castellani (SLI, X 1984, pp. 153-61), di cui riproduco solo alcuni brani.

Il Castellani propone per il termine francese parole (Saussure) loquela:
Col suo blasone latino, si può pensare che la parola sarebbe stata accolta nelle altre lingue europee: sp. loquela, ingl. loquel (invece degli ambigui habla, speech); e in tedesco s’avrebbe forse, accanto a das Sprechen, un bellissimo die Loquele.
Per l’inglese utterance andrebbe bene detto:
Rimangono, per detto, difficoltà definitorie: le stesse che si hanno per utterance. Se si muove dalla lingua come sistema, il detto è il riflesso nella loquela del periodo (elementi compresi tra due pause logiche). Se si muove dalla loquela, il detto è tutto ciò che vien proferito da una persona da quando comincia a parlare a quando smette (o è interrotta da altri): può consistere in una sola parola o in un discorso parlamentare di dieci ore.
Su standard vs stàndaro mi soffermo solo brevemente:
Non volendo riesumare l’etimologico stendardo, bisognerebbe adattare standard in stàndaro, secondo l’esempio spagnolo (estándar). [...] Sicché direi proprio la norma, o la norma italiana; e l’aggettivo che aggiungerei a italiano ‘lingua italiana’ (quando ce ne fosse bisogno) sarebbe normale, risemantizzato in funzione linguistica: italiano normale = standard Italian (e così francese [ecc.] normale = standard French [ecc.]).
Tralascio la critica sui termini contoide e vocoide, sulla quale forse tornerò, e vengo a referente, una «mostruosità»:
Referente è chiaramente inaccettabile. Non si possono invocare precedenti di parole nate per errore come zenit o collimare (invece di zemt e colliniare). Qualunque errore, una volta diffusosi, ha diritto di cittadinanza in una lingua, purché non contrasti in modo stridente e permanente colle sue strutture: il che succede, appunto, nel caso di referente, dato che in italiano -ente è la terminazione del participio presente delle classi diverse dalla prima (mentre l’aporia è meno grave in inglese, dove il participio presente termina in -ing). La situazione non è sanabile: fra cento o dugent’anni referente in senso passivo continuerebbe a dover essere espulso dal nostro sistema linguistico.

Non è facile indicare un sostituto che soddisfaccia tutte le esigenze. Nella riunione del Circolo linguistico fiorentino di cui rendo conto in quest’articolo ho proposto relàtico, formato, come il lat. tardo relativus, sul participio passato di refero (ma il suffisso -ǐcus non è di norma adoperato nei deverbali). C’è poi la possibilità di fondarsi, invece che sulla nozione di ‘riferimento’, su quella di ‘corrispondenza’: s’avrebbe allora rispondente, a buon diritto participio in -ente, che mi sembra abbastanza adatto, anche come effetto fonico, a occupare la casella da cui va estromesso referente. Il greco infine fornirebbe un anaclàsto [...] oppure, come mi suggerisce Silvano Boscherini, un semiòto [...], al quale ultimo, dati i tempi, potrebbe arridere una certa fortuna.

Non so quanto questi neologismi appaiano appropriati e opportuni. Forse la soluzione migliore è quella di contentarsi dell’esistente designatum, italianizzandolo in designato o cosa designata. L’essenziale è che i linguisti si sbarazzino di referente. E se i politici e i giornalisti, quando voglion dire punto di riferimento, dicessero punto di riferimento?
Sic et simpliciter.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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