Dunque prima della metà del Trecento circa, come ci conferma anche il Larson (nell’articolo messo a disposizione qui da Infarinato non so piú dove), si pronunciava /'kuSe/ (‘cuce’) ma /'lutSe/ (‘luce’). Da metà Trecento ai giorni nostri, invece, in Toscana, [S] e [Z] sono varianti di /tS/ e /dZ/ in posizione intervocalica (quando non entri in gioco la cogeminazione). Da quasi sei secoli e mezzo, adunque.Al principio del Trecento la [tS] intervocalica, probabilmente, non s’era ancora spirantizzata in [S]. Sicché s’avevano due unità fonematiche distinte, /tS/ e /S/ (scempie). Il solo modo di distinguer queste due unità era d’adoperare, anche per /S/ scempia, la grafia che il latino offriva per /SS/, cioè sc(i). Invece il fonotipo intervocalico [Z] doveva esser già variante di posizione del fonema /dZ/. Per tutta la questione delle sibilanti palatali a Firenze e in Toscana, vedi i miei Nuovi testi fior., pp. 29-34 e 161-62.
Perché, allora, non aver reso normativa questa distinzione? Che non fosse esportabile la spirantizzazione delle occlusive sorde intervocaliche /k, p, t/ perché generalmente quei suoni non sono presenti negli altri dialetti italiani è comprensibilissimo. Ma chi faticherebbe a pronunciare /S/ e /Z/, suoni, se non erro, presenti in moltissimi dialetti?
La mia teoria è questa: sin dai primi vagiti del doppiaggio agí il «prestigio» della pronuncia settentrionale (tanto che anche nei vecchi doppiaggi io ho raramente sentito pronunciar /'kasa, 'kOsa, ko'si/); gl’italiani del Norde, originariamente, appresero l’italiano per via scritta, sui libri, senza un modello orale, e sicuramente applicarono la regola secondo la quale C + E/I dà /tS/ e G + E/I dà /dZ/ (cosí come non potevano imparare le cogeminazioni non segnalate dalla scrittura).
Cosí si semplificò, e continua a semplificarsi, la pronuncia della nostra lingua.
È una teoria comprovata dagli studiosi o solo una mia supposizione?