Dittonghi e sillabazione

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Enumaelis
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Dittonghi e sillabazione

Intervento di Enumaelis »

Buonasera,

scopro solo oggi ahimè! (e comunque per fortuna) il forum Cruscate. Ero rimasto infatti al forum dell'Accademia della Crusca, ormai inattivo.

In questi giorni mi sono messo le mani nei capelli per le incredibili inesattezze e discordanze di sillabazione riscontrate non solo in vocabolari italiani di autori differenti ma addirittura, nel caso del Devoto-Oli, per il fatto che di uno stesso termine si forniscano sillabazioni differenti a seconda dell'edizione (2008 vs 2009). Siccome mi servivano per un lavoro di analisi del verso italiano, alla fine, credo saggiamente, ho deciso di adottare la scansione fonetica, fra l'altro decisamente più chiara al riguardo. Assumo dunque, MAPI docet, che sia iato una sequenza V'V o V,V mentre i dittonghi o presentano la stessa sequenza, ma invertita rispetto allo iato, o sono del tutto atoni.
Se ho ben interpretato questo concetto, la sillabazione di una parola come straordinario sarebbe straor-di-na-rio (e mi pare che il DOP tale la pronunci). Sono nel giusto?

Mi resta anche il dubbio su una parola come stereoisomeria.

Gradirei qualche delucidazione e ringrazio anticipatamente

Enumaelis
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Re: dittonghi e sillabazione

Intervento di Infarinato »

Innanzitutto, benvenuto, caro Enumaelis! :D

…Ma partiamo dal fondo.
Enumaelis ha scritto:Se ho ben interpretato questo concetto, la sillabazione di una parola come straordinario sarebbe straor-di-na-rio (e mi pare che il DOP tale la pronunci). Sono nel giusto?
Sí, ma dalla pronuncia del DOP non si può in questo caso evincere alcunché sulla sillabazione: se anche la pronuncia fosse —mettiamo— un artificiale /straordi'nario/ (con dieresi poetica) anziché l’usuale /straordi'narjo/, da una parte la «sillabazione fonetica» vorrebbe sempre /-na.rio/ (di due sillabe come /-na.rjo/), dall’altra, il DOP non indicando esplicitamente la sillabazione, la trascrizione fonetica rimarrebbe la stessa, i.e. /-nario/, sia che fosse /-na.rio/, sia che fosse [per il DOP, s’intende] /-na.ri.o/. Altrettanto dicasi per /stra(.)or-/: solo per le sillabe che rechino accento [eventualmente secondario] si può evincere qualcosa sulla sillabazione dalla semplice trascrizione.
Enumaelis ha scritto:Mi resta anche il dubbio su una parola come stereoisomeria.
La pronuncia [normale] di questa parola è, come ci confermano ad esempio il GRADIT e lo stesso DiPI, /s,tEreoizome'ria/ (il DiPI non riporta [giustamente] gli accenti secondari, non avendo essi reale valore distintivo in italiano: cfr. P.M. Bertinetto, Strutture prosodiche dell’italiano, «Accademia della Crusca», Firenze, 1981), dove /-'ria/ è disillabico secondo la sillabazione tradizionale (= «morfologica») e ovviamente monosillabico secondo quella fonetica.

Quanto a /-reoi-/, io ci vedrei un [occasionalissimo] trittongo a ritmo [molto] allegro, e due sillabe a ritmo lento: /-reo.i-/… Dopotutto, dal punto di vista dell’enunciazione, siamo di fronte quasi a una giustapposizione di due parole piú che a un vero composto unitario.
Enumaelis ha scritto:Siccome mi servivano per un lavoro di analisi del verso italiano, alla fine, credo saggiamente, ho deciso di adottare la scansione fonetica, fra l'altro decisamente più chiara al riguardo.
Decisione sicuramente saggia, ma attenzione: i poeti si prendono molte licenze in una direzione (sineresi) e nell’altra (dieresi). Ora, mentre la sineresi dovrebbe rappresentare la «normalità» e collima [perlopiú] con la sillabazione fonetica, la dieresi (e includo in essa anche la sillabazione tradizionale dove non coincida con quella fonetica, e che quindi non è normalmente considerata tale) è un qualcosa d’assai artificiale rispetto al parlar quotidiano.

In ogni caso, farà bene a consultare anche il sempre prezioso Camilli & Fiorelli, che, pur propugnando una sillabazione essenzialmente fonetica (si vedano soprattutto le note del Fiorelli), affronta in dettaglio tutta la spinosissima questione delle sillabazione tradizionale e delle varie licenze poetiche.
Enumaelis
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Intervento di Enumaelis »

Grazie per il benvenuto e per la celere ed esaustiva risposta.

Riflettendo oggi a quanto dice Canepari sul Mapi, a proposito di dittonghi e iati, per /-reoi-/ ero errivato alla ragionevole ipotesi che fosse appunto un bisillabo ed eventualmente monosillabo con un eloquio piu' veloce (in sineresi ad esempio in poesia posto che mai capiti una simile combinazione) cosi' come per altre parole su cui sto lavorando per una base dati lessicale; tale e' il caso, per dire, di autoasucultazione, o neoeletto, o anche osteoalgia, in cui vedo /-toau-/ monsillabo anche ad andatura normale mentre /neoe-/ e /-teoa-/ bisillabi, anche se a volte, pur senza imprimere velocità all'eloquio,mi pare possano essere sentiti monosillabi. In generale assumo che tre vocoidi tendano a dividersi in due gruppi ad andatura normale.
A proposito dell'analisi metrica, la scelta di Canepari ha conseguenze per me evidentemente importanti. Faccio un solo esempio. Mio è monosillabo e quindi, per le norme prosodiche della versificazione italiana, all'interno del verso non subisce alcun mutamento metrico mentre a fine verso viene dieretizzato. Nella prassi scolastica e nei vocabolari, invece, mio è computato come bisillabo e quindi si ha sineresi interna al verso e nessuna figura metrica a fine verso. La scelta di un'impostazione piuttosto che l'altra ha quindi riflessi non indifferenti anche e soprattutto sui risultati di un'analisi metrica in termini, ad esempio, statistici. Per il solo fatto di adottare la sillabazione fonetica un'infinità di sineresi scompare di colpo. Che poi i poeti si prendano licenze metriche non stupisce, ne' preoccupa, ma, appunto, queste licenze sono tali in riferimento a una norma, la quale, questa sì, dovrebbe essere almeno certa e soprattutto corretta.

Cordialmente

Enumaelis
Enumaelis
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Intervento di Enumaelis »

Ritorno sull'argomento perché vi è sempre qualche lettura che riapre la quesitone che più vexata non potrebbe essere. Dunque leggo un lungo saggio di Giovanna Marotta, intitolato Dittongo e iato in italiano: una difficile discriminazione, pubblicato negli Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, serie III, XVII, 3, 1987, pp. 847 - 883, in cui leggo:
In virtù del principio fonologico discusso, del resto ampiamente riconosciuto, terremo pertanto formalmente distinte le vocali [a e o] dalle vocali , quest'ultime soltanto passibili di marca negativa in contesto dittongante rispetto al tratto di sillabicità. In italiano sono dunque possibili i seguenti tipi di combinazione vocalica: VV, GV, VG, GG, in cui V = [a e o], G = . Di queste quattro strutture la prima realizza sempre iato ...

(p.863). Con ciò è chiaro che parole come "poetare" "Paolo", "Leonardo", reo, ecc. sono tutti, secondo tale impostazione, iati.

Mi pare di capire che Marotta parli da una prospettiva fonologica, giacché in una rapidissima rassegna di definizioni di dittongo che precedono l'assunto di cui sopra, cita i fonetisti Grammont, Malmberg, il Dizionario di Linguistica, Ladefoged et al. tutti più o meno concordi nel definire dittongo una "vocale (suono vocalico) (unica) che cambia timbro mel corso della sua produzione di modo che la fine è diversa dall'inizio" o in generale come "mouvements from one vowel to another".
Tutto il saggio si conclude infine in una sorta di quadro dei dittonghi, distinti ovviamente in ascendenti e discendenti, oltre a una tabella degli iati (p. 883). e qui troviamo che sono iati parole come "melodia, mie, mio, tua, prua, due, suo", ecc.

Nello stesso lasso di tempo ho letto anche un lungo saggio di Mario Casella sul testo della Divina Commedia da lui preparato in edizione critica nel 1924, in cui tratta, fra l'altro, delle cosiddette dieresi d'eccezione, che sono quelle, a suo dire, che compaiono appunto eccezionalmente su dittonghi come mio e suo all'interno del verso, scatenando una polemica con un altro studioso, il Debenedetti il quale diceva tali dieresi essere inesistenti eccetera. Entrambi però partivano dalla comune cognizione di dittongo di parole come mio e suo. Noto con sempre maggior stupore, occupandomi di poesia, che esiste una distanza non indifferente fra questa, forse perchè originariamente fenomeno orale, e la teoria fonologica.
Gradirei il vostro parere.

Cordialmente
Enumaelis
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Infarinato
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Intervento di Infarinato »

Enumaelis ha scritto:Mi pare di capire che Marotta parli da una prospettiva fonologica…
Sí, [morfo]fonologica, appunto, non fonetica: sul piano strettamente fonetico, l’unica distinzione possibile rimane quella canepariana, come riconosce implicitamente anche il Mioni, che pure accetta la distinzione tradizionale fra dittongo e iato (cfr. A. Mioni, «Fonetica e fonologia», in: A. A. Sobrero [a cura di], Introduzione all’italiano contemporaneo. Le strutture, Roma: «Laterza», 1993, pp. 101–39).
Enumaelis ha scritto:Noto con sempre maggior stupore, occupandomi di poesia, che esiste una distanza non indifferente fra questa, forse perché originariamente fenomeno orale, e la teoria fonologica.
Concordo sulla «distanza non indifferente». Non sono sicuro, però, d’aver compreso la motivazione che Lei ne dà: direi che la distanza in questione è dovuta soprattutto al fatto che la poesia [italiana] risente della tradizione grammaticale e della terminologia metrica latine [e queste di quelle greche], il che spesso «forza» la realtà fonetica (…che non sarebbe punto forzata se si desse [piú] retta all’orecchio).

Tuttavia, devo dire che i grandi poeti (quelli davvero grandi, intendo) sono perlopiú in sintonia con detta realtà, e le licenze che si prendono hanno generalmente un fine [estetico] ben preciso.
Enumaelis
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Intervento di Enumaelis »

Cerco di chiarire meglio il punto che sembra essere più oscuro: la poesia non attiene alla scrittura ma, come da sempre è noto, all'oralità. E' dunque nell'oralità che essa trova la sua ragione d'essere. Il problema sembra dunque risiedere nel fatto che NON si tiene conto di questo aspetto a livello morfofonologico. Giustamente i poeti grandi, Lei nota, agiscono in ben altro modo. Dal mio punto di vista (teorico e poetico s'intende) essi, pur avendo chiara dimestichezza con la tradizione latina che li ha preceduti, hanno anche più chiara la realtà fonetica della lingua di cui sono portatori.Tale chiara coscienza lingusitica (orale) permette loro di giocare appunto "metricamente" con figure che alterino l'andatura normale di alcuni suoni. Aggiungo che, per corerenza con quanto ho appena scritto, mi vien difficile pensare che la poesia italiana sia infarcita di figure metriche come sineresi o dieresi, che invece dovrebbero essere fenomeni relativamente eccezionali, atti a mostrare qualche particolarità stilistica e autoriale. In questo mi sembra che la prospettiva fonetica mostri che le figure metriche sono relativamente rare e confermi quindi che esse hanno un effettivo valore di eccezionalità ed extranormalità in rapporto all'uso specifico della lingua di ogni anutore.
Ivan92
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Intervento di Ivan92 »

A me il compito di rispolverare questo filone. :)

Ho notato che nel pronunciare straordinario, l'accento secondario cade spontaneamente sulla a della prima sillaba (/ˌstraordi'narjo/), mentre se ascoltiamo la pronuncia del DOP, sembra che questo cada sulla o. In superstizione, invece, faccio cadere un accento secondario sulla prima sillaba (/ˌsuperstiʦˈʦjone/), laddove sembrerebbe che il DOP lo faccia cadere sulla seconda. Ora, gli accenti secondari, come s'è detto, non hanno alcun valore distintivo in italiano, eppure ci sono. Dunque mi chiedo: quale regola impone che un accento secondario debba cadere su una sillaba piuttosto che su un'altra, o sulla prima vocale d'un dittongo piuttosto che su quella contigua (e viceversa)?
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