«Upúpa»?!

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bubu7
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Intervento di bubu7 »

Marco1971 ha scritto:Però cúculo è almeno menzionato nel DOP come «meno bene». Per úpupa non c’è traccia di variante.
L'ambiguità di pronuncia non è di oggi e alcuni dizionari, come il GRADIT, riportano entrambe le pronunce.

Ancor più significativa, come indice dell'incertezza di pronuncia (che ha provocato una variazione nei confini del termine) è la variante pupa (causata, evidentemente, dalla pronuncia piana di upupa).
Il GRADIT l'attesta, erroneamente, dal XX sec. (voce pupa³); il GDLI riporta una citazione dal Morgante (XIV.52) del fiorentino Luigi Pulci del XV sec (voce pupa¹).
...e rizza la pupa la cresta
Un'interessante esposizione della storia di questa parola si trova nel DELI.

Personalmente, non ci vedo niente di male in queste variazioni d'accento. :)
La lingua è un guado attraverso il fiume del tempo. Essa ci conduce alla dimora dei nostri antenati.
V. M. Illič-Svitič
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Luca86
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Intervento di Luca86 »

bubu7 ha scritto:Un'interessante esposizione della storia di questa parola si trova nel DELI.
Riporto la voce úpupa del DELI (edizione minore), per chi non lo possedesse:

Vc. dotta, lat. ŭpupa(m), onomat., dal suo verso, imitato con il raddoppiamento up up (V. il caso parallelo di cucú(lo)). La parola sarebbe rimasta isolata nel limbo ambiguo della ornitologia letteraria, se il Foscolo non ne avesse rinnovata la fama con il notissimo passo dei Sepolcri 81-83 (“e uscir dal teschio, ove fuggía la luna, / l'úpupa, e svolazzar su per le croci / sparse per la funerea campagna”), facendo di un grazioso uccello diurno, l'Upupa epops epops L., strigide, un pauroso e malaugurante uccello notturno. I difensori del Foscolo non mancarono di segnalare le fonti dell'abbaglio: il Parini della Notte, postuma (“e upupe e gufi e mostri avversi al sole”) e la Bibbia, che considera l'upupa impura, contribuendo al suo inserimento fra gli animali immondi.
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u merlu rucà
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Intervento di u merlu rucà »

E' indicata come voce dotta. Strano, perché molte forme popolari dialettali (anche toscane) derivano dal latino upupa, più o meno direttamente (pupa, buba, boba, bubbola ecc.). La perdita della u- potrebbe essere dovuta al fatto che, insieme alla l', sia stata ad un certo punto intesa come articolo maschile (*lu pupa). L'inconsueta terminazione in -a per un maschile, ha successivamente riportato il genere al femminile.
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Tornando alla pronuncia, si possono invocare mille giustificazioni e spiegazioni, piú o meno pertinenti e ovvie, ma nell’italiano d’oggi chi pronuncia *upúpa esibisce involontariamente la propria ignoranza. Solo i ministri dell’incultura l’accoglieranno come valida.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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bubu7
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Intervento di bubu7 »

Senza scomodare i ministri, io direi che la pronuncia consigliabile è senz'altro ùpupa e che esiste una pronuncia minoritaria upùpa riportata come variante da almeno un importante dizionario (GRADIT).

L'esistenza di varianti di pronuncia fa parte della fisiologia di una lingua: non è una patologia.
La lingua è un guado attraverso il fiume del tempo. Essa ci conduce alla dimora dei nostri antenati.
V. M. Illič-Svitič
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

L’esistenza di varianti non è una patologia; la patologia consiste nel promuovere pronunce socialmente inaccettabili per televisione.

*Upúpa, ilàre uccello…

Non conosco un solo professore che non riprenderebbe lo studente.

L’evoluzione della lingua deve seguire il proprio corso indisturbato, senza spinte d’incoraggiamento a tralignare e con il richiamo all’uso corretto.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Giorgio1988
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Intervento di Giorgio1988 »

Un'accentazione del tutto erronea come «Upùpa ilàre uccello calunniato» non soltanto cambierebbe il significato dell'aggettivo (ilàre = «relativo all'ilo»), ma anche sviserebbe completamente il magnifico andamento dattilico del primo emistichio: «Ù-pu-pa ì-la-re».
Quanto poi al verso «sopra l'aereo stollo del pollaio», cito il commento di Floriana d'Amely (da Ossi di seppia, edizione a cura di Pietro Cataldi e Floriana d'Amely, Oscar Mondadori, 2003):

lo "stollo" è propriamente il palo in legno attorno al quale si appoggia la paglia dei pagliai; qui si indica una pertica slanciata verso l'alto (cfr. «aereo») e soprastante un pollaio. Proprio è invece l'uso pascoliano da cui probabilmente deriva questo luogo: «il pagliaio con l'aereo stollo» (Dialogo, in Myricae, v. 5); citazione che, secondo Bonfiglioli, avrebbe un «sapore ironico, antinaturalistico e in definitiva antipascoliano».

Mi piacerebbe ricordare (sperando che la mia piccola divagazione sia tollerata in questo splendido fòro che ha per oggetto la lingua) che Montale dichiarò apertamente il suo antipascolismo nell'articolo La fortuna del Pascoli, apparso il 30 dicembre 1955 sul Corriere della sera. Scriveva Montale: «A nostro avviso le maggiori sfortune del Pascoli non furono i salti di tono (frequenti anche nel Baudelaire) o l'assenza dei grandi versi memorabili di cui è ricco anche il difficilissimo Mallarmé. Più ancora della costante indecisione formale e psicologica che si avverte nelle sue poesie, lascia perplessi il fatto che raramente una sua lirica è un "oggetto" distaccato, che può vivere per conto suo».
Ricordo infine che, tra le poesie rifiutate da Montale e recentemente rinvenute nel Fondo Manoscritti di Autori Moderni e Contemporanei dell'Università di Pavia, figura questo distico:

G. PASCOLI

Gli è mancata purtroppo l'autoironia
(la più importante che sia)


Scusate, mi sono dilungato troppo. :D
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

È vero, eppure Montale è pervaso di echi pascoliani. E ciò significa che il Pascoli, l’aveva letto bene. ;)
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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