Ancora sul «terzo sistema fonologico italiano» di G. Devoto

Spazio di discussione su questioni di fonetica, fonologia e ortoepia

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Intervento di Infarinato »

O Bubu, ma quanto «tetratricotomizza» Lei! :)

Confidi un po’ di piú nello spirito critico e nella capacità di discernimento altrui! ;)
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bubu7
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Intervento di bubu7 »

Infarinato ha scritto:O Bubu, ma quanto «tetratricotomizza» Lei! :)

Confidi un po’ di piú nello spirito critico e nella capacità di discernimento altrui! ;)
Faccio quel che posso, con tutti i miei limiti, per rendere il forum sempre più interessante.

La ringrazio, comunque, di avere espresso la sua opinione sulle mie attitudini e del suo amichevole suggerimento.
La lingua è un guado attraverso il fiume del tempo. Essa ci conduce alla dimora dei nostri antenati.
V. M. Illič-Svitič
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Status dell'integrazione dei forestierismi

Intervento di Freelancer »

Nell'articolata introduzione di Ghino Ghinassi a La lingua italiana nel Novecento di Bruno Migliorini c'è un'interessante nota (la n. 50, vedi soprattutto le righe finali) relativa alla discussione sull'attenuarsi dell'assimilazione fonetica dei forestierismi e dei classicismi nell'italiano contemporaneo, "...di cui era data un'organica interpretazione storica che lo integrava alla riproposta del ruolo europeo e internazionale dell'italiano, al di là dell'ibernazione puristica; un'interpretazione nuova e tutt'oggi valida, indipendentemente dagli orientamenti del M. neopurista".
Partendo dagli spunti miglioriniani e oltrepassando le conclusioni dello stesso M., G. Devoto parlò qualche anno dopo, a questo proposito, di un "terzo sistema fonologico" in formazione. Come s'è accennato, a questa ipotesi il M. non aderì mai, facendo prevalere la visione 'neopuristica' (cfr. nota p. 86) e l'articolo Parole "più italiane' e "meno italiane", in cui definisce i forestierismi insediatisi piuttosto stabilmente nella nostra lingua, evitando l'integrazione al sistema fonotattico tradizionale (nel caso specifico alcol), parole "meteche", con una di quelle metafore (a noi ormai ben note) cui ricorreva per brevità e per scongiurare l'astrattezza cattedratica di un'argomentazione.
La questione è tuttora una delle più interessanti e aperte nel quadro degli studi sull'italiano contemporaneo. Per informazioni di carattere generale si può vedere Z. Muljacic, Fonologia della lingua italiana; e, specificamente sui gruppi consonantici, I. Klajn, I nessi consonantici nell'italiano. Equilibrate considerazioni sull'argomento propongono lo stesso Klajn, Influssi inglesi nella lingua italiana, cap. 8; e G. Folena, Aspetti della lingua contemporanea. La lingua e la pubblicità.
Il problema, nei suoi termini generali, non è dei più semplici: è noto, fra l'altro, che serie di forestierismi possono integrarsi in una lingua secondo uno status particolare che continui a permetterne l'identificazione come tali per secoli (cfr., p. es., J. Vachek, Written Language, L'Aja, 1973, cap. 6). Sempre più comunque si tende a diffidare di modi di distinzione troppo drastica tra forestierismi e forme indigene, come quello fondato sulla conformità o meno al cd. sistema tradizionale, che rischia di bloccare la ricerca storica su interi settori della struttura della lingua.
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

E come potrebbe questa “distinzione” (!) «bloccare la ricerca storica su interi settori della struttura della lingua»? I beg your pardon? :D
Ultima modifica di Marco1971 in data ven, 05 gen 2007 2:53, modificato 1 volta in totale.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Intervento di Freelancer »

Marco1971 ha scritto:E come potrebbe questa “distinzione” (!) «bloccare la ricerca storica su interi settori della struttura della lingua»? I beg your pardon? :D
Al momento non ne ho idea né mi interessa indagare in merito. Il punto che mi premeva sottolineare è quello introdotto nella terz'ultima riga della nota di Ghinassi.
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Bisogna semplicemente ammettere, a mio umilissimo avviso, che, oggi come ieri (ma oggi forse un po’ di piú), ci si compiace nei ragionamenti per puro gusto del ragionamento. Molta linguistica e critica letteraria parla bolso, e i concetti si posson dire anche con parole e sintassi piú semplici. In realtà cocendo il tutto e estraendone la sostanza, ci son piú pampini che uva!
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Intervento di bubu7 »

Ghino Ghinassi ha scritto:Sempre più comunque si tende a diffidare di modi di distinzione troppo drastica tra forestierismi e forme indigene, come quello fondato sulla conformità o meno al cd. sistema tradizionale, che rischia di bloccare la ricerca storica su interi settori della struttura della lingua.
Freelancer ha scritto:
Marco1971 ha scritto:E come potrebbe questa “distinzione” (!) «bloccare la ricerca storica su interi settori della struttura della lingua»? I beg your pardon? :D
Al momento non ne ho idea...
A me il pensiero di Ghinassi, che – tra parentesi – condivido, sembra chiarissimo.
Una distinzione troppo drastica impedisce d’indagare quelle trasformazioni strutturali di una lingua che avvengono sotto lo stimolo di cause esterne.
L’ho spiegato innumerevoli volte: nelle lingue non cambiano solo i componenti ma anche, seppur più lentamente, le regole con cui questi vengono combinati e secondo le quali gli stessi componenti vengono o no accettati.
Se noi diciamo: le regole sono e saranno sempre queste, e tutto ciò che non le rispetta è fuori dal sistema, blocchiamo l’indagine sui cambiamenti delle regole stesse (che comunque avvengono, come si può verificare studiando la storia di qualsiasi lingua naturale).
La lingua è un guado attraverso il fiume del tempo. Essa ci conduce alla dimora dei nostri antenati.
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Intervento di Infarinato »

bubu7 ha scritto:…Se noi diciamo: le regole sono e saranno sempre queste, e tutto ciò che non le rispetta è fuori dal sistema, blocchiamo l’indagine sui cambiamenti delle regole stesse (che comunque avvengono, come si può verificare studiando la storia di qualsiasi lingua naturale).
Tutto giusto: «ovvio», direi.

Mi si conceda però una piccola precisazione a beneficio di coloro che leggessero questi ultimi interventi avendo magari dato solo una semplice scorsa a quelli d’apertura di filone: la mia analisi/critica si riferiva alle strutture dell’italiano di oggi, non a quelle d’un italiano artificialmente cristallizzato.

Se è infatti innegabile che oggigiorno l’uscita consonantica sia sociolinguisticamente [piú] accettabile [di ieri] in italiano, è altrettanto innegabile che la classe delle parole uscenti in consonante (fatte le solite eccezioni per le proclitiche etc. —non è necessario chiamarle «forestierismi» o classificarle come tali ;)) non sia «fonomorfologicamente produttiva» (e rimando al mio intervento iniziale per la definizione di questo concetto).

Se/quando si dirà (esempi di fantasia o quasi, ma si noti che la classe dei grammemi d’una lingua muta lentissimamente/impercettibilmente) parlàt invece di parlate, sto manging invece di sto mangiando, due paninos invece di due panini, etc., allora, sí, potremo dire di trovarci difronte a un vero e proprio «mutamento strutturale» [almeno nel senso «piú ovvio» da me delineato], ma a quel punto non credo parleremo piú d’«italiano» (se non altro per chiarezza espositiva).
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Intervento di bubu7 »

Infarinato ha scritto: Se è infatti innegabile che oggigiorno l’uscita consonantica sia sociolinguisticamente [piú] accettabile [di ieri] in italiano, è altrettanto innegabile che la classe delle parole uscenti in consonante (fatte le solite eccezioni per le proclitiche etc. —non è necessario chiamarle «forestierismi» o classificarle come tali ;)) non sia «fonomorfologicamente produttiva» (e rimando al mio intervento iniziale per la definizione di questo concetto).
Ben venga la ripetizione, per l'ennesima volta, di questi concetti.
Ripeto anch'io: condivido questa sua analisi.
La lingua è un guado attraverso il fiume del tempo. Essa ci conduce alla dimora dei nostri antenati.
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Parole "più italiane" e "meno italiane"

Intervento di Freelancer »

Ghino Ghinassi ha scritto:Partendo dagli spunti miglioriniani e oltrepassando le conclusioni dello stesso M., G. Devoto parlò qualche anno dopo, a questo proposito, di un "terzo sistema fonologico" in formazione. Come s'è accennato, a questa ipotesi il M. non aderì mai, facendo prevalere la visione 'neopuristica' (cfr. nota p. 86) e l'articolo Parole "più italiane' e "meno italiane", in cui definisce i forestierismi insediatisi piuttosto stabilmente nella nostra lingua, evitando l'integrazione al sistema fonotattico tradizionale (nel caso specifico alcol), parole "meteche", con una di quelle metafore (a noi ormai ben note) cui ricorreva per brevità e per scongiurare l'astrattezza cattedratica di un'argomentazione.
Mi sono procurato l'articolo di Bruno Migliorini, che però non aggiunge molto alle tante discussioni che abbiamo avuto su questo argomento e non ho tempo di passarlo allo scanner. Ma posso inviarlo in formato PDF a chi me ne farà richiesta privatamente. A meno che non esista un metodo (Infarinato ce lo potrà dire immagino) per rendere un PDF (o un .jpg) disponibile sul forum.
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Re: Parole "più italiane" e "meno italiane&qu

Intervento di Infarinato »

Freelancer ha scritto:Ma posso inviarlo in formato PDF a chi me ne farà richiesta privatamente. A meno che non esista un metodo (Infarinato ce lo potrà dire immagino) per rendere un PDF (o un .jpg) disponibile sul forum.
Nessun problema a renderlo disponibile sul sito (grazie!), ma lo deve fare il sottoscritto: PDF è meglio.

Le ho inviato tramite messaggio privato l’indirizzo di posta elettronica cui può inviarlo. Grazie ancora della disponibilità.
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Re: Parole "più italiane" e "meno italiane&qu

Intervento di Infarinato »

Infarinato ha scritto:Nessun problema a renderlo disponibile sul sito…
Ecco fatto: B. Migliorini (1971), «Parole ‹piú italiane› e ‹meno italiane›», Lingua nostra 32:50–2.

Grazie ancora a Roberto.
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Sulle terminazioni consonantiche

Intervento di Freelancer »

In Influssi inglesi nella lingua italiana (1972), Ivan Klajn scrive:
[...] Molto pertinente a questo riguardo ci sembra l'osservazione del Folena, secondo cui la lingua italiana, "unica delle grandi lingue di cultura", non accetta facilmente le parole a finale consonantica, eppure è costretta a farlo per non privarsi di centinaia di termini d'uso internazionale. Infatti, una restrizione tanto severa qual è l'esclusione delle consonanti in fine di parola impedisce lo sviluppo naturale della lingua, e prima o poi deve cadere davanti alle esigenze dell'arricchimento lessicale. Ne abbiamo prova in altre lingue, a partire dall'inglese stesso.
[...]L'inglese una volta non tollerava la finale -a (cfr. ancor oggi nei dialetti idee, Barbary, Californy, ecc.), ma essa vi è penetrata attraverso i numerosi prestiti del tipo umbrella. Il serbocroato, che fino al secolo scorso eliminava i nessi consonantici finali dei forestierismi per mezzo dell'epentesi vocalica (Aleksandar, ritam), oggi li lascia inalterati persino in parole come infarkt o ansambl.
A questa limitazione aveva già accennato Giacomo Devoto in Il linguaggio d'Italia, quando parlando del secondo sistema fonologico italiano aveva scritto:
Le conseguenze di queste immissioni massicce si ripercuotono sul sistema fonematico italiano di base fiorentina: le strutture consolidate nei secoli IX-XII non bastano più. Di questo rimangono ben fermi solo due caratteri entrambi negativi: la esclusione delle consonanti in posizione finale e la esclusione della -U non accentata in posizione finale.
(Le "immissioni massicce" corrispondono all'arricchimento lessicale dovuto all'accoglimento dei latinismi.)


L'osservazione di Gianfranco Folena a cui fa riferimento Klajn è contenuta nell'articolo del 1964 Aspetti della lingua contemporanea - La lingua e la pubblicità:
[...]Una delle conseguenze più notevoli dei termini pubblicitari sulla lingua contemporanea è stata certo l'introduzione dell'abitudine di troncamenti arbitrari e di finali di parola in consonante (e particolarmente in consonante esplosiva) che non erano finora ammesse nella nostra lingua, ed erano possibili solo in alcuni dialetti settentrionali. Questa novità di struttura fonetica è stata favorita dalla abitudine italiana di pronunciare le sigle invece di analizzarle (to spell, épeler) nei singoli componenti come in inglese, francese, ecc.: così FIAT, AGIP, ANIC, ENIC, ENIT, CIT (invece C.L.N. "cielle(e)nne", C.G.L. "ci(g)gielle"). La pubblicità italiana, con le sue importazioni esotiche e le sue neoformazioni, ha dato la spinta maggiore se non esclusiva a una trasformazione assai rilevante delle nostre abitudini fonetiche (tanto che il Devoto ha parlato per questo d'un nuovo "sistema fonologico dell'italiano" contemporaneo "diverso da quelli dei secoli passati").
Per effetto della lingua pubblicitaria, del cinema e della radio, della televisione e delle abitudini visive contratte dai manifesti e, ahimé, dai fumetti, pronunce come barre, filme, lapisse, Fiatte, ecc. usuali fino a poco tempo fa in Toscana e nell'Italia centro meridionale, e rispondenti alla tradizione fonetica che adattava punch in ponce e fiacre in fiacchere, sono ormai considerate volgari e vanno scomparendo o sono destinate a scomparire anche in mezzo al popolo.
La lingua della pubblicità, per necessità sintetiche e sotto la spinta della moda esotica, e nella ricerca di sonorità o fisionomie grafiche inusitate, presenta un numero grandissimo di formazioni troncate o "codimozze", come vien fatto di dire con una parola che ricorre a proposito di cani smarriti nella pubblicità economica; sono preferite le finali in consonante liquida e nasale e in sibilante, ma ve ne sono di ogni genere. Anche per i gruppi interni la difficoltà di pronuncia non è mai un ostacolo; ma la terminazione è la parte più importante, dato che acquista spesso funzione "classificatricie", morfologica: poiché l'esempio è sempre contagioso, si formano per imitazione serie di parole con terminazioni simili, specie di suffissi ("pseudo-suffissi" o "suffissoidi") che hanno talora il valore di simboli sonori, come per es. la finale -tex in rayontex, -ex in lastex o pirex, dove, quali che fossero le intenzioni del creatore, la x prende a simboleggiare elasticità, tenacia, resistenza, come anche nell'interno di parola, in plexiglas, ecc. Così anche nell'anarchia la lingua tende a ricostituire un ordine, sia pure embrionale e provvisorio, di struttura formale e di motivazione semantica.

[...]L'italiano, l'unica delle grandi lingue di cultura che abbia difficoltà, come s'è visto, ad ammettere finali consonantiche, deve e dovrà probabilmente pagare questo scotto a un linguaggio che ha basi internazionali;

[...]Nel campo dei materiali edilizi va segnalata la serie pòpulit, èternit, ecc., con la quale va anche il securit, cristallo di sicurezza: la terminazione, accentata o no, è sentita duque spesso come suffisso, come elemento mnemonico stabile e in qualche modo riconoscibile e orientativo, quindi come elemento morfologico.
Ultima modifica di Freelancer in data mar, 27 mar 2007 17:15, modificato 2 volte in totale.
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Re: Sulle terminazioni consonantiche

Intervento di Infarinato »

Grazie, Roberto. Tuttavia, questa è una baggianata:
Klajn (1972) ha scritto:L'inglese una volta non tollerava la finale -a (cfr. ancor oggi nei dialetti idee, Barbary, Californy, ecc.), ma essa vi è penetrata attraverso i numerosi prestiti del tipo umbrella.
Come ho scritto in quel famoso intervento (che piú non cito per non annoiare oltremodo i nostri venticinque lettori), dal momento che in inglese non esiste il vincolo d’una scrittura che rappresenti [piú o meno] fedelmente la pronuncia, esso si può permettere di adattare tutto: una parola come umbrella non aggiunge nulla di nuovo alla fonotassi/fonologia inglese, ché quella -a si pronuncia (almeno in inglese britannico) esattamente come l’-er di mother, tant’è vero che una «/r/ intrusiva» viene inserita quando essa si lega a una parola che inizi per vocale (questo, almeno per tutti i parlanti britannici, ad eccezione, forse, di qualche lord e del Royal Professor of English […quando ci stanno attenti!]).

In inglese americano, poi, l’assuefazione alla terminazione /-@/ è favorita dall’esempio della pronuncia inglese, di quella afroamericana e anche di altre pronunce americane minoritarie.

Quindi, l’affermazione del Klajn si deve rileggere cosí: «oggi in inglese non usa piú adattare grafomorfologicamente le parole terminanti in -a» —la fonetica non c’entra un fico secco.

Sul serbocroato non mi pronuncio ché non posso pronunciarmi, ma non mi stupirei se anche qui il cambiamento fosse semplicemente grafico (/morfologico?).

Quanto alle osservazioni di Folena, non mi sembra proprio che aggiungano nulla di nuovo alla nostra [lunghissima e, da un po’ di tempo in qua, francamente anche un po’ sterile] discussione. Mi limito a commentare brevissimamente (e —ahimè— ripetendomi per l’ennesima volta) il passo seguente:
Folena (1964) ha scritto:[...]L'italiano, l'unica delle grandi lingue di cultura che abbia difficoltà, come s'è visto, ad ammettere finali consonantiche, deve e dovrà probabilmente pagare questo scotto a un linguaggio che ha basi internazionali…
Ma quale scotto? Basta tradurre e/o adattare come si fa in tutti gli altri paesi di lingua neolatina! Smettiamola di accampare scuse per la nostra pigrizia e la nostra poca sensibilità linguistica (lege: «poca sensibilità per la nostra identità linguistica»)!
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Re: Sulle terminazioni consonantiche

Intervento di Freelancer »

Infarinato ha scritto:Quanto alle osservazioni di Folena, non mi sembra proprio che aggiungano nulla di nuovo alla nostra [lunghissima e, da un po’ di tempo in qua, francamente anche un po’ sterile] discussione. Mi limito a commentare brevissimamente (e —ahimè— ripetendomi per l’ennesima volta) il passo seguente:
Folena (1964) ha scritto:[...]L'italiano, l'unica delle grandi lingue di cultura che abbia difficoltà, come s'è visto, ad ammettere finali consonantiche, deve e dovrà probabilmente pagare questo scotto a un linguaggio che ha basi internazionali…
Ma quale scotto? Basta tradurre e/o adattare come si fa in tutti gli altri paesi di lingua neolatina! Smettiamola di accampare scuse per la nostra pigrizia e la nostra poca sensibilità linguistica (lege: «poca sensibilità per la nostra identità linguistica»)!
Se le osservazioni di Folena fossero state scritte oggi, si potrebbero considerare un segno di pigrizia o disfattismo (per chi vede l'evoluzione linguistica in termini di vittorie e sconfitte), da mettere sullo stesso piano delle ricorrenti geremiadi paralinguistiche sulla presenza di questo o quel forestierismo. Ma dato che sono state scritte quarant'anni fa, vanno lette come un'analisi predittiva, fatta in tempi analoghi o precedenti da altri acuti linguisti come Bruno Migliorini e Giacomo Devoto, di cui oggigiorno vediamo la conferma.
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