‘Una’ norma

Spazio di discussione su questioni che non rientrano nelle altre categorie, o che ne coinvolgono piú d’una

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Ladim
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‘Una’ norma

Intervento di Ladim »

Qui ripeto, brachilogicamente, ciò che ho già letto nelle parole di altri, in altri interventi.

Lo studio del linguaggio [verbalizzato] ha raggiunto una complessità tale da permettere riferimenti viepiù circostanziati; anzi è necessario porre sempre delle premesse.

Certamente si darebbe implicita una conoscenza non superficiale dell’ambito in cui ci muoviamo, per essere intesi il meno evasivamente possibile. A questo proposito esorcizzare ciò che non è pertinente è un argomento non sottoposto all’opinione di chi ci ascolta, dati valori comuni e condivisi.

Mettere alla porta l’intuizione del parlante equivarrebbe, pertanto, a darla per scontata. Dibattere la correttezza di una forma su un’altra perderebbe di senso, allo stato attuale della linguistica, se l’intuito dei più si sorprende disorientato: salvo casi eccezionali, ci troveremmo di fronte a due, tre, quattro possibilità plausibili – l’«inaccettabilità» è a termine, se condivisa largamente.

La marca morfologica di egli soggetto si è erosa culturalmente fino a confondersi con quella di lui: tanto basti.

Così è bene accogliere tutto il possibile, senza troppa pruderie: col risultato poco interessante di trovare confermato un orientamento disciplinare ormai pacifico, acquisito.

Quel che oggi potrebbe avere senso, forse, sarebbe di contemperare «natura» e «cultura», evidentemente operando soprattutto sulla seconda.

[Pro]porre ‘una’ norma vorrebbe dire offrire – senza boria – un ideale culturale retrospettivo, tradizionale per quanto possibile.

Starei per dire che la grammatica, in questo modo, cederebbe quel tanto che basta alla pragmatica affinché l’uso della lingua abbracci senz’altro la comunicazione: stabilire in modo puntuale e argomentato il concetto di ‘preferibile’ presenterebbe un indubbio vantaggio, e cioè produrre la premessa a un controllo consapevole (culturalmente informato!) del meccanismo linguistico, sostanzialmente inconscio e spontaneo, innato in ogni individuo.

Si aggiunga che nessuno può contenere ‘tutto’, e che ‘poco’ può essere sufficiente a considerare la vastità del mare nel quale vorremmo navigare: ecco che la lettura degli exempla (i corpora trascelti) diventa la misura, l’autocoscienza con la quale comprendere questa vastità.

‘Una’ norma – e non ‘la’ norma, quindi – che fa presagire una sottoclassificazione per stili e registri: è l’assunto di un’escursione verso l’alto, comunque muovendo dal basso.

In ultimo, un’idiosincrasia: la costanza con cui spesso si diffida di ‘una’ regolarità meriterebbe una nuova causa, così come l’avrebbe meritata quella dei pedanti di un tempo – pare anzi che i nuovi pedanti siano i vecchi lassisti, e cioè che i secondi abbiano rubato la presunzione ai primi.
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bubu7
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Intervento di bubu7 »

Comincio, caro Ladim, dalla fine del suo intervento con quella suggestiva immagine dei "nuovi pedanti" e della loro presunzione.
Penso che ogni periodo storico abbia le sue "mode" o, se vogliamo, i propri paradigmi culturali.
Attualmente l'analisi e la descrizione delle realizzazioni pratiche del linguaggio ha il sopravvento sulla riproposizione di una norma tradizionale. Devo ribadire, come ho più volte sostenuto, che questo cambiamento non mi dispiace perché contribuisce sempre più a rimuovere le innaturali incrostazioni derivanti alla nostra lingua da secoli di mancata diffusione della lingua italiana, come lingua ufficiale, su tutto il territorio nazionale (dobbiamo risalire all'antica Roma per ritrovare una diffusione della stessa lingua cólta su tutto il territorio nazionale con le relative rese volgari...).
La grammatica dell'italiano moderno è di conseguenza diventata più complessa per tener conto, come ricorda lei, dei diversi registri, molti dei quali tipici del parlato o da esso variamente condizionati. La norma, di conseguenza è diventata molto meno rigida: ma questo è, a mio parere, un fatto largamente positivo. I continui travasi da un registro all'altro col conseguente allargarsi delle possibilità espressive nei singoli registri rappresenta la vita di una lingua.
E quando ricorda la sintesi di natura e cultura, come posso darle torto?
Non condivido interamente il suo auspicare la diffusione di un ideale culturale tradizionale (per quanto ho potuto interrpretare del suo pensiero, naturalmente...). La nostra cultura letteraria tradizionale va digerita, assimilata e rivitalizzata per trasformarla in una cultura moderna.
Ecco, la cultura..., che come ho sempre ricordato è l'unica strada da percorrere per evitare l'impoverimento della nostra lingua.
La difesa della lingua non può seguire la strada della difesa delle norme tradizionali ma deve seguire una strada indiretta che passa per lo studio della nostra letteratura, delle sue opere e per lo studio della lingua e della sua storia.
Un maggior livello culturale raggiunto dai parlanti si traduce automaticamente in una maggiore ricchezza del linguaggio in tutte le sue espressioni.
In questo modo non sarà necessario alzare barricate artificiali rappresentate da rigide norme (anche se diversificate per registri...) ma basterà sempre più una semplice (si fa per dire...) analisi descrittiva delle realizzazioni effettive per compilare la grammatica della lingua.
La lingua è un guado attraverso il fiume del tempo. Essa ci conduce alla dimora dei nostri antenati.
V. M. Illič-Svitič
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Riporto qui le parole di Luca Serianni (Il sentimento della norma linguistica nell’Italia di oggi, in «Studi linguistici italiani», XXX [2004], fasc. I, pp. 85-103):

Mi sembra che le ricorrenti ventate di purismo (ché di questo si tratta, anche se probabilmente molti degl’interessati rifiuterebbero un’etichetta del genere) possano ricordarci due fatti importanti: la lingua è un “bene culturale” che va tutelato in primo luogo dagli stessi utenti, e poco importa se la tutela dipende da spinte sentimentali piuttosto che razionali; il richiamo alla norma, alla tradizione, è un momento fondamentale della dialettica linguistica: nel mutamento di una lingua, per quanto tumultuoso esso sia o possa sembrare ai parlanti, ciò che rimane – e che deve rimanere – integro per consentire la comunicazione tra generazioni diverse, è sempre di piú, quantitativamente e qualitativamente, di quello che cambia. Anche fatti marginali come il successo di un manuale di divulgazione linguistica o l’indignazione di un telespettatore per i colloquialismi dei giornalisti televisivi possono essere utili per ricordare a noi linguisti una delle grandi leggi del divenire linguistico. «Chi irride ai puristi – ha scritto Castellani –, e intendo ai puristi tradizionali, non s’accorge d’irridere alla manifestazione (per quanto talvolta gretta, irritante, opprimente) di qualche cosa di fondamentale e profondo, proprio non d’una lingua, ma di tutto il parlare umano».

Insomma, l’evolversi della lingua è sempre condizionato dal confronto tra spinte innovative e conservatrici.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Ladim
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Intervento di Ladim »

Caro Bubu7, la ringrazio di aver risposto al mio intervento – ciò mi permette di scambiare [barbaramente] ancora qualche battuta.

[Quel che dice Serianni, mi pare in linea con quanto penso].

Per «tradizione» intendo tutto ciò che ha ottenuto il merito di essere ricordato (ciò che di fatto è tràdito: la grammaticografia puristica s’è persa da tempo; restano però, tra gli altri, gli esempi illustri di elaborazione letteraria da quella usati).

Questa norma cui penso non è un relitto, né una reliquia. Semmai un riferimento vivo che, all’occorrenza, sappia rispecchiarsi in un’identità largamente condivisa (mi piace anche la Sua immagine peptica, che accolgo, giacché prevede comunque un’ingestione culturale, non l’imposizione di una medicina). E il «cambiamento» cui fa menzione ne è un aspetto fondamentale.

L’ ‘innaturalezza’, tuttavia, investe un argomento molto delicato: comporta il rischio di coinvolgere lo stesso individualismo che ha fatto la [moderna e giusta] sfortuna di molti puristi di ‘allora’: stabilire che cosa sia «naturale» e che cosa no, procedendo da esempi comunque attestati, è compito ingrato per chiunque, mi pare (penso al registro: coloro che non hanno familiarità con l’uso elevato troveranno innaturale tutto ciò che appartiene esclusivamente a quello strato della lingua).

Lei dice che la «descrizione» è elemento fondamentale, per il nostro punto, e lo è. Le dico, facendo economia di parole, come l’intendo: delineare con rigore un dato fenomeno col fine di comprenderlo [èdile per edìle, attraverso gli sdruccioli in -ile].

Poi bisognerebbe attribuire un valore alla ‘comprensione’, e il valore cui penserei avrebbe un significato propedeutico, eziologico, e non assoluto. Il fine ultimo: quello di sostenere un’idea di solidarietà linguistica promossa entro una coscienza collettiva orientativamente esigente e soddisfatta.

Per chi si occupa di linguistica (e fingo di mettermi in cattedra, divulgando il già noto) l’errore potrebbe essere [e spesso è] una delle tante cause del mutamento linguistico. Certamente l’errore può riflettere la spinta innovativa che segnala il passaggio da una stato a un altro della stessa lingua, e cioè essere un reagente normativo. In questa prospettiva, «descrivere» equivarrebbe a «prevedere», magari allo scopo di prefigurare un normativismo non miope (la Sua «norma meno rigida»: vedere il mutamento là dove si vedrebbe soltanto un errore). Spesso, nel passato, la grammatica ha proscritto forme del tutto legittime e in perfetta sintonia con l’evolversi della lingua – un atteggiamento che oggi farebbe sorridere, e che spesso, però, è considerato erroneamente implicito in ‘ogni’ comportamento sorvegliato.

Ma esistono errori dettati dall’occasione – una svista, una distrazione, un rilassamento; ed errori riconducibili all’apprendimento (e qui il sostrato linguistico ha il suo peso solo se si pensa a una situazione come quella italiana del Secondo dopo guerra – peraltro ancora attuale in molti luoghi del nostro paese). In entrambi i casi i meccanismi linguistici che determinano l’errore, ovvero una delle premesse del cambiamento, non sono poi così numerosi (a voler stringere).

Si sbaglia per false analogie, per livellamenti strutturali affrettati: ad ogni modo per ignoranza di una determinata esperienza linguistica. Vi è ovviamente un che di antropologico in questo: l’imitazione è il mezzo con cui apprendiamo l’uso delle categorie [linguistiche e no] vigenti nel mondo in cui viviamo [si coinvolgano pure a piacimento implicazioni di natura sociale e culturale]. Di frequente facciamo esperienza di una realtà attraverso imitazioni per così dire esogene (guardiamo fuori di noi e accogliamo quello che 'sembra' un modello più efficace di altri), altre volte ci affidiamo a imitazioni endogene (la somiglianza con ciò che riteniamo di conoscere bene, tuttavia, può trarre in inganno).

Di fatto impariamo a parlare perché il nostro cervello è predisposto ad accogliere il linguaggio (ecco l’unico aspetto pacificamente «naturale» della questione – salva la contrapposizione coi linguaggi artificiali, elaborati meccanicamente): l'apprendimento avviene attraverso l’acquisizione di un modello concreto (storicamente determinato) – l’ascolto e quindi la produzione di un testo, sotto la spinta di una necessità comunicativa, di un bisogno esistenziale, non è altro che la rielaborazione di una messe comunque notevole di dati. Un modello, una norma (storicamente e culturalmente determinata) dovrebbe garantire [e di fatto garantisce] la qualità di questi dati.

Si dica pure che non sempre l’uso colto coincide con quello letterario: le grammatiche più recenti tengono conto di questo aspetto e parlano molto a proposito di norma aggiornata.

Quindi si pensi a un uso istruito della lingua (anche estraneo all’elaborazione letteraria) e a questo si ponga attenzione – è un fatto, però, che lo strato sociale colto abbia acquisito dimestichezza coi testi letterari, altrimenti non potrebbe essere considerato «colto». Sarebbe auspicabile quell’uso anche non letterario che appare legittimo ai colti, per tanto.

Una volta stabilito che non esiste una ‘ragione superiore’ che pensi al posto nostro, e cioè un sistema che decida in modo definitivo quale forma sia da preferire a un’altra, dobbiamo scegliere gli strumenti con cui possiamo rispondere a noi stessi in modo consapevole, quando ci troviamo nel dubbio. Un metodo più economico di altri è quello di confrontare l’uso corrente con la tradizione (con l’elaborazione più sorvegliata della lingua, cui spesso le grammatiche del passato hanno guardato, sì, con eccessivo [ingenuo] rigore – le prime grammatiche erano venete non a caso: chi voleva scrivere in toscano, e toscano non era, doveva necessariamente codificare quell’uso ‘spontaneo’ [codificazione che spesso ha risentito di quell’imitazione endogena ricordata più sopra]; poiché oggi nessuno [ancora] può sentirsi totalmente libero di usare la propria lingua in ogni contesto, varrebbe indicativamente lo stesso principio, seppure corretto a favore di un uso assai più dilagante) .

Una «realizzazione effettiva» (quindi trasmessa) ricostruita intuitivamente su un modello incerto, innovativo per ignoranza, andrebbe considerata ancora per quello che è (anche se molto diffusa – per po’, se avrei per se avessi, e a scendere, vorrei che tu vieni per venissi, inerente il per inerente al etc.). Un uso innovativo accolto da chi possiede i filtri linguistici [culturali] che bloccano spontaneamente le forme inaccettabili sarebbe ammesso e anzi preferibile (quando, ad esempio, i colti smetteranno di sentire una stonatura evidente in *dovuto da, sarà accettabile accogliere questa forma; fino ad allora, il colto dovrà argomentare a favore del proprio sentimento linguistico, proponendo ‘anche’ l’esempio, la «realizzazione» meglio elaborata, non solo come pura ipotesi di lavoro).

Ma la mia impressione è che, tutto sommato, condividiamo la stessa idea: soltanto, la mia manica è apparentemente [un po’] più stretta.
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bubu7
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Intervento di bubu7 »

Ladim ha scritto: Ma la mia impressione è che, tutto sommato, condividiamo la stessa idea: soltanto, la mia manica è apparentemente [un po’] più stretta.
Sono d'accordo. Lei sa inoltre che la mia posizione effettiva è più moderata [conservatrice] di quanto traspare a volte in questa piazza.

E sono d'accordo anche con Marco quando afferma che è necessario il continuo confronto tra spinte innovatrici e conservatrici.

Solo che io cerco di non prendere le parti di nessuna delle due tendenze. Mi schiero soltanto per una crescita culturale generale dei parlanti che porterebbe necessariamente, in campo linguistico, a un maggior rispetto delle norme tradizionali.

Nello stato attuale non mi piacciono le spinte eversive legate all'adozione di forestierismi: termini come computer costituiscono un sassolino non assimilabile nell'ingranaggio della lingua (come diceva Castellani). Guardo invece con interesse e con nessun fastidio a evoluzioni interne al nostro sistema linguistico (e per interne intendo anche le contaminazioni coi vari dialetti della penisola...). In quest'ultimo caso valuto positivamente, come una sorgente vitale, quell'ampia area grigia che si estende tra la norma riportata nelle grammatiche e le realizzazioni francamente incomprensibili, che ostacolano la comunicazione in determinati contesti. A quest'area grigia non mi sento di lanciare anatemi ma, come dicevo prima, posso solo auspicare, per ragioni non linguistiche ma con inevitabili ricadute in ambito linguistico, una crescita culturale generale.

Lei sa quanto me che l'evoluzione di una lingua è sempre legata alla parziale ignoranza delle sue regole. Dato per scontato che tutti, più o meno coscientemente, rispettiamo alcune regole grammaticali, l'ipotetico rispetto assoluto di tutte le regole grammaticali da parte di tutti non consentirebbe cambiamenti qualitativi nella lingua. Le forze linguistiche agiscono solo grazie a una relativa ignoranza (rilassatezza...). In mancanza di una relativa ignoranza delle regole grammaticali la lingua risulterebbe ingessata e lo sforzo cosciente e culturale messo in gioco nell'atto linguistico porterebbe alla conservazione di tutte le scorie del passato (o del presente...). In alternativa potremmo essere tutti più profondi conoscitori della lingua e, oltre a conoscerne le regole grammaticali, potremmo conoscerne la storia e le regole di economia linguistica. In questo modo potremmo rilassarci, come dice lei, da cólti, e permetterci di modificare le regole grammaticali. Ma quest'ultima strada, oltre che impraticabile dal punto di vista del coinvolgimento di larghi strati della popolazione, sarebbe impossibile perché presupporrebbe la conoscenza definitiva di regole evolutive che invece evolvono a loro volta e di cui ignoriamo l'effettiva consistenza.

Meglio probabilmente non imporre eccessivi freni normativi espliciti in modo da lasciare più libere le forze evolutive naturali di agire nell'ombra... :)
La lingua è un guado attraverso il fiume del tempo. Essa ci conduce alla dimora dei nostri antenati.
V. M. Illič-Svitič
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Intervento di Infarinato »

Riesumo questo vecchio filone solo per segnalare un recente intervento di Luca Serianni sulla norma linguistica
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GFR
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Intervento di GFR »

Aggiungo la mia opinione di lettore del forum sul collegamento segnalato.
A me pare che il significato ampio di norma linguistica sia infinitamente superiore al suo omologo giuridico‚ quindi‚ anche se procedessero in parallelo le due norme‚ si dovrebbe considerare un grande sfasamento a favore della prima. Il motivo è nella chiusa dell’intervento del Professore. La norma linguistica contempla tacitamente già una porzione sconosciuta del suo futuro. La Lingua è un popolo e una Nazione‚ nei quali si compie un continuo mutamento. Tutto il resto‚ Legge compresa‚ è una parte “meccanica”‚ un ingranaggio necessario al funzionamento della società.
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