Linguistica d’oggi e civiltà

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Marco1971
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Linguistica d’oggi e civiltà

Intervento di Marco1971 »

Assistiamo oggi a un fenomeno non certo dissimile da quanto è sempre avvenuto: il parlante nativo cresce in un ambiente linguistico attraverso il quale assorbe la realtà che lo circonda, e cosí la lingua, per ognuno, costituisce qualcosa di molto intimo, personale, sacro e intoccabile: lo strumento col quale s’è conosciuto – e si continua a conoscere – il mondo.

Si spiegano in tal modo, ad esempio, gli interventi-meteora, soprattutto giovanili, di chi, essendo da sempre avvezzo a dire computer o online o manager o password, ritiene ridicola (o buffa o stravagante, ecc.) la sostituzione con parole italiane
esistenti. Il sentimento è puro e anche giusto, sennonché, se privo di riflessione, rimane, appunto, un sentimento, quindi un elemento soggettivo che non può valere come argomento, o almeno non a tutti gli effetti.

Confrontati come siamo con una società in massima parte costituita da parlanti che sulla lingua sovente non sono chiamati a riflettere, ma che, come i locutori di qualsiasi lingua, la usano spontaneamente ogni giorno, risulta molto difficile non solo sperare in un miglioramento delle condizioni linguistiche ma anche aspettarsi una discussione costruttiva su tale argomento. Fin qui, non credo che ci sia nulla di strano; anzi, in questo mi sembra che l’Italia non si differenzi dalle altre nazioni europee.

La differenza risiede, a parer mio, in questo (oltreché nella mancanza d’un organo normalizzante): i linguisti di vasta e profonda cultura scarseggiano in Italia, e quei pochi che (io, personalmente) considero all’altezza del compito loro affidato vengono spesso reputati «attardati», perché «la lingua cambia, si evolve». Ed è tutto vero, nulla da ridire. O quasi: se per sua natura la lingua muta nel tempo, ciò non significa che qualsiasi mutamento, solo in quanto tale, sia cosa feconda; tutto andrebbe esaminato in maniera critica. Ho l’impressione, forse sbagliata, che invece oggi manchi questo spirito critico nei confronti del divenire linguistico, che dovrebbe essere una responsabilità civica da parte di chi la lingua studia per mestiere.

Sarà conseguenza della grande indifferenza generale che caratterizza la nostra epoca: conta ormai, in e su tutto, il solo successo personale, al quale per forza bisogna giungere, costi quel che costi, anche l’altrui insuccesso. Sembra venuta meno, o relegata in secondo piano, una componente essenziale della grandezza di vivere: l’amore. L’amore in tutti i sensi. In particolare, si crede erroneamente che amando non si possa avere rigore scientifico, come se ci fosse una gerarchia o un approccio al sapere a compartimenti stagni. Direi di piú, col divinizzare lo studio solamente acritico, ci si avvia verso una civiltà incapace di prendere decisioni d’interesse comune.

Dove sono i linguisti che amano l’italiano? Ma soprattutto, che cosa significa amare la propria lingua? Secondo me, vuol dire rispettarla, cosa che non si può fare senza conoscerne in modo approfondito tutta la storia, con la quale ineluttabilmente e sempre dobbiamo far i conti; significa anche apprezzarne la bellezza, in maniera sensuosa e sensuale, assaporarla, come un buon frutto che riempia la bocca, nella sua polposa sostanza; vuol dire, infine, essere consapevoli di contribuire, in modo indiretto e nelle cose piú piccole, alla scrittura stessa della sua storia. Ne siamo tutti consci? Ci hanno riflettuto i linguisti, sempre pronti ad avallare la prima novità?

Questo atteggiamento da fotografi, questa ossessione di descrittivismo inaccompagnato dalla riflessione e dal buon senso mi lascia molto perplesso.

Mi rendo ben conto di non aver detto nulla di nuovo, ma desideravo lasciare questo messaggio anche solo per le nuove persone iscrittesi, invitando chi ne abbia voglia a esprimersi. :)
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Bue
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Re: Linguistica d’oggi e civiltà

Intervento di Bue »

Marco1971 ha scritto:Si spiegano in tal modo, ad esempio, gli interventi-meteora, soprattutto giovanili…
Talvolta la meteoricita` di questi interventi e` - per cosi` dire - "aiutata" dal rovesciamento di un pentolone di olio bollente dall'alto della torre d'avorio dei sapienti-discepoli-di-sapienti, seguita dalla chiusura d'autorita` delle possibilita` di replica. Tutto legittimo, certamente: ci sono altri fori, e non e` la prima volta che questo viene abbandonato da presenze non sempre meteoriche o giovanili.

Giusto per aggiungere un altro spunto di riflessione bastiancontraria - anche questo non certamente nuovo - alla geremiaca lamentazione sullo sfacelo dei tempi moderni.
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Bue ha scritto:...seguita dalla chiusura d'autorita` delle possibilita` di replica.
Su questo vorrei spiegarmi molto brevemente (sebbene non dovrebbe essere necessario). La chiusura d’un filone si giustifica quando l’interlocutore soliloquia, adotta un atteggiamento arrogante, dichiara espressamente di non volere documentarsi (trovando tutto in sé stesso) e si dimostra che bisognerebbe fargli un corso accelerato delle nozioni di base universalmente riconosciute. Era il caso dell’interlocutore in questione. Sottolineo inoltre che i casi di chiusura sono stati finora rarissimi.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Jonathan
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Intervento di Jonathan »

Intervento necessario, caro Marco, dopo certe recenti discussioni.
Penso che ognuno sia, nel suo piccolo o piccolissimo, responsabile di quanto accade alla propria lingua. Idea ovvia quanto si vuole, ma che richiede tempo per essere promossa a consapevolezza (questa, almeno, è la mia esperienza personale).

Una lingua, io credo, la si dovrebbe rispettare e sostenere come un anziano genitore; e come un figlio nutrirla e guidarla, senza tuttavia negarle libertà (ché tanto un figlio la libertà se la prende comunque, se cerchi di incatenarlo).

Io, che da padre non posso farle (non ne ho le competenze), mi accontento di starle vicino e di non farla arrabbiare troppo. :)
Ultima modifica di Jonathan in data lun, 04 lug 2011 19:11, modificato 1 volta in totale.
Avatara utente
Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

La ringrazio, caro Jonathan, della sua testimonianza per me totalmente condivisibile. E si rassicuri, ce ne vuole per farmi arrabbiare... :)
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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u merlu rucà
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[FT] «Arrabbiarsi»

Intervento di u merlu rucà »

Vede, caro Marco, mio padre (quasi novantenne) mi chiese un giorno se arrabbiarsi fosse un termine in buon italiano, perché quando frequentava le elementari i maestri invariabilmente segnavano in rosso il suddetto termine, segnalando che bisognava usare inquietarsi, adirarsi ecc.
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Marco1971
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Re: [FT] «Arrabbiarsi»

Intervento di Marco1971 »

Quasi tutti mi dicono la stessa cosa, che a scuola arrabbiarsi era inaccettabile. E io dico che inaccettabili sono i docenti che lo proscrivono, perché non hanno evidentemente letto molto... ;)
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Ladim
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Intervento di Ladim »

Prendo l’intervento in testa e approfitto della vostra attenzione per ripetere [poche] cose già dette.

La questione investe l’apprendimento della lingua, il suo uso, che, com’è ovvio, coinvolge la «prima» e la ‘seconda’ socializzazione – per ‘seconda’ vorrei alludere esattamente alla socializzazione adulta, auspicabilmente responsabile e autosufficiente.

Se per la «prima» vale il contesto in cui ci troviamo, e quindi la specificità culturale [stricto sensu sociale] della comunità linguistica nella quale esprimiamo intenzionalmente messaggi e ne decodifichiamo altri con pari intenzione, per la ‘seconda’ varrebbe una specificità per dir così individuale, e cioè, nella stragrande maggioranza dei casi, una condivisa e meccanica esperienza irriflessa, non dico della sola lingua.

Nei frequentatori di Cruscate, in quasi tutti, vince questo individualismo, che si traduce in un sentimento chiaramente tradizionale e attento: ma è l’eccezione che, vivaddio, distrugge la regola.

Seguirebbe la scientifica [e attenuante] considerazione che l’arbitrarietà [linguistica] non sarebbe un limite, quanto una potente risorsa, ché altrimenti parleremmo tutti la stessa lingua, e diremmo tutti le stesse cose [ma è pensiero bifronte, che vale per gli uni e per gli altri] – peraltro senza neutralizzare le solite equipollenza e creatività del linguaggio umano.

Chi [sovrac]carica il discorso e le parole, quindi la lingua di una pervasiva eticità non può non approdare [anche] all’estetica. Il fare linguistico allora è un fatto di gusto, e il Vossler avrebbe dato il suo contributo senza, ovviamente, chiudere il cerchio. Per noi è sufficiente dire che è importante leggere, leggere tanto e bene.

Concludo con un[o sciocco] epifonema: soprattutto in cose come queste, così care a noi e sconosciute ad altri, la madre di tutte le sciocchezze è sempre la stupidità.
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