Francesco Petrarca

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atticus
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Francesco Petrarca

Intervento di atticus »

Il 20 luglio 1304 (giusto settecent'anni fa) nasceva ad Arezzo Francesco Petrarca, da Eletta Canigiani e da ser Pietro, notaio fiorentino.
A me pare che sia stato ricordato poco.
Non è questo il luogo per parlare di Petrarca poeta. Della "sua" lingua, però, si potrebbe dir qualcosa.
Gianfranco Contini la definí «antirealistica, antiespressionistica, di tonalità media e di espressione modesta». Troppi "anti".
Certo non v'è in essa la "potenza" della lingua di Dante (per l'esiguità degli elementi lessicali); ma risonanze e reminiscenze della profonda e multiforme cultura (volgare, classica, cristiana, pagana, medievale); forte valenza simbolica di molti termini; continuo rinnovamento semantico, fanno di essa una lingua elegante e un inevitabile punto di riferimento per gli studiosi.
Che la terra gli sia leggiera.
Ladim
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Intervento di Ladim »

Continuerei le sue opportune considerazioni... per una conversazione rara quanto piacevole...

Parte della grandezza del Petrarca, a dire il vero, risiederebbe proprio in ciò che adombrerebbero quegli "anti"; tuttavia andrebbero considerati per quello che più esattamente vorrebbero significare anche per lo stesso Contini. Volendo rendere giustizia sia al Petrarca sia al grande studioso della sua «lingua» (direi immediatamente al più significativo critico letterario e no dei nostri tempi), forse bisognerebbe trascrivere (più o meno testualmente) una considerazione dello stesso Contini, anche per isolare meglio lo stile petrarchesco: per Petrarca «il volgare è solo sede di esperienze assolute». Naturalmente, e non a caso, Contini propose uno studio sulla «lingua» petrarchesca avendo alla mente l'esempio dell'Alighieri - una soluzione straordinariamente "economica" sotto il profilo euristico: parlando dell'uno ha chiarito l'altro, e se l'altro a buon diritto ancora oggi può inquadrarsi nella categoria continiana di "espressionismo linguistico", allora l'uno sarà immediatamente anti-espressionistico, senza togliere niente al merito di ciò che la sua «lingua» ha ottenuto. Altrettanto direi per l'antirealismo, altrimenti incomprensibile se non ricondotto alla vivacità espressiva dantesca (del resto lo stesso Contini proporrebbe infine un'analisi sul "plurilinguismo" petrarchesco in relazione allo stile del solo Petrarca)... Insomma, Petrarca è ottimo esattamente quanto Dante, e se il primo ci può aiutare a comprendere meglio la dimensione plurilinguistica, la «poliglottia degli stili», la pluralità degli strati lessicali del secondo, quest'ultimo ci rende estremamente percepibile la straordinaria, la sublime "medietà" petrarchesca.

Infine la lingua del Petrarca ancora oggi andrebbe considerata priva di moto, una lingua trascelta, forse anche imbalsamata, assente, isolata in una dimensione altra, preziosa nella misura in cui respinge tutto ciò che è concreto, materiale, ancora con Contini, una lingua costituita di «oggetti eterni sottratti alla mutabilità della storia» etc.; ma solo partendo da queste premesse è possibile comprendere, io credo, la reale grandezza della sua poesia. Ho sempre considerato un buon punto di partenza, un ottimo "reagente" interpretativo, con Petrarca, rilevare di volta in volta il contrasto tra il controllo formale-linguistico pressoché "perfetto" e, direi, la totale intemperanza della coscienza dell'uomo, quest'ultimo incapace di vincere sé stesso, se non provvisoriamente, illusoriamente, in ultima analisi soltanto per prendere migliore consapevolezza della propria fragilità.

...Che le sue pagine lo siano ancora di più.
atticus
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Intervento di atticus »

La lingua di Francesco Petrarca «tende a diventare l'Idea di una lingua -scrive E. Gioanola- esattamente come Laura diventa l'Idea di Laura».
Certo -aggiungo- vista cosí, appare una lingua poco o punto referenziale, adatta a esprimere esperienze assolute (nulla di realistico, insomma); ragion per cui a un certo momento essa lingua pare al lettore stalattificarsi. Si arriva al punto che ogni parola non vale per ciò che significa, ma per come suona. Qui sta quello che mi permetto di definire il "monotòno" petrarchesco.
Siamo -e chiudo- di fronte a un artista alla continua ricerca dell'armonia, trovata spesso giusto in quel ricorrere ostinato alle antitesi (specchio della sua anima).
Alla luce di ciò, come si fa a trascurare pezzi della nostra gloriosissima tradizione senza trascurare noi stessi?
Eppure, di Petrarca ormai parlan pochi. Forse perché oggi si hanno «case di famiglie vòte» e nessuno è piú certo «de la sua sepultura»?
Ladim
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Intervento di Ladim »

Apro a caso il Canzoniere, e trascrivo le quartine del sonetto 39°...

«Io temo sì de' begli occhi l'assalto
ne' quali Amor et la mia morte alberga,
ch'i' fuggo lor come fanciul la verga,
et gran tempo è ch'i' presi il primier salto.
Da ora innanzi faticoso od alto
loco non fia, dove 'l voler non s'erga
per no scontrar chi miei sensi disperga
lassando come suol me freddo smalto
»

e trovo una buona applicazione della "monotonia" da lei segnalata; specie una monotonia prosodica: le due quartine auspicabilmente ribadiscono la stessa sequenza endecasillabica, vale a dire tre a minore più un a majore (isolando così i secondi emistichi, rilevanti per giacitura e per senso, dei vv. 4 e 8, «il primier salto» e «[me] freddo smalto»); l'effetto ottenuto è paragonabile alla mirabile musicalità di alcuni saggi di genio mozartiano: una sorta di "onda lunga" sospinta da una corrente in qualche modo assoluta, sprofondata. Tuttavia la "referenzialità" è ben precisabile: gli oggetti esemplificati sono facilmente (a una prima lettura, anche se ingenua) individuabili, entro il regesto dei realia petrarcheschi (fuori dell'occasione che avrebbe, molto probabilmente, suggerito la composizione dello stesso sonetto): occhi, fanciul, verga, salto, loco, alto, sensi, smalto; ma anche i più metaforici sanno chiarire bene il loro referente: Amor, assalto, morte, fuggo, faticoso, voler, disperga, freddo... Ma si tratterebbe, come giustamente lei stesso ha elegantemente annotato, già di una referenzialità assoluta, ad ogni modo "autoreferenziale". Insomma, il mondo "intero" diventerebbe potenzialmente oggetto della sensibilità petrarchesca (anche lo stesso mondo letterario - condensato in quella citazione dell'Arnaut Daniel al v. 3 - parteciperebbe in primis), un mondo che è soprattutto strumento di un linguaggio goffamente reboante, il quale richiederebbe tale un raffinamento linguistico da consentire solo così al lettore un'attenzione costante su ciò che davvero interessa al poeta (la fuga da quel che cerca!). L'«Amor», allora, sarebbe sì l'amore, ma «solo» quello petrarchesco, absolutus, liberato da ogni altro amore che non sia solo il suo (solo per "Laura"!); come il «loco» (il medesimo in cui sempre il «vestigio uman la rena [non] stampi»), che sarebbe un locus petrarchesco e di nessun altro etc.

Nel nostro piccolo, abbiamo contribuito (forse) a parlare ancora un poco del Petrarca...
Ultima modifica di Ladim in data mar, 21 dic 2004 23:59, modificato 1 volta in totale.
atticus
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Intervento di atticus »

Certo! E, nel mio piccolo, dico che Lei lo ha fatto magistralmente.
Avatara utente
arianna
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Dante e Petrarca

Intervento di arianna »

Salve. Rileggendo il discorso sulla lingua di Petrarca e il confronto con Dante ho trovato un discorso di critica letteraria dello storiografo Pietro Bembo. Costui, dopo aver stabilito la superiorità del toscano di tipo fiorentino, si propone di distinguere quali siano i più alti esempi di scrittura e di stile. E' un discorso critico-letterario e di poetica che giudica gli scrittori del passato. Secondo il Bembo, che rifiuta nettamente il plurilingiusmo dantesco (la mescolanza di stili che appare estranea rispetto all'ideale di equilibrio e di misura proprio del classicismo rinascimentale), Petrarca, col suo stile uniforme e scorrevole, elevato e raffinato, dimostra d'esser superiore a Dante. Secondo l'autore quindi lo stile deve adattarsi alla materia trattata. (Tratto dalla Prosa della volgar lingua). Ho "portato" questo storiografo come esempio che, a mio avviso, Dante quanto Petrarca hanno avuto e continuano ad avere molti estimatori, ma trovo assurda l'idea di un paragone tra i due poeti. L'uno infatti è da ammirare per la ricchezza del suo poema allegorico, didattico e plurilinguistico; l'altro va sicuramente ricordato per il suo stile raffinato e musicale. Sono, e qui concludo, due personaggi da ammirare per quello che ci hanno apportato, e non da paragonare.
Felice chi con ali vigorose
le spalle alla noia e ai vasti affanni
che opprimono col peso la nebbiosa vita
si eleva verso campi sereni e luminosi!
___________

Arianna
Ladim
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Iscritto in data: lun, 08 nov 2004 14:36

Intervento di Ladim »

Bisogna distinguere il giudizio estetico da quello di conoscenza. Al primo (che è il suo, come di Bembo) spettano considerazioni in certo modo arbitrarie, idiosincrasiche etc.; al secondo, argomentazioni di carattere «esemplificazionale», vigilate da erudite e controllate "ipotesi di lavoro" (che è il caso di Contini) etc. Se il primo è lo strumento necessario attraverso il quale impariamo a comprendere la bellezza della nostra sensibilità, il secondo è il sudato esito di uno studio assiduo e, per dirla con Michele Barbi, di una «felice disposizione» difficilmente acquisibile... Insomma, per i giudizi di conoscenza i confronti hanno un importante valore euristico: non solo sono consigliabili, ma direi fondamentali. Per il giudizio estetico, nessuno può dirLe niente (e, in questi termini, il suo parere in proposito [come quello di Bembo] può essere pacificamente condivisibile; soltanto sia consapevole che qui i «paragoni» non dicono altro se non i gusti personali del lettore)...
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