Dedit hanc contagio labem et dabit in plures

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Ladim
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Iscritto in data: lun, 08 nov 2004 14:36

Dedit hanc contagio labem et dabit in plures

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Quel che rende questo luogo di cognizione linguistica [Cruscate] un momento di ragionata evasione non è soltanto l’argomento congeniale, l’educata conoscenza dei suoi frequentatori e il garbo dei petenti, ma è soprattutto l’implicita apologia di una ‘forma’ che nella lingua ha la sua massima (e forse unica) ipostasi, qui ubiqua. Nelle precisazioni e correzioni che leggo, ancora nei frizzi o nella necessità chiarificatrice vedo il contrario di quello che nella rete e nella generalità contemporanea alligna e tutto metamorfizza. Forse il demone della crisi parla per me, forse il pretesto, umile e dabbene, di questo intervento condiziona la mia penna, ed è comunque un trastullo quello che vi propongo, specie se mi affido a toni trasversali e apocalittici.

Ad ogni modo: era ieri che assistevo ottusamente all'animoso rituale di una tribuna politica, su una delle tre reti nazionali, in cui altri ‘spettatori’, non si sa più perché considerati autorevoli e quindi legittimati nelle loro opinioni, discutevano della difficoltà economica e anche della calante moralità dei nostri ‘eletti’; ed ecco che dalla bocca di un’autorevole economista sento pronunciata una parola strana, questa volta introdotta da una perifrasi sfacciatamente sorridente:
questa cosa [cioè vendere immobili dello Stato per monetizzare, pagando tuttavia un affitto per lo stesso immobile che graverà sulla prossima legislatura – ma l’argomento è per noi accessorio] che si chiama *** [anglicismo non memorizzato], e che quindi ha anche la nobiltà di una parola inglese...
... il gesto compiaciuto, l’ammiccante sicumera, quindi la regressione linguistica di cui ormai possediamo una perfetta notizia, così manifesti e istantanei, mi hanno spinto nuovamente in questo rifugio, a ricordare, per un’impreveduta associazione, un pensiero [sì] autorevole del secolo scorso, e che mi pare opportuno sottoporvi:
Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e d’immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizza dallo scontro delle parole con nuove circostanze.
Più avanti [trascrivo dalle Lezioni americane di Italo Calvino], stesso scritto, si ragiona delle «immagini», di quelle ovviamente ‘trasmesse’ e inconsistenti, troppo facili per lasciare di sé un senso autenticamente culturale e umano:
[...] quale sarà il futuro dell’immaginazione individuale in quella che si usa chiamare «civiltà dell’immagine»? Il potere di evocare immagini in assenza continuerà a svilupparsi in un’umanità sempre più inondata dal diluvio delle immagini prefabbricate? Una volta la memoria visiva d’un individuo era limitata al patrimonio delle sue esperienze dirette e a un ridotto repertorio d’immagini riflesse dalla cultura; la possibilità di dar forma a miti personali nasceva dal modo in cui i frammenti di questa memoria si combinavano tra loro in accostamenti inattesi e suggestivi. Oggi siamo bombardati da una tale quantità d’immagini da non saper più distinguere l’esperienza diretta da ciò che abbiamo visto per pochi secondi alla televisione. La memoria è ricoperta da strati di frantumi d’immagini come un deposito di spazzatura, dove è sempre più difficile che una figura tra le tante riesca ad acquisire rilievo.
Calvino era uno scrittore, ed è facile comprendere perché, in lui, la «parola» si debba sovrapporre senz’altro all’«immagine»; e anche se non è un argomento letterario quello a cui mi rivolgo, sarebbe ancora più facile afferrare, per me, come mai il parere di uno scrittore, a tal proposito, possa essere più interessante di quello di un qualsiasi linguista. Dunque parliamo di un linguaggio contemporaneo, determinato da nuove regole, e dell'uso che si fa di esso specie nel «diluvio» dei media, responsabili del neo analfabetismo. La proposta di specillare il forestierismo, e cioè il prestito dall’inglese, e di attribuirgli questo statuto epidemico è mia completamente; eppure, anche fuori del presente trastullo, forse non sembrerebbe un’attribuzione azzardata.

Poco dopo essermi sorbito quella tribuna politica, mi sorprendo nel vedere racchiusa nello stesso schermo la figura incanutita di Noam Chomsky, che ribadisce una critica trasparente e condivisibile, vale a dire che la televisione, con lo stesso riconoscimento economico per cui oggi si può tutto, deve rivolgersi perennemente alla fascia più giovane e vulnerabile della società, con l’intento di perpetuarne la vulnerabilità e la giovinezza, e quindi determinare un’endemica immaturità, tutto per fare d’individui persone e di persone clienti – così si capisce perché la televisione solo raramente, e in orari impossibili, trasmetterebbe brevi tracce di «maturità», a quanto pare pericolosissima per la nostra economia.

Ricordo un’ultima volta Montale, quando disse che gli analfabeti di oggi si distinguono da quelli di ieri perché hanno imparato a leggere.
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