«Professora» e «sindaca». La grammatica della parità.

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«Professora» e «sindaca». La grammatica della parità.

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Paolo Di Stefano, nei blog del Corriere della Sera ("La 27esima ora") scrive oggi:

«Professora» e «sindaca». La grammatica della parità.
Non chiamate professoressa Patrizia Romito, docente dell’Università di Trieste, esperta in tema di violenza sulle donne e delegata del Comitato universitario Pari opportunità. Lei chiede di essere definita «professora», anzi senza virgolette: professora. Da almeno un anno, Trieste è un’avanguardia della battaglia per le differenze linguistiche di genere e adesso l’ateneo ha stilato una «Dichiarazione d’intenti per la condivisione di buone pratiche non discriminatorie della lingua italiana»: hanno aderito l’Università di Udine e la Scuola superiore di studi avanzati di Trieste. Ma anche il Comune, grazie all’assessora e vicesindaca Fabiana Martini, che ci tiene alla declinazione femminile delle sue cariche. La premessa è questa: se è possibile utilizzare forme linguistiche non sessiste senza violare la grammatica e la sintassi, usiamole.

Il proposito, tra i tanti, è quello di sensibilizzare alla cultura di genere attraverso un’attenzione particolare al linguaggio. «Attenzione» è la parola chiave, perché vorrebbe invitare a sradicare antichi cliché ed eredità lessicali o sintattiche provenienti da una storia culturale tutta coniugata al maschile. Per esempio, un uso linguistico che non preveda la presenza femminile è in tutta evidenza censurabile: il caso più frequente è l’espressione «Gentili Signori» in apertura di una conferenza che escludendo a priori un’interlocuzione femminile non si può liquidare soltanto come una forma di maleducazione. Ne discendono dunque, nel documento dell’ateneo triestino, alcune «linee guida» con la richiesta che vengano adottate sistematicamente nei documenti ufficiali interni. L’iniziativa è toccata a Sergia Adamo, ricercatrice di Italianistica, filosofa del linguaggio e traduttrice: è stata proprio la traduzione dall’inglese di teoriche del femminismo e studiose di genere come Judith Butler e Gayatri Chakravorty Spivak a spingerla a interrogarsi su alcune soluzioni linguistiche italiane.

Si parte dalle cosiddette «dissimmetrie grammaticali» che adottano, appunto, il maschile in forma «inclusiva»: «buongiorno ragazzi» invece di «buongiorno ragazzi e ragazze». Ma la questione si fa più delicata nelle concordanze verbali, dove di solito viene data la prevalenza al maschile, come nei casi: «Studenti e studentesse sono stati premiati per le loro tesi di laurea». Niente esclude, secondo le regole grammaticali, di concordare il verbo al femminile, anche se le abitudini sono dure a morire. Dunque: «Sono state premiate ». E portando questo principio alle sue estreme conseguenze, si potrebbe arrivare a composizioni sintattiche tipo: «Giorgio e Adele sono venute a trovarmi», del resto già adottato nella saggistica femminista, gay e lesbica. Per ovviare alle ambiguità, c’è chi sostiene autorevolmente l’opportunità, nella redazione di testi ufficiali, di sostituire la desinenza con un asterisco. Per cui nel migliore dei documenti possibili si avrebbe, per esempio: «Studentesse e studenti sono invitat* a presentarsi…». Il dibattito è aperto (un convegno sull’asterisco si è tenuto a Zurigo) e l’uso della formula onnicomprensiva «professor*» è già praticato, con il vantaggio di riconoscere anche altre possibilità di genere, oltre al maschile e al femminile.

Altra questione dibattuta (ma ormai neanche tanto) è quella che riguarda i titoli o i ruoli istituzionali. Qualche mese fa fu nominata una donna, Maria Rosaria Maiorino, a capo della Questura di Palermo e fu sdoganata la «questora». È stata l’Accademia della Crusca ad auspicare l’uso del genere grammaticale femminile nei casi di qualifiche pubbliche o professionali. Dunque: «la ministra», «la deputata», «la sindaca», «l’assessora», «la presidente», «la chirurga», «l’avvocata», «la giudice», «l’architetta» non si discutono più e farebbero bene ad adottarle anche i giornali.

Preferibile abolire il suffisso «-essa», che certe sensibilità avvertono lievemente offensivo, come vuole la professora Romito. Irrispettoso tout court è l’articolo che accompagna il cognome: consigliabile dunque per il galateo linguistico è dire «Boldrini» e non «la Boldrini». Il motto è: «evitare dissimmetrie», suggerisce Adamo, la quale però, benché combatta in prima linea, preferisce ancora dirsi «professoressa» e parlare di «poetesse» e non di «poete». Certo, anche in ambiti prestigiosi, resistono le donne legate al buon vecchio uso del maschile come status . E se è vero che la sindaca di Lampedusa Giusi Nicolini chiede di essere chiamata «sindaco», anche la rettrice (o la rettora?) dell’Università Milano-Bicocca si dissocia e preferisce firmare come «il rettore Cristina Messa». A loro parziale consolazione, c’è il fatto che ogni dichiarazione d’intenti dovrà vedersela con la pratica.


http://27esimaora.corriere.it/articolo/ ... la-parita/
PersOnLine
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Intervento di PersOnLine »

Fortuna che premettono "senza violare la grammatica e la sintassi", e poi "[n]iente esclude, secondo le regole grammaticali, di concordare il verbo al femminile", oramai siamo al talebanismo linguistico.
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Marco1971
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Iscritto in data: gio, 04 nov 2004 12:37

Intervento di Marco1971 »

Ci sono diversi filoni su questo argomento. Grazie a chi avrà la pazienza di dare i collegamenti (io non posso in questo momento).
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Ferdinand Bardamu
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Intervento di Ferdinand Bardamu »

Il filone principale sull’argomento è questo.
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