La donna negli «uffici»

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Marco1971
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La donna negli «uffici»

Intervento di Marco1971 »

Comincio con una lunga citazione, da Si dice o non si dice di Aldo Gabrielli (Milano, Mondadori, 1976, pp. 93-96):

«Sindachessa, ambasciatrice…

Altra domanda che molti si fanno, e che i dizionari al solito non risolvono: un sindaco in sottana è una sindachessa o resta sindaco? Un avvocato che si chiama Maria o Maddalena resta avvocato o si tramuta in avvocatessa?
Ricordo le chiacchiere che si profusero quando, per la prima volta al mondo (almeno cosí credo), fu nominato come ambasciatore americano a Roma una donna, la squisita signora Clara Boothe Luce. Nessuno osava chiamarla ambasciatrice; ma tutti “l’ambasciatore Clara Luce” e allora venivan fuori cosette davvero amene, come quella volta che un giornale, nel resoconto di una serata di gala, avvertí compiaciuto che l’ambasciatore americano era intervenuto indossando “un superbo abito di seta color malva molto scollato”, e un altro giornale parlò imperterrito del “marito dell’ambasciatore americano a Roma”, alludendo all’editore Henry Luce, coniuge di Clara. Di fronte a queste baggianate, la logica e la grammatica ebbero alla fine la meglio; e finalmente si sentí dire e si vide stampato l’ambasciatrice Clara Luce.
Voglio dire che per me, che cerco di ragionare sempre a fil di logica, appunto, e di grammatica, certi problemi, come questi del sindaco e della sindachessa, dell’ambasciatore e dell’ambasciatrice, non si pongono neppure. La grammatica insegna una cosa elementare: che per gli uomini esiste un maschile e per le donne un femminile. Non si può fare eccezione per un sindaco o per un ambasciatore. Il fatto è che certe svolte sociali, come oggi si ama dire, portano sempre con sé perplessità e discussioni in ogni campo. Sentite questa, che è storica. Un tempo, tutti i pittori erano maschi, almeno quelli celebri, quelli noti. Ma ecco che tra il Seicento e il Settecento spuntano due astri pittorici femminili, Artemisia Gentileschi e, mezzo secolo piú tardi[,] Rosalba Carriera. Fin allora s’era usata la sola parola pittore (con le varianti piú antiche dipintore e pintore); ora bisognò classificare anche queste donne artiste, e sorse il problema linguistico: come definirle? Il latino classico non suggeriva niente in proposito, offriva solo pictor, pictoris maschile. Esisteva però un aggettivo femminile, pictrix, pictricis, creato nel basso latino: si diceva, per esempio, natura pictrix, natura pittrice; e a questo aggettivo si rifecero i letterati dell’epoca sostantivandolo, e dissero la pittrice Artemisia Gentileschi, la pittrice Rosalba Carriera. Da allora pittrice al femminile diventò comune nell’uso, e nessuno oggi penserebbe di poter dire che la Gentileschi e la Carriera furono “due celebri pittori”.
Solo un centinaio d’anni fa o poco piú, le donne non esercitavano nessuna pubblica professione, e assai rare erano pure le professioni private, sí che i nomi professionali eran tutti maschili. Oggi chi discuterebbe sull’appellativo di maestra da dare a un’insegnante di scuola elementare? Arrivarono poi le professoresse, arrivarono le dottoresse e le medichesse e le ragioniere, e oggi nessuno piú si meraviglia di questi appellativi. Non riesco davvero a capire la perplessità soprattutto di certi giornalisti di fronte a questi problemi che non esito a definire elementari. Un giorno eleggono al senato una donna, e nelle redazioni si crea lo smarrimento. Com’è il femminile di senatore? Si può dire il senatore Merlin? Nessuno pensa che i nomi in -tore fanno normalmente in -trice, come da imperatore si fa imperatrice; alla fine, è vero, spunta il femminile senatrice, ma ce n’è voluto del tempo e del coraggio per decidersi ad appiccicarlo al nome di una donna.
Si è letto anche di donna e donne deputato; ma perché non dire subito la deputata, le deputate? Da una terminazione maschile in -o nasce regolarmente un femminile in -a: dunque deputata; tanto piú che qui si tratta di un participio passato del verbo deputare: cioè persona deputata a rappresentare in parlamento un certo numero di elettori. Una donna che abbia ottenuto questo incarico non può essere che una deputata, e non una deputatessa, come alcuni anche oggi insistono a dire.
Per avvocato, la stessa cosa: altro participio passato, questo di origine latina: advocatus, da advocare, chiamare presso, cioè persona chiamata presso chi deve essere assistito in un giudizio, propriamente assistente, protettore. Maschile in -o, femminile in -a: avvocata, e niente avvocatessa (del resto avvocata nostra, nel senso di “divina protettrice” si recita da secoli nelle preghiere come attributo della Madonna).
Mi torna ora alla mente la perplessità di un presentatore televisivo quando doveva rivolgersi al notaio per risolvere qualche problemuccio procedurale; finché questo notaio fu maschio, tutto semplice: “Signor notaio”; ma un giorno allo stesso tavolino giudicante misero una donna, ed ecco il presentatore domandarsi: notaio o notaia? Poi risoluto spaccò salomonicamente il problema a mezzo e disse: “Signora notaio”. Non pensò che i sostantivi in -aio fanno al femminile -aia, che dal cartolaio si fa la cartolaia, dal fornaio si fa la fornaia, dal lavandaio la lavandaia, e che dicendo signora notaia si evitava di mandare a gambe all’aria la grammatica.
E non parliamo dei ministri in gonnella. L’orgasmo linguistico cominciò quando fu nominata all’alta carica di primo ministro una gentile signora indiana. Ch’io sappia, nessuno ha mai tentato di chiamarla ministra; eppure la grammatica dice che il femminile di sinistro, per esempio, è sinistra.
Qualcuno obietta: esistono da tempo, è vero, alcuni femminili di nomi indicanti professioni, ma usati solo per designare la moglie di chi questa professione esercita. È un ragionamento che non cambia di un pelo la questione. Se ambasciatrice e sindachessa e ministra si usavano fino a ieri per indicare la moglie dell’ambasciatore, del sindaco e del ministro (si usava anche ministressa, ma con valore ironico o scherzoso), che cosa impedisce, dal punto di vista grammaticale, che gli stessi femminili si trasferiscano alle donne titolari delle stesse cariche?
S’intende, e sia ben chiaro, che il maschile resta maschile quando si voglia impersonalmente indicare la carica, il titolo in sé: “La signora tale è stata nominata sindaco di Spello”, “Come ministro sceglieranno la figlia di Nehru”. Ma solo in questo caso.»

Che ne pensate? Per chi legge il francese, l’Académie française è risolutamente opposta alla femminilizzazione:
http://academie-francaise.fr/actualites ... sation.asp

E Luca Serianni, in modo piú sottile e sfumato:
http://www.accademiadellacrusca.it/faq/ ... &ctg_id=44

Qualunque siano le diverse posizioni in materia, non potremo influenzare l’uso; ma troverei molto interessante sentire i vostri pareri (anche per chiarire il mio!). ;)
atticus
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Intervento di atticus »

Il ragionamento fila. C'è poco da aggiungere.
Il grande Giorgio Pasquali scriveva "insegnantessa", dando cosí ragione a Lei, egregio Marco.
Giacché ha nominato Aldo Gabrielli, mi piace ricordare che egli rifiutava il titolo di "avvocata" per le donne; diceva che, a usarlo, gli pareva si facesse un affronto alla Madonna, unica avvocata doc.
Femminilizziamo, pertanto, tutti i nomi. Non vogliamo mica azzuffarci col gentil sesso! E poi: in tempi di parità, quel che è giusto, è giusto. Però...
Se volessimo giocare un po' con la lingua (guai a farlo! Mal me ne colse, quando -da "scout"- timidamente osai proporlo), mi verrebbe da domandarLe: come la mettiamo con «la ministra che amministra»? E con "perita"? «La signora è perita», nel senso che ha il diploma di perito chimico, sarà meglio spiegarlo o no? E con «la medica che medica a prezzo modico»?
Rompicapo di non facile soluzione. Anche perché l'architetta e le architette, con tutte quelle "tette" se ne staranno al posto loro, o prenderanno ad agitarsi?
Che poi è spettacolo non proprio da buttare.
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Marco1971
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Nomi femminili di professione

Intervento di Marco1971 »

Ma il ragionamento, caro atticus, è quello del Gabrielli, non il mio — tengo a precisarlo — e il nostro Aldo era a favore di avvocata, come si può leggere nella citazione.

La paronimia, la paronomasia, le allitterazioni e le assonanze si possono creare o possono avvenire nel discorso, anche con effetti di stile, ma non mi sembra che ciò rientri specificamente nell’oggetto.

Apprezzo, non ne dubiti, i giochi di parole, e la ringrazio di cuore d’avermi risposto prontamente. Tuttavia, non era questo il senso della mia domanda (ammetto però di non essere sicuro d’aver ben compreso il suo messaggio).

Attendo altri pareri sulla questione della femminilizzazione dei nomi di professione.
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Incarcato
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Intervento di Incarcato »

Calandosi nella prospettiva puramente grammaticale, il problema non sussiste: ogni nome di professione (lato sensu) va declinato secondo il genere di colui/colei che svolge quella precisa mansione, nient'altro.

Tuttavia, davvero questo è un problema che investe la visione del rapporto tra i sessi nella società moderna, in particolare il ruolo della donna. Dover dire: «quella dottoressa è molto in gamba», oppure «la senatrice ha sbaragliato l'opposizione col suo interevento» a noi paiono oggi frasi del tutto normali, ma quando quei termini comparirono la prima volta, il dover cambiar genere a tutta una lista di sostantivi non parve consueto.
Lo scrivere acuisce la consapevolezza di ciò di cui si scrive, e femminilizzare parole che indicavano l'appannaggio della classe maschile sul principio fece scalpore perché rendeva manifesta la necessità di cambiare qualcosa perché qualcosa era già cambiata. Potrebbe essere una prova a sostegno di quanto dico che la casistica delle parole «problematiche» siano professioni «alte»: cariche civili (presidente, sindaco, deputato, senatore, ambasciatore etc.), ordini professionali storicamente borghesi (e l'ideale borghese non contemplava il ruolo attivo della donna) (dottore, medico, avvocato, notaio etc.); tra breve prevedo anche l'ingresso nel club delle gerarchie militari (generalessa?, colonnella??, tenente[ssa]??, sergente[ssa]??, caporale[ssa]???, etc.).

Sui giochi di parole, in buona misura questi esistevano anche prima (il perito che perisce, io [medico] che medico il medico etc.). Questo non lo credo un problema. A proposito di gerarchie militari... e se si dovesse far presente a qualcuno che in occasione delle grandi manovre l'ammiraglio è sull'ammiraglia?... ma la nave oppure...; che manovre?... :shock:

Ritornando serî, io per il momento preferirei l'approccio caso per caso o per macroclassi.
Per cui i maschili in-tore facciano pure -trice al femminile, benissimo. Fin qui mi sentirei sicuro di quello che dico. Però sindachessa non suona. Visto che Marco dice che non possiamo influenzare l'uso, mi lancio in una proposta avventata, che concili l'eufonia colla parità dei sessi: eliminare – laddove possibile – quelle parole che hanno un pessimo suono al femminile e sostituirle con altre che siano meglio declinabili a maggor gloria della lingua italiana e del gentil sesso.
atticus
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Intervento di atticus »

In proposito, scriveva Tristano Bolelli (Lingua italiana cercasi, Longanesi, 1987):
«Tale situazione [intervenire sui nomi che designano nuove funzioni o funzioni assunte dalle donne, Ndr] è un prodotto della storia e non è possibile prescindere da ciò che la storia ci ha dato. Intervenire, se pure qualcuno ne ha l'intenzione, non pare davvero possibile, tanto piú che la lingua, a lungo andare, si vendica. [...] Insomma, non è con le strutture grammaticali e del vocabolario che si difendono i giusti diritti delle donne».
Condivido in parte.
La storia, tanto per dire, ci ha anche tramandato "judicissa", donde "giudicessa" (meglio "giudice", comunque).
Dico che tutto si può fare (e si può dire), purché non si cada nel ridicolo. E purché si rammenti che la lingua ha, almeno in parte, una vita propria.
Dunque, ben vengano ingegnera deputata avvocata marescialla colonnella e generala-generalessa, pugilessa, lottatora (se usa i muscoli) o lottatrice (se usa il cervello), fantina e sindachessa, ministra, perita. E sia benvenuta sinanco l'architetta. Qualcuna di queste creature sarà immortale, qualcun'altra effimera. All'uso l'ultima parola.
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Vi ringrazio, atticus e incarcato, per i vostri pertinenti contributi. Secondo me il sentimento di alcune donne di essere «sminuite» se chiamate «avvocate» o «ministre» è del tutto irrazionale, sebbene comprensibile, fino a un certo punto (il «prestigio» dell’appellativo maschile); è anche vero, inoltre, che i rapporti tra genere grammaticale e genere sessuale non sono perfetti: si pensi a parole come guida, sentinella, sosia, ecc., sempre femminili o sempre maschili a prescindere dal sesso della persona. Sarebbe dunque meglio lasciare al maschile i nomi di professione, a meno che l’uso sancisca alcune femminilizzazioni?

Giovanni Nencioni, già presidente dell’Accademia della Crusca, cosí si espresse in un numero della Crusca per voi:

«[...] le denominazioni professionali al femminile s’impongono come conseguenza di un moto spontaneo della società moderna e rispondono a esigenze di certezza e uniformità terminologica degli ordini professionali, artigianali e della legislazione. L’attuale indecisione dell’uso (ad es. tra avvocato, avvocata e avvocatessa, o tra medico, medica e medichessa) è la conseguenza di una improvvisa e positiva crisi di crescenza della nostra società, alla quale l’inerzia dell’istituto linguistico stenta ad adeguarsi; crisi che sarà certamente superata dall’uso spontaneo degli ambienti di lavoro o da quello ufficialmente adottato dagli ordini professionali e dalla normativa. Chi lamenta l’eccessiva inerzia della lingua rispetto al ritmo dello sviluppo sociale e culturale deve riflettere che quella resistenza è una garanzia di sicurezza comunicativa orizzontale e verticale.»

E, discorso piú generale sull’imposizione dall’alto, che conclude l’articolo:

«In terzo luogo, con l’aver adottato il criterio metodologico di illustrare l’origine e la ragione delle crisi e dei problemi della lingua mettendo i lettori in grado di orientarsi alle soluzioni, piuttosto che dettar loro le troppo invocate “norme” risolutive; e col conseguente impegno in proprio di evitare il ricorso a norme autoritarie, che cioè provengano dall’esterno della lingua, specie quando esse investano una intera parte del sistema linguistico, provocando forti differenze tra gli utenti e togliendo alla lingua naturale una parte della sua pur difettosa naturalezza. Naturalezza che è bene proteggere contro un mondo procreatore di “codici” artificiali e cultore della violenza piú sottile, quella intellettuale.»

Lasciamo, adunque, che sia l’uso spontaneo di locutori informati a risolvere, col tempo, le odierne oscillazioni.
Uri Burton
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Iscritto in data: mar, 28 dic 2004 6:54

AMBASCIATRICE

Intervento di Uri Burton »

Conoscevo la nota di Aldo Gabrielli, e nel rileggerla mi sono divertito a immaginare il pezzo di cronaca che il nostro ci avrebbe regalato come esempio se gli avessero detto chi era l’amante di Clare Boothe Luce. «L’ambasciatore americano presso il Quirinale se l’intende con l’ex ambasciatore americano presso Sua Maestà Britannica. . .» Sì, perché come adesso si sa adesso e allora non si sapeva la signora Luce, commediografa di successo e moglie del fondatore delle riviste «Time», «Fortune» e «Life», faceva manina e non solo manina con Joseph Patrick Kennedy, padre del presidente assassinato a Dallas.

Credo a ogni modo che il ricorso alla forma per il femminile incontrerebbe in molti casi vivaci resistenze, specie agli Esteri. Ambasciatrice è la moglie dell’ambasciatore. Non solo nei ricevimenti ufficiali ma anche nei salotti e negli incontri amichevoli dignitari, conoscenti e amici e amiche si rivolgono a lei usando la parola come appellativo. Perfino chi le dà del tu. «Buon giorno, ambasciatrice.» «Ambasciatrice, posso presentarle il direttore del British Council?» «Come stai, ambasciatrice?» Negli anni cinquanta alle italiane era preclusa la «carriera»; ora no. Le donne entrano in diplomazia, e la brillante signora che raggiunge il grado di ambasciatore vuole distinguersi dalla moglie del collega.

Ed eccomi a un altro punto. È sicuro che le donne preferiscano essere definite avvocatesse invece che avvocati, dottoresse invece che dottori, generalesse (quando ci diventeranno) invece che generali e così via? Per generalessa c’è un precedente: nella seconda guerra mondiale, durante l’occupazione alleata al Sud e l’occupazione tedesca al Nord, la stampa italiana chiamava generalessa sia la comandante delle ausiliarie americane, sia la comandante delle ausiliarie della Repubblica sociale. Si tratta tuttavia d’un precedente ormai dimenticato; senza dire poi che, volti al femminile, alcuni gradi militari (capitana di vascello, tanto per dirne uno) fanno ridere.

Rimaniamo quindi con avvocatessa, dottoressa e professoressa, che rientrano in una lunga, ininterrotta tradizione. Pure qui siamo però lontani dalla necessaria comunità d’intenti. Perché le femministe manifestano un atteggiamento contrastante: non vogliono la forma maschile o la forma femminile; vogliono la forma che, a loro avviso, dia l’idea di una raggiunta assoluta parità fra i sessi. In altre parole siamo di fronte a predilezioni contraddittorie, e le rimostranze delle femministe inglesi ce ne offrono una testimonianza inconfutabile: «mayoress» (donna eletta alla carica di sindaco) va bene, ma per qualche oscuro motivo «authoress» (autrice) è considerato discriminatorio.
CarloB
Interventi: 444
Iscritto in data: mar, 01 feb 2005 18:23

Prorettore/prorettrice

Intervento di CarloB »

Porto una testimonianza. Chiedendo un colloquio con la (per me) prorettrice, mi sono sentito regolarmente rispondere (dalle segretarie) "la prorettore". Come se la versione del nome al femminile fosse una diminutio capitis. E' una questione di "politically correct", temo.
Cordiali saluti a tutti
ann
Interventi: 115
Iscritto in data: ven, 04 feb 2005 10:59

Intervento di ann »

Questo è un tema che mi tiene molto a cuore e sfortunatamente non ho tempo per rispondere adesso in un modo approfondito anche perché ci metto tanto per scrivere in italiano. Ho già scritto un articolo diversi anni fa su femminismo e dizionari e lavoro tutt’ora su questo argomento per quanto riguarda il francese – e le diverse politiche adottate dai diversi paesi francofoni a questo proposito (mi interessa sopratutto sapere il ruolo che ha e dovrebbe avere il lessicografo nel descrivere il “sessismo” della lingua, quando deve decidere se integrare o no nella sua nomenclatura delle parole che sono state proposte ma che non vengono usate o al contrario delle parole o espressioni usate ma evidentemente sessiste). La risposta dell’accademia francese a questo proposito non è “definitiva” e numerose sono tutt'ora le discussioni sulla femminizzazione dei nomi di professioni in Francia (e l’intervento di Josette Rey Debove in questo dibattito è stato particolarmente importante). La mia posizione è cambiata in tutto ciò in questi ultimi anni. Ero a favore come Marco (se ho capito bene la sua posizione al riguardo) di lasciare l’uso decidere. Ma invecchiando uno diventa qualche volta più radicale e l’azione volontaristica (si dice così?) sulla lingua mi sembra una cosa forse non naturale ma qualche volta necessaria e in questo caso è importante. Importante per una bambina sapere che un avvocato, un ministro non sono necessariamente degli uomini, e si sa quanto l’uso del genere può modificare o piuttosto orientare il nostro modo di “sentire” il mondo anche se il “sapere” ci permette poi di conoscerlo e di vedere che non era così come lo “sentivamo”.
rimando ad una relazione molto importante per quanto riguarda il francese
http://www.ladocumentationfrancaise.fr/ ... 1174.shtml
pile ou face?
Avatara utente
Marco1971
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Iscritto in data: gio, 04 nov 2004 12:37

Intervento di Marco1971 »

Mi sembra che l’Académie française si sia espressa in maniera chiara (la rimando al collegamento dato nel mio messaggio iniziale), se dice:

« Comme l’Académie française le soulignait déjà en 1984, l’instauration progressive d’une réelle égalité entre les hommes et les femmes dans la vie politique et économique rend indispensable la préservation de dénominations collectives et neutres, donc le maintien du genre non marqué chaque fois que l’usage le permet. Le choix systématique et irréfléchi de formes féminisées établit au contraire, à l’intérieur même de la langue, une ségrégation qui va à l’encontre du but recherché. »

Io, come ha ben capito, mi sono arreso al profondo pensiero di Giovanni Nencioni.

P.S. Se posso permettermi (anche perché è un errore comune tra i francofoni), si dice «mi sta a cuore». Non mi piace correggere pubblicamente, e me lo permetto soltanto perché — se non ricordo male — ha chiesto lei, nel forum della Crusca, eventuali correzioni.
ann
Interventi: 115
Iscritto in data: ven, 04 feb 2005 10:59

Intervento di ann »

grazie per la correzione ! (ho tutte le attenuanti e mi fa piacere imparare...)

Per quanto riguarda la posizione dell'accademia francese so che è contraria, e questo risulta un problema a livello francofono (per avere un'unica lingua francese a livello mundiale, anche la Francia deve accettare le proposte degli altri paesi francofoni) : il Quebec, il Belgio e la Svizzera hanno già adottato in modo ufficiale una forma femminile creata artificialmente per la maggior parte delle denominazioni di mestieri e noi... rimaniamo indietro... Per fortuna, l'opinione dell'accademia è importante (e necessaria) per permettere a una parola di essere ufficiale in Francia ma non per vederla apparire nell'uso, in questo senso sono pure importanti i dizionari e non solo quello dell'Accademia giudicato abbastanza male dal pubblico (a torto, secondo me, a me piace...) e il lavoro di Josette Rey Debove per i dizionari Robert seguito da altri lessicografi e redattore di manuali ecc. (ed anche di scrittori/ scrittrici) permetterà forse di cambiare l'uso, e di fare cambiare il giudizio dei nostri accademici!!!

(courriel per esempio creato dai quebbechesi e subito adottato come forma ufficiale da L'Office de la langue française, e da molti intellettuali francesi, linguisti, ecc, ha impiegato 2 o 3 anni di più del Quebec per diventare ufficiale in Francia)

NB: si trova un riassunto delle discussioni dell'Accademia che ho trovato abbastanza chiaro in
http://www.langue-fr.net/d/feminisation/3aspects.htm
pile ou face?
atticus
Moderatore «Dialetti»
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Intervento di atticus »

Tornando per un momento al punto di partenza, mi domando (e Vi domando):
a una musicista ci rivolgeremo col titolo di Maestro, o la chiameremo Maestra? "Il maestro Pollini" va bene. Va altrettanto bene "la maestra (Marta) Argerich", oppure meglio sarebbe dire "Il maestro Argerich"?
"Grazie, maestro" -riferito sempre alla Argerich- ovvero "Grazie, maestra"?
CarloB
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Musica, maestra

Intervento di CarloB »

Personalmente propenderei per la forma al femminile, anche a rischio di provocare qualche sorriso. Altrimenti per non essere fraintesi si dovrebbe chiarire: il maestro Marta? [confesso di non ricordarne il nome di battesimo] Argerich. Non credo che se la si chiama "La maestra Argerich" qualcuno penserà che insegni in una scuola elementare: chi sa chi è la Argerich sa anche in che è maestra; chi non lo sa, e la trova definita maestro, la crederà un uomo.
Mi pare che due obiezioni vengano sollevate contro la femminilizzazione delle parole indicanti professioni, cariche eccetera:
1) l'effetto di ridicolo o di cacofonia che la forma femminilizzata suscita in chi ascolta;
2) una scelta culturale (e politica), che tende a considerare "sessista" e discriminatoria la femminilizzazione di questa parole.
Il secondo punto esula dalle considerazioni strettamente linguistiche. E' però anche il solo che potrebbe essere deciso da una norma positiva, qualora ad esempio il parlamento europeo invitasse i governi nazionali ad adottare una forma unica non "sessista" (che però sarebbe verosimilmente quella maschile preceduta dall'articolo al femminile).
Sul primo punto, l'uso probabilmente porterà a uno sventagliamento di scelte: avvocata o avvocatessa sì (già lo si trova), giudicessa no; generalessa forse sì, tenentessa verosimilmente no.
Forse non dovremmo spaventarci per quelle eventuali difformità e persino contraddizioni. Sono aspetti della vita; difficile che ne vada esente la lingua.
Avatara utente
giulia tonelli
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Re: Musica, maestra

Intervento di giulia tonelli »

CarloB ha scritto: chi sa chi è la Argerich sa anche in che è maestra; chi non lo sa, e la trova definita maestro, la crederà un uomo.
E che male c'è? Ripeto ciò che ho detto in un altro filone: ma è cosi' maledettamente importante, sapere che un pianista di fama mondiale è un uomo o una donna? A me sembra molto più importante che si capisca, immediatamente, al volo, che si sta parlando di un musicista di fama mondiale, e quindi "il Maestro Argerich". Non vi sembra di dare un po' troppa importanza al fatto che una persona sia maschio o femmina? Mi ripeto, ma se si sta parlando di una persona nella sua veste pubblica e professionale (artistica o istituzionale), che importanza ha sapere se porta la gonnella? Dal mio punto di vista è questo che io percepisco come "sessista" nel voler femminilizzare i nomi delle professioni: è come se si volesse caratterizzare una persona PRIMA come donna, e POI come avvocato, giudice, presidente del consiglio o ministro. Come a dire "occhio, stiamo sì parlando del presidente del consiglio, però insomma, è una donna eh, non dimentichiamocelo".
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miku
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Intervento di miku »

Io non concordo mai una professione o una carica politica, né mai uso l'articolo determinativo prima del cognome.

In tedesco, dove è più evidente la forzatura, si danno dei veri e propri (a mio avviso) monstra:
Minister, che senza alcuna remora fa Ministerin, contiene in sé la determinazione del genere (-er): suonerebbe pertanto come ministroa.

Ne sarà valsa la pena?
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