Avvenire, «Se la neolingua 2.0 piace anche alla Crusca»

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Ferdinand Bardamu
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Avvenire, «Se la neolingua 2.0 piace anche alla Crusca»

Intervento di Ferdinand Bardamu »

Vi propongo quest’articolo apparso su Avvenire ieri 29 gennaio 2015. Vi compaiono i pareri di alcuni linguisti italiani sulla lingua che si scrive in rete. Ricopio un passo che tocca il tema degli anglicismi:

A proposito, le bacheche in Rete traboccano di inglese, seppur parlino italiano. «L’inglese è la lingua franca di Internet e non dobbiamo lasciarci intimorire dagli anglicismi – dice la ricercatrice di Firenze [Vera Gheno dell’Accademia della Crusca, nota mia] –. Certo, alcuni sono necessari come tag che, ad esempio, abbiamo italianizzato col verbo taggare. Altri possono essere sostituti: postare può essere rimpiazzato da pubblicare o selfie da autoscatto».

Beh, a ben vedere nemmeno tag sarebbe necessario…
Ultima modifica di Ferdinand Bardamu in data gio, 04 feb 2016 14:48, modificato 1 volta in totale.
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Animo Grato
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Intervento di Animo Grato »

Caro Ferdinand, l'articolo che ci ha gentilmente (o sadicamente?) segnalato mi ha profondamente amareggiato. Del resto, quando si legge sistematicamente, in riferimento a due donne (Valeria Della Valle e Vera Gheno), "Della Valle" e "Gheno", laddove l'italiano esige "la Della Valle" e "la Gheno", non ci si può aspettare nulla di buono. Ma questo è solo un peccato dello scribacchino dell'Avvenire. Ugualmente deprimente, tuttavia, è il tono generale delle opinioni espresse dai presunti "garanti" della nostra identità linguistica: "idee" improntate a un clima di lassismo, di "vale tutto", "è un paese libero", "se je piace de scrive così a te chette frega".

Cito:
Una persona che farebbe meglio a dedicarsi ad altro ha scritto:«Immaginiamo di dialogare fra amici su WhatsApp. Scrivo: “Stasera andrò alla festa”. E l’altro ribatte: Se lo sapevo, venivo. La sua risposta non è corretta dal punto di vista sintattico. Però sarebbe singolare vedersi rispondere: Se lo avessi saputo, sarei venuto. Si peccherebbe di precisione in un contesto informale.
Va bene, non censuriamo il babbuino (anche perché è una conversazione privata e non ci hanno dato il via libera alle intercettazioni), ma non bolliamo chi usa condizionale e congiuntivo col marchio del damerino colla puzza sotto il naso: per inciso, io uso sempre condizionale e congiuntivo (ove richiesto), rete sociale o comportamento antisociale che sia.

Ancora:
Una persona che ha sbagliato mestiere ha scritto:«Alla Crusca non siamo eccessivamente normativi – sorride Gheno [sic] – [...] [O]sserviamo il fenomeno del che polivalente. Capita di leggere non c’è niente che ho bisogno invece di non c’è niente di cui ho bisogno. Autorizziamolo in Rete».
Ma sì! Autorizziamo! Forse all'insigne studiosa sfugge il fatto che di queste autorizzazioni non c'è alcun bisogno, «perché a sbagliare sono bravissimo da me» (cito Luciano Ligabue perché nel «non c'è niente che ho bisogno» ho colto un'eco jovanottiana, e non vorrei abbandonare un così inclito alveo letterario): chi "parla come mangia" (e probabilmente mangia colle mani) non attende certo le autorizzazioni di un'autorità che non [ri]conosce, quindi di cosa stiamo parlando? E, sull'altro versante, il cattedratico che si affanna a inseguire e certificare le storture dilaganti per dimostrare (in primis a sé stesso) che "esiste" ed è "al passo coi tempi" mi ricorda certi cinquantenni patetici che continuano a farsi le "canne" per apparire "ggiovani" e di larghe vedute. Per di più, nello stesso articolo si sottolineava il fatto che sono stati proprio i siti in rete a ridare alle persone l'occasione di usare la forma scritta, altrimenti destinata, per molti - una volta terminata la scuola - a una frettolosa e definitiva archiviazione. Se dunque la rete è, di fatto, l'unico luogo in cui si scrive, non sarebbe proprio quello lo spazio da difendere dalla barbarie? Che senso ha dire "in rete possiamo permetterci d'essere di manica larga, e riservare la frusta a chi scrive romanzi", quando tutti scrivono in rete e solo quattro gatti scrivono romanzi (letti da due gatti)? D'altronde, «legalizzare la mafia sarà la regola del duemila» (per proseguire nel filone cantautoriale, stavolta con De Gregori), e un atteggiamento acquiescente ci permette di continuare a raccontarci che "sì, è stata violata qualche regoletta, ma in fondo era più formale che sostanziale, e quindi niente di grave: va tutto bene, possiamo continuare a dormire sonni tranquilli e questo è sempre il migliore dei mondi possibili".

O "il migliore dei mondi possibile": non so, non mi ricordo; c'era una norma, una volta, ma comunque, se il correttore automatico del nuovo iPhone non lo sottolinea in rosso, va bene tutto.
Ultima modifica di Animo Grato in data ven, 30 gen 2015 20:11, modificato 1 volta in totale.
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«E non piegherò certo il mio italiano a mere (e francamente discutibili) convenienze sociali». Infarinato
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Intervento di Freelancer »

Animo Grato ha scritto:Del resto, quando si legge sistematicamente, in riferimento a due donne (Valeria Della Valle e Vera Gheno), "Della Valle" e "Gheno", laddove l'italiano esige "la Della Valle" e "la Gheno", non ci si può aspettare nulla di buono.
«Esige»???
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Animo Grato
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Intervento di Animo Grato »

A meno che l'indicativo presente di esigere non difetti della terza persona singolare, sì: esige.
Luca Serianni, in [i]Grammatica Italiana[/i], IV. 24, ha scritto:Con i cognomi femminili la norma tradizionale, cui è bene continuare ad attenersi, prescrive l'obbligo dell'articolo.
Sottolineature e grassetto miei.
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Ivan92
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Intervento di Ivan92 »

Lo sdegno e il cruccio che traboccano dalle parole d'Animo Grato sono gli stessi sentimenti che ho provati ieri, durante una conferenza tenutasi nell'ateneo di lingue. Protagonista dell'incontro, una linguista marchigiana. Si parlerà di linguistica, opinavo tra me e me. Mi fiondo a tutta léna nell'aula che avrebbe ospitato il convegno. Il mio cuore, ebbro d'eccitazione, riceve subito una brutta notizia: la sedicente linguista e giornalista si sarebbe prodigata in ambagi senza fine concernenti la buona riuscita d'un'intervista! Che beffa! Che doccia fredda! Cerco di non scompormi punto. In fondo, sono sempre crediti guadagnati.

La giornalista inizia a parlare. Diversi errori ortoepici (sonorizzazione delle sorde intervocaliche, avverbi terminanti in mente pronunciati cólla e aperta, mancate cogeminazioni) cominciano ad ambasciarmi. Da una linguista cosí sussiegosa, che si compiace d'aver intervistato André Martinet e che si pavoneggia a destra e a manca, mi sarei aspettato molto di piú, in termini di dizione e ortoepia. Cerco di non farci caso, ché pretendere la perfezione è pura chimera. Inoltre, la signorina ricorre a pochissimi anglicismi, e ciò è, oltre che lodevole, allietante.

Oh, lasso me! Solo ora mi rendo conto d'esser stato troppo corrivo a giudicarla! Quanta ingenuità e quanta poca malizia! Di punto in bianco, la giornalista inizia a dare il meglio di sé: una proluvie di termini inglesi tracima dalla sua bocca, cogliendomi impreparato. Se l'avessi saputo, avrei eretto anzitempo una diga. Cenni d'intesa e ammiccamenti vari corredano il tutto. Fermento a dismisura e scoppio, allorché, rivolgendo lo sguardo e la parola a un suo (presumo) collega, ella, sorridendogli, dice: «D'altronde, caro Tizio, come tu ben sai, la deadline è pur sempre la deadline, no?» :? :roll:

È tempo di domande. Decido di scendere nell'agone e di pugnare contra la donzella e la sua pravità, ergendomi a vindice della mia favella, cosí ingiustamente e gratuitamente bistrattata. Impugno risolutamente il microfono e le chiedo: «Non crede che la maggior parte dei giornalisti faccia un uso smoderato degli anglicismi e che dunque ne abusi? Le poche volte che mi capita di leggere un giornale, provo una certa insofferenza verso tutti questi termini inglesi. Spesso inutili e fuori posto, potrebbero essere rimpiazzati tranquillamente ed egregiamente. Nel mondo di oggi che tutto fagocita, la necessità d'esser brevi —e l'inglese, appetto all'italiano, è lingua piú breve— non rischia d'impoverire la lingua —l'italiano, in questo caso— e di provocarne la morte?» Ringrazio e vado a posto.

La stilettata inflittale ha sortito un certo effetto, perché, nel rispondermi, inizia ad andare nel pallone. Cita Darwin, la teoria dell'evoluzione e la selezione naturale: alcune lingue sono piú «forti» di altre e impongono la loro cultura, il loro modo di segmentare la realtà. L'inglese fa questo cóll'italiano. Lo stridio di unghie si fa sempre piú rumoroso ed è costretta a chiamare in causa l'economia linguistica: ottenere il massimo cól minimo sforzo. Perché dire diario virtuale se esiste blog? Non paga di tutto questo, rimembra gl'insuccessi linguistici di Di Pietro durante l'era di Tangentopoli, il quale, secondo la nostra linguista, avrebbe proposto traduzioni in un italiano maccheronico di termini inglesi, traduzioni mai entrate in circolazione perché non apprezzate dalla popolazione, tra le quali annovera la celebre che ci azzecca. A parte il fatto ch'io la uso costantemente, non pensavo che Di Pietro ne fosse stato l'artefice! Ma forse, in questo caso, ha ragione lei, ché avevo a malapena due anni all'epoca, e i ricordi, ovviamente, non possono essere nitidi.

Conclude con una perla sublime, una chicca per gli amanti delle burle: pur considerandosi una purista della lingua (:shock:), non ha paura di usare gli anglicismi. Sono riuscito a trattenermi a stento, altrimenti le avrei stampato una fragorosa risata in faccia. Non ho avuto purtroppo l'opportunità di replicare. Avrei voluto controbattere. Sono tornato mestamente a casa.

Per amor di verità, ci terrei a riportare anche le opinioni dei partecipanti, consistenti di qualche timido e impercettibile biascichío, che il mio orecchio è riuscito comunque a cogliere nonostante la babele di voci che s'alzava al cielo e il desiderio di porre fine a quel supplizio che aveva tediato la maggior parte di noi. Infatti, mentre il sottoscritto poneva la domanda, ho sentito mormorare da qualcuno in prima fila le seguenti parole: «Sí, ha ragione, è vero. Ce ne sono troppi (d'anglicismi)». Magra consolazione.
Ultima modifica di Ivan92 in data lun, 02 feb 2015 0:04, modificato 11 volte in totale.
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Ferdinand Bardamu
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Intervento di Ferdinand Bardamu »

Animo Grato ha scritto:A meno che l'indicativo presente di esigere non difetti della terza persona singolare, sì: esige.
Luca Serianni, in [i]Grammatica Italiana[/i], IV. 24, ha scritto:Con i cognomi femminili la norma tradizionale, cui è bene continuare ad attenersi, prescrive l'obbligo dell'articolo.
Sottolineature e grassetto miei.
Vero, ma piú sotto Serianni dà conto della «tendenza attuale» a eliminare l’articolo anche davanti ai cognomi di donne, tendenza che ha origine in situazioni comunicative quotidiane (es. in ambiente scolastico, tra colleghe di lavoro, ecc.) e si è ultimamente estesa anche al giornalismo, motivata, in questo caso, da ragioni di parità di genere.

Quanto a me, faccio mio l’invito di Serianni, ma riconosco la legittimità della nuova tendenza. Del resto, non credo che omettendo l’articolo si faccia un torto alla buona lingua…

Venendo al suo primo intervento, quel che mi lascia perplesso delle osservazioni dei linguisti intervistati non è tanto la legittimazione di alcuni costrutti o usi legati al parlato piú trascurato (d’altra parte rappresentati anche presso gli autori piú importanti della nostra storia), ma il loro sdoganamento senza condizioni.

Quando Vera Gheno afferma che si può «autorizz[are] in rete» l’uso del che relativo polivalente, senz’aggiungere altro, a mio parere viene meno al ruolo dell’esperto, che avrebbe il dovere di discriminare tra usi leciti in ogni contesto e costrutti e forme tollerabili nelle situazioni comunicative piú rilassate.

In piú, mi pare che, evitando di sceverare ciò che è normale da ciò che non è, si dimentichi che simili costrutti sottostàndari possono essere trattati con indulgenza solo se chi li adotta ha una conoscenza non superficiale della norma. Temo però che molti degli utilizzatori, ad esempio, dell’imperfetto indicativo nel periodo ipotetico se ne servano non per un omaggio a Manzoni, Machiavelli o Dante, ma, semplicemente, perché hanno una conoscenza mediocre (quando va bene) della regola. Legittimarne l’errore rischia allora di mettere l’italiano su una brutta china.

P.S. Vi inviterei — non da moderatore, ma da semplice utente — a sforzarvi di dividere il vostro intervento in capoversi, in ispecie se è lungo. Leggere un blocco di testo unico su uno schermo è piuttosto faticoso.
Ultima modifica di Ferdinand Bardamu in data sab, 31 gen 2015 0:16, modificato 1 volta in totale.
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Animo Grato
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Intervento di Animo Grato »

Ferdinand Bardamu ha scritto:Vero, ma piú sotto Serianni dà conto della «tendenza attuale» a eliminare l’articolo anche davanti ai cognomi di donne, tendenza che ha origine in situazioni comunicative quotidiane (es. in ambiente scolastico, tra colleghe di lavoro, ecc.) e si è ultimamente estesa anche al giornalismo, motivata, in questo caso, da ragioni di parità di genere. [...] [Q]uel che mi lascia perplesso delle osservazioni dei linguisti intervistati non è tanto la legittimazione di alcuni costrutti o usi legati al parlato piú trascurato [...], ma il loro sdoganamento senza condizioni.

Quando Vera Gheno afferma che si può «autorizz[are] in rete» l’uso del che relativo polivalente, senz’aggiungere altro, a mio parere viene meno al ruolo dell’esperto, che avrebbe il dovere di discriminare tra usi leciti in ogni contesto e costrutti e forme tollerabili nelle situazioni comunicative piú rilassate.
Mi sono permesso, nel citarLa, di accostare i due brani del Suo intervento perché il metodo di Serianni, che consiste nel fornire in primo luogo la norma da seguire, e successivamente dare notizia di eventuali tendenze eterodosse, mi pare il modello virtuoso da contrapporre all'atteggiamento di chi si limita a prendere atto dell'esistente, e quindi non dice nulla di più o di meglio rispetto all'universalmente noto. Perché è vero che la norma non è immutabile, ed è anzi quotidianamente avallata o smentita dall'uso, ma non da un uso qualsiasi: solo le variazioni attestate tra i parlanti di cultura alta (o medio-alta) sono degne di essere prese in considerazione. Sarà poco democratico, ma è così: se bisogna abbandonare un sentiero ritenuto valido fino a ieri, sarà bene incamminarsi nella direzione indicata dai migliori, non dai peggiori. Perciò, quando mi prendo la briga di aprire un libro di grammatica per migliorare il mio italiano, avrei la pretesa di trovare delle indicazioni chiare, non la fotocopia di quello che posso sentire colle mie orecchie andando al mercato.

Nel caso specifico dell'uso dell'articolo determinativo coi cognomi femminili, stante la norma della sua obbligatorietà, posso solo aggiungere che la mia esperienza personale depone a sfavore della sua soppressione in ambito scolastico. Ricordo perfettamente che nei discorsi fra noi ragazzi, anche i più "informali" (garbato eufemismo), "la X" era sempre meglio "della Y", anche se qualcuno preferiva le forme generose "della Z", e via di questo passo. Mai "X", "Y" e "Z": diciamo che l'articolo era l'unica cosa di cui non avevamo alcuna voglia di spogliarle. :wink:

Riguardo agli altri contesti che ne favoriscono l'omissione, sappiamo tutti che l'uso giornalistico spesso e volentieri si appiattisce sui modi più grossolani, e per ciò che concerne la cosiddetta "parità di genere" (che comunque non viene menzionata - almeno non con questa espressione - da Serianni)... be', ho scelto deliberatamente di non prenderla in considerazione, perché questo mi avrebbe inevitabilmente condotto ad altre riflessioni su come le paturnie del "politicamente corretto" abbiano irrimediabilmente corrotto le facoltà di quello che una volta era considerato un essere raziocinante: un terreno sdrucciolevole sul quale l'inestimabile serenità di questo foro sarebbe andata a gambe all'aria.
Ultima modifica di Animo Grato in data sab, 31 gen 2015 8:56, modificato 1 volta in totale.
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Scilens
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Intervento di Scilens »

Grazie Animo, per l'ultima resistenza; ma se la rappresentate della Crusca, che era custode della Lingua e ora è una vergogna, accetta tutto in considerazione dei tanti registri possibili e le pare che la frase "se l'avessi saputo sarei venuto" "sarebbe singolare" perché "si peccherebbe di precisione in un contesto informale" io non so più in che mondo vive, con chi abbia occasione di parlare e a che grado d'involuzione si possa arrivare credendolo normale, oltre a risultarmi inutile la sua funzione.
Mi piacerebbe che venisse a vederci giocare a carte e ascoltasse i nostri discorsi. Le parrebbero un misto d'affettazione secentesca e volgarità vernacolare, forse. La frase ""se l'avessi saputo sarei venuto" è quotidiana, non richiede sforzo ed è lingua viva. Sentendo certe voci "ispirate", per quanto sarà viva ancora, se quello che dovrebbe essere il massimo organo di tutela accetta ogni sbracamento come norma?
Non m'immagino come si possa peccare di "eccessiva precisione" e viene da dire che se questa dev'essere la Crusca del 2015, allora, al diavolo, che si sciolga! Non serve a nulla l'etologo della lingua, serve un papa.

Per me è anche troppo sbracato questo fòro, che accetta innumerevoli "registri", forme di derivazione non toscana, ma attestate in autori celebrati sono accettate come corrette e sono obbrobrii, figuriamoci come vedo di buon occhio certe tendenze che da troppi lustri prendono piede e vengono giustificate come un'evoluzione e come assecondamento della "lingua viva".
Una volta non c'era il discorso "in quest'occasione sì, in quest'altra no". O era giusto o era sbagliato. Oggi, un povero cristo d'insegnante, come si regola? E un povero cristo di ragazzo che vuol sapere come scrivere, non alla perfezione, non come certi scrittori famosi, ma soltanto in modo corretto, come diavolo si regola?
Saluto gli amici, mi sono dimesso. Non posso tollerare le contraffazioni.
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Ferdinand Bardamu
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Intervento di Ferdinand Bardamu »

Scilens ha scritto:Per me è anche troppo sbracato questo fòro, che accetta innumerevoli "registri", forme di derivazione non toscana, ma attestate in autori celebrati sono accettate come corrette e sono obbrobrii, figuriamoci come vedo di buon occhio certe tendenze che da troppi lustri prendono piede e vengono giustificate come un'evoluzione e come assecondamento della "lingua viva".
Perdoni la precisazioncella: «questo fòro» cerca sempre di fornire spiegazioni circostanziate per accettare una forma «obbrobriosa». E cerca sempre di discernere i contesti in cui usi meno comuni sono tollerabili o leciti da quelli in cui gli stessi usi sono sconsigliabili.
Scilens ha scritto:Una volta non c'era il discorso "in quest'occasione sì, in quest'altra no". O era giusto o era sbagliato.
Ma, mi perdoni, un simile ragionamento non regge. Come non si va a una cena di gala in sandali e costume da bagno, cosí non si va in spiaggia in abito da sera. Voglio dire: se è sconsigliabile usare costrutti ed espressioni popolaresche in contesti formali, è fuori luogo anche adoperare costrutti, parole o locuzioni formali in situazioni comunicative piú rilassate.

Concordo con lei però su un fatto: che l’uso di congiuntivo e condizionale nel periodo ipotetico non sia troppo formale per adattarsi a contesti informali. I linguisti intervistati credono che le reti sociali siano il luogo dello sbracamento senza ritegno, ignorando che vi vigono le stesse regole valide per il parlato in generale: se un’espressione è oggetto di censura nella vita reale, sarà censurata anche in rete. Ci sono stati diversi casi in cui gli utenti delle reti sociali si sono mobilitati per dileggiare un personaggio famoso reo di un (supposto, alcune volte) errore grammaticale o ortografico.

Inoltre, ribadisco, i costrutti che si collocano fuori della norma, come il che relativo polivalente, si debbono maneggiare con grande cautela. A tal proposito, riporto le parole di Serianni (Italiano, Milano, «Garzanti», 2000, voce «Che polivalente» della sezione «Glossario e dubbi linguistici», p. 510, sottolineatura mia):

Da evitare invece, nello scritto ma anche nel parlato colloquiale, il che invariabile a cui segua un pronome atono con funzione di complemento: «l’armadio *che ci ho messo [in cui ho messo; che contiene] gli asciugamani», «suo suocero, *che gli hanno fatto un’operazione». Le eccezioni sono possibili in contesti che arieggino l’immediatezza del parlato, ma vanno riservate a chi abbia grande padronanza linguistica, come F. Ceccarelli, autore del seguente esempio giornalistico: «non è mai stato bello vedere la fine politica di uno che bene o male lo applaudivano quasi tutti» («La Stampa», 30.4.1993).

Il «liberi tutti» finisce per dare a chi ha una preparazione linguistica traballante la falsa sensazione di essere nel giusto.
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Scilens
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Intervento di Scilens »

È vero che qui si cerca sempre il perchè di una locuzione usata dal grande scrittore, e questa ricerca spesso è interessante, ma è vero anche che la frase errata non diventa corretta una volta che sia stata ben spiegata.

Nel parlato, a seconda delle occasioni, ci possiamo permettere di scivolare verso il dialetto, se sappiamo che gli interlocutori lo capiscono senza fatica, ma non sono d'accordo sul fatto (cito Ferdinand) che sia "fuori luogo anche adoperare costrutti, parole o locuzioni formali in situazioni comunicative piú rilassate", in particolar modo quando queste rappresentano la norma del linguaggio e non possono apparire come uno sfoggio di cultura inappropriato. Perdipiù il linguaggio quotidiano, che sia di strada o di salotto, mescola tutto e salta da un registro all'altro con una tale naturalezza che non ce n'accorgiamo. È nello scritto che si può notare la differenza.

Chiarisco che mi sto riferendo soltanto all'Italiano corretto, alto o basso che sia, ma corretto; ed è proprio questo concetto di correttezza ad essersi dilatato fino a sfrangiarsi. Un verbo malconiugato, un accordo sbagliato o una parola detta al posto di un'altra sono e restano errori, nel parlato, nello scritto e in ogni contesto.
Alcuni di questi errori sono tali in Italiano, mentre sono parte di alcuni dialetti, cosicché non possono venir corretti in un contesto dialettale, proprio come non possono esser considerati accettabili in Italiano.
Il processo d'allargamento delle maglie del setaccio che vaglia la farina dalla crusca è presente in questo fòro poco meno che nell'Accademia della Crusca, ho cessato d'intervenire in questi casi. Il principale merito di questo fòro è lo sforzo normativo, al quale la Crusca evidentemente rinuncia.

Un altro merito non trascurabile è la ricerca del bel parlare, oltreché del bello scrivere, tentativo lodevolissimo ancorché un tantino velleitario e quasi eroico nelle condizioni attuali. Io che volo basso mi contenterei di trovare nei professionisti del linguaggio una semplice e piana correttezza. Un buon artigianato, invece di tant'Arte.
Mi trovo in perfetta sintonia con le posizioni espresse da Animo Grato, compresa quella sull'articolo obbligatorio davanti ai cognomi femminili, sicuro che nessuna donna si sentirà discriminata per questo, né si potrà essere accusati di peccare di eccessiva precisione, in qualunque ambiente o contesto ci si trovi a parlare o scrivere.
Ferdinand Bardamu ha scritto:Il «liberi tutti» finisce per dare a chi ha una preparazione linguistica traballante la falsa sensazione di essere nel giusto.
Concordo con Lei.
Saluto gli amici, mi sono dimesso. Non posso tollerare le contraffazioni.
Avatara utente
Zabob
Interventi: 927
Iscritto in data: sab, 28 lug 2012 19:22

Intervento di Zabob »

Ferdinand Bardamu ha scritto:[R]iporto le parole di Serianni (Italiano, Milano, «Garzanti», 2000, voce «Che polivalente» della sezione «Glossario e dubbi linguistici», p. 510, sottolineatura mia):

Da evitare invece, nello scritto ma anche nel parlato colloquiale, il che invariabile a cui segua un pronome atono con funzione di complemento: «l’armadio *che ci ho messo [in cui ho messo; che contiene] gli asciugamani», «suo suocero, *che gli hanno fatto un’operazione». Le eccezioni sono possibili in contesti che arieggino l’immediatezza del parlato, ma vanno riservate a chi abbia grande padronanza linguistica, come F. Ceccarelli, autore del seguente esempio giornalistico: «non è mai stato bello vedere la fine politica di uno che bene o male lo applaudivano quasi tutti» («La Stampa», 30.4.1993).
A parte che il Glossario non l'ha compilato Serianni ma Patota, è evidente che il che polivalente dell'esempio giornalistico non si possa considerare alla stessa stregua delle frasi precedenti: basta eliminare quel lo e il che diventa un normale e legittimo pron. relativo: «non è mai stato bello vedere la fine politica di uno che [=il quale, compl. oggetto], bene o male, quasi tutti applaudivano».
Oggi com'oggi non si sente dire dieci parole, cinque delle quali non sieno o d'oltremonte o nuove, dando un calcio alle proprie e native. (Fanfani-Arlìa, 1877)
PersOnLine
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Intervento di PersOnLine »

In effetti, in questo caso è improprio parlare di che polivalente, perché non può essere sostituito con un pronome sintatticamente più adeguato; semmai è il lo a essere di troppo, sotto ogni aspetto logico
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Zabob
Interventi: 927
Iscritto in data: sab, 28 lug 2012 19:22

Intervento di Zabob »

Infatti, siamo più nelle terre dell'anacoluto, secondo me.
Oggi com'oggi non si sente dire dieci parole, cinque delle quali non sieno o d'oltremonte o nuove, dando un calcio alle proprie e native. (Fanfani-Arlìa, 1877)
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Ferdinand Bardamu
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Località: Legnago (Verona)

Intervento di Ferdinand Bardamu »

Zabob ha scritto:A parte che il Glossario non l'ha compilato Serianni ma Patota…
Sí, ma le voci incluse in un riquadro sono opera di Serianni.

Che l’esempio in questione possa facilmente essere trasformato in un costrutto grammaticalmente accettabile è puramente casuale. Se il pronome relativo avesse valore di dativo, per esempio, la soppressione del clitico non basterebbe a rendere la frase grammaticale.
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