Del sociolinguisticamente accettabile

Spazio di discussione su questioni che non rientrano nelle altre categorie, o che ne coinvolgono piú d’una

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bubu7
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Intervento di bubu7 »

Ladim ha scritto: Se vogliamo auspicare la sostituzione di un anglismo, dobbiamo incominciare a immaginarne un corrispettivo nostrale, tenendo conto di quei fattori sì sociali e culturali che possono indirizzare opportunamente la nostra creatività (espressività per i giovani, un blasone dotto, oppure meccanicamente trasparente per i tecnici etc.), ma escludendo, ad esempio, gli elementi orbitanti intorno alla forza extralinguistica dell'inglese (la cultura dominante)...
Scusi Ladim, ma su questo mi sembra che diciamo la stessa cosa.
La mia analisi sociolinguistica di partenza non ha fatto considerazioni sulla cultura dominante. E, nella mia puntualizzazione, dicevo proprio che, considerati i motivi extralinguistici che spingono a adottare il forestierismo, il sostituto deve trovare la sua forza da qualche altra parte anche, ad esempio, nei fattori che elencava lei (espressività, blasone, trasparenza... ) ai quali aggiungerei le considerazioni del mio primo intervento.
Ladim ha scritto:E l'interrogazione dei parlanti sarebbe un buon metodo.
Chi potrebbe sostenere l'inutilità di questa operazione?
Però è come se dicessimo: "Per dimostrare l'accettabilità sociolinguistica di una forma dobbiamo verificare se i parlanti accettino la forma".
A mio parere il discorso che stiamo facendo in questa sede è un po' diverso (e non esclude una eventuale successiva verifica sul campo).
Qui si sta valutando, sulla base delle nostre conoscenze di sociolinguistica (la quale si basa anche sulle sperimentazioni effettuate fino a oggi) se certe proposte siano o meno accettabili.
Per tradurre computer io posso proporre il termine cicci.
Rispondere che si devono interrogare i parlanti per decidere sull'accettabilità del termine mi sembra, in questa sede, eludere le critiche.
Noi siamo parlanti e abbiamo una certa conoscenza degli ambienti di arrivo dei sostituti. Sulla base di queste conoscenze (che possono essere arricchite anche da qualche interrogazione più o meno sistematica di nostri conoscenti) e sulla base delle nostre conoscenze di linguistica, se ci reputiamo sufficientemente competenti per poterlo fare, costruiamo una proposta ragionevole che verrà sottoposta ai parlanti.

Questo a me sembra un buon metodo.
La lingua è un guado attraverso il fiume del tempo. Essa ci conduce alla dimora dei nostri antenati.
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Intervento di Ladim »

bubu7 ha scritto:L'anglicismo viene sostenuto nella sua diffusione da un insieme di fattori (creazione dell'oggetto denominato, potenza culturale e economica...) che non sostengono il nostro traducente
Più o meno pensavo a questa Sua affermazione, che, per me – se mi passa l'espressione – era fin 'troppo' opportuna. In ultimo, la sua analisi su «ludomanetta», come dicevo, ha un criterio: il cui esito (che ho letto con piacere), se è plausibile, non mi sembrerebbe del tutto pacifico (per i motivi compiegati più su).

Nessuna elusione, di grazia. La critica è sempre gradita, anche quella dei 'semplici' utenti (direi che siamo d'accordo).

Per quel che mi riguarda, portando il tono della nostra conversazione su un piano più confidenziale, devo confessarle, candidamente, che mi trovo sempre un po' in imbarazzo di fronte a una parola nuova di cui ignoro l'ambito d'uso – solo in un secondo tempo mi riesce di vederne in trasparenza il 'carattere': «ludomanetta» non mi pare così ostico («manetta» non lo confinerei in un contesto esclusivamente espressivo; sicché l'adopererei senz'altro anche per il famigerato 'maus'; diversamente «tiramisù», per l'audace reggipetto, mi suona più facile; così come «perfóro» mi pare abbastanza diretto; su due piedi, forse cambierei «nevepattino» con «tavola da sci», «pixel» – non su due piedi, ma seduto alla scrivania, e senza argomentare – con «iride»).
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bubu7
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Intervento di bubu7 »

Ladim ha scritto: Nessuna elusione, di grazia. La critica è sempre gradita, anche quella dei 'semplici' utenti (direi che siamo d'accordo).
Il mio era un discorso generale che prendeva solo spunto dalla sua affermazione. Mi guarderei bene anche soltanto dal pensare che lei voglia eludere le mie critiche. Mi dispiace del malinteso.
Ladim ha scritto:Per quel che mi riguarda, portando il tono della nostra conversazione su un piano più confidenziale, devo confessarle, candidamente, che mi trovo sempre un po' in imbarazzo di fronte a una parola nuova di cui ignoro l'ambito d'uso – solo in un secondo tempo mi riesce di vederne in trasparenza il 'carattere': «ludomanetta» non mi pare così ostico...
Ho l'impressione però che lei non sia né un informatico né un ragazzino; per non parlare del tiramisù... :)
Il fatto che a lei piacciano questi termini, semmai potrebbe essere un ulteriore elemento per sconsigliarne l'accoglimento nella lista. Lei potrebbe far parte di un campione di parlanti da interrogare ma per un esperimento al contrario.
Voglio dire che dobbiamo distinguere il fatto che un termine ci piaccia, ad esempio, per la nostra formazione classica, dal fatto che ci piaccia perché risponde a quei famosi requisiti sociolinguistici.

E confidenza per confidenza, visto che Marco non ci ascolta, le devo confessare che diverse delle sue invenzioni piacciono anche a me. È che le vedo completamente avulse dalla realtà sociolinguistica. Come lo erano quelle del suo maestro Castellani, in tante altre cose maestro di tutti noi. Si potrebbe dire: se i media li diffondessero... se lo Stato adottasse una politica linguistica...; ma anche i media e lo Stato sono variabili sociolinguistiche dal cui valore non possiamo prescindere per decidere quale strada prendere...
La lingua è un guado attraverso il fiume del tempo. Essa ci conduce alla dimora dei nostri antenati.
V. M. Illič-Svitič
Ladim
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Intervento di Ladim »

Gentile Bubu7, potrebbe sembrarle ovvio se, diversamente da quanto suggerisce lei (ma il suo discorso ha pur un suo equilibrio), io volessi ritenere opportuna anche la mia opinione, quindi la mia sensibilità linguistica?

Se a lei va bene, le chiederei di scegliere (tra quelli proposti e no) un sostituto che, a suo modo di vedere, rispetti abbastanza bene i – chiamiamoli così – parametri di accettabilità sociolinguistica. Leggerei molto volentieri una sua analisi, al riguardo (non escludo l'eventualità che lei lo abbia già fatto, in qualche filone a me sconosciuto: allora spero vorrà perdonarmi – non sempre ho il modo di seguire assiduamente tutte le 'nostre' discussioni).

In ultimo, non sarebbe ozioso, io credo, circoscrivere meglio – se possibile – questi fattori sociolinguistici...
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Ladim ha scritto:In ultimo, non sarebbe ozioso, io credo, circoscrivere meglio – se possibile – questi fattori sociolinguistici...
In effetti, tali parametri d’accettabilità sociolinguistica non sono stati enunciati, né in modo chiaro né in maniera larvata, e l’analisi, in buona parte impressionistica, del signor bubu7 presuppone l’esistenza d’un archetipico Informatico e Ragazzino – modelli ideali, questi sí, «avulsi dalla realtà». La realtà è che esistono un’infinità d’individui dai gusti e dalla sensibilità molto diversi all’interno stesso di tali categorie e che non è quindi possibile prevedere l’accettabilità o inaccettabilità d’una parola fondandosi su simili imponderabili e vaporosi criteri.

A me gli unici criteri validi paiono quelli individuati dalla professoressa Castellani Pollidori nella risposta alla mia lettera, ossia la dignità di struttura e la perspicuità semantica. Tutto il resto dipende dalla sensibilità individuale. Come scriveva Migliorini:
Tuttavia la fortuna delle parole dipende da tanti fattori, ponderabili e imponderabili, che l’avere precisato un po’ quelli meglio ponderabili non ci autorizzerà a proiettare nel futuro le nostre conclusioni. Solo Cristina di Svezia poteva dire di Ménage che egli sapeva non solo di dove le parole venissero, ma anche dove andassero... (La lingua italiana nel Novecento, Firenze, Le Lettere, 1990, p. 95)
Nessuno, che non sia veggente, ha dunque il potere di decretare in materia; parleremo, semmai, di «maggiore o minore probabilità d’attecchimento» e non d’«inaccettabilità sociolinguistica».
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Uri Burton
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ANALISI SOCIOLINGUISTICA

Intervento di Uri Burton »

Concordo con Marco. In queste pagine sono stati spesso invocati i criteri d’accettabilità sociolinguistica senza però mai definirli con precisione. D’altra parte, un’analisi per determinare se una nuova parola sarà gradita o no non può ridursi a una petizione di principio, a un giudizio che dà per scontato ciò che è da dimostrare. Dovrebbe invece cominciare col dividere i parlanti per età, genere, classe, lavoro, prestigio e potere, per poi esprimere ipotesi operative e quindi verificabili alla luce dell’esperienza: che in questo caso si ricava soltanto dopo aver interpellato, con quesiti non suggestivi, campioni rappresentativi delle varie categorie. Va da sé che una simile indagine esula dalle nostre possibilità come frequentatori di Cruscate.

Mi domando tuttavia se ne varrebbe la pena. So che adesso, dando anch’io per scontato ciò che andrebbe dimostrato, meriterò la critica che a prima vista avrei rivolto ad altri, ma mi sembra lecito premettere che la diffusione a ritmo serrato e il conseguente eccesso di anglismi investono tutta la società italiana, indipendentemente dalla posizione che i suoi singoli componenti ricoprono nelle diverse categorie. Si trovano anglismi nelle pubblicazioni cartacee ed elettroniche del governo, delle tre forze armate, delle accademie militari, della pubblica amministrazione, della pubblica sicurezza, dei carabinieri, della Guardia di finanza, delle aziende private, degli studi professionali, delle grandi case editrici, degli editori indipendenti, dei musei, delle mostre d’arte, delle università, compresa l’università di Firenze e la Scuola normale di Pisa. E si trovano inoltre nei saggi accademici, non esclusi quelli umanistici e linguistici, nei messaggi che propaga l’industria della persuasione, nelle colonne sonore del cinema, nel teatro, nelle insegne dei negozi, nelle offerte e nelle domande d’impiego, nei contratti collettivi di lavoro, nella descrizione dei beni di consumo, nei supermercati, negli scambi tra bottegai e acquirenti. Se è così, se non mi sbaglio, siamo di fronte a un fenomeno di tale portata da indurre a pensare che l’amore per l’anglismo sia in aperta concorrenza, nella scala delle predilezioni, con il gusto per il viaggio, con il culto degli oggetti firmati e perfino con l’amore per l’uso ludico dell’automobile.

Perché? I motivi andrebbero a mio avviso cercati – in Italia – nel generico desiderio d’emancipazione della massa, nel suo atavico complesso d’occidentalizzazione e nella sua ferma volontà di non tornare indietro. Sorvolo sui primi due stimoli, dei quali si sono occupati ad abundantiam storici e sociologi, e mi soffermo sul terzo, d’origine molto più recente. Negli ultimi cinquant’anni è avvenuta una mastodontica ridistribuzione del reddito. L’italiano contemporaneo viaggia, va in vacanza all’estero, gira in macchina, fa parte d’un nucleo familiare che ne possiede più d’una, ha la casa di proprietà e spesso pure una seconda per i fine settimana e la villeggiatura. Poco importa che a questo benessere non faccia da contraltare una pari evoluzione culturale. L’italiano è orgoglioso d’avere annullato il divario che lo separava dalle potenze dell’Occidente nell’unica variabile che per lui conta, il consumo del superfluo, e rifugge con sdegno da tutto ciò che lo riporta al passato. Ora si sente internazionale, si sente un cittadino del mondo: la ripetizione impacciata di parole inglesi, delle parole di quella lingua dominante che lui o non conosce o conosce in modo pedestre, lo lusinga, lo tonifica, lo rafforza in questo abbaglio. L’equivalente italiano, l’adattamento, la finale vocalica rappresentano per lui un ritorno all’angustia della provincia. L’anglismo, in breve, è l’automobile, che si guida strombazzando; il termine italiano, invece, il somaro, che nelle salite si segue a piedi tenendolo per la coda per paura dei calci ai ginocchi.

Se questo schizzo è esatto (o almeno plausibile) il problema dell’accettabilità è duplice. Si cozza cioè prima, strano ma vero, contro il rifiuto della lingua italiana addirittura per parole della vita attiva quotidiana; e ci si scontra subito dopo con la difficoltà di pescare traducenti, adattamenti o perifrasi con un discreto indice potenziale d’approvazione. Quest’ultimo problema però, se non va sottovalutato, non va neanche sopravvalutato. Dire che l’abuso di anglismi è un fenomeno che attraversa gli strati sociali al di sopra di quel che rimane del proletariato non significa che tutti gli italiani, posti davanti a un adattamento, manifestino preferenze omogenee. A mio parere, Marco ha dunque pienamente ragione nell’accogliere il consiglio della linguista Castellani Pollidori e considerare efficaci e sufficienti, per la prova d’accettabilità, la «dignità di struttura» e la «perspicuità semantica». Per un motivo e per una riflessione in prospettiva, che indico concludendo così questo mio intervento:

1. Gli italiani , presi uno per uno, sono fluttuanti e anarchici nelle predilezioni individuali. È difficile, e forse irrealizzabile, trarre le coordinate di quelle che potrebbero rivelarsi di volta in volta le loro scelte. I più sono privi di sensibilità linguistica, e infatti parlano per cavarsela e scrivono in punta di penna, senza governare adeguatamente il registro adatto alla circostanza. Tentando di scoprire il filo conduttore per accontentarli, si corre il rischio d'imbattersi in ogni occasione in pseudo-argomenti cavillosi fondati sulla dilagante «cultura della controindicazione».

2. Per imprevedibile che possa apparire al momento, non è tuttavia da escludere un salto del senso d’urgenza in un futuro più o meno lontano in queste eventualità. Nel caso che l’industria della persuasione, in particolare la tivvù, si convinca a adoperare termini italiani divulgando contemporaneamente, nelle forme più disparate, messaggi che sottolineino l’incongruenza (e la ridicolaggine) d’un popolo in prima fila nel vezzo degli anglismi e nel consumo godereccio e in coda nella conoscenza dell’inglese e nelle scoperte scientifiche e tecnologiche. E/o nel caso che il Paese incrementi drasticamente la ricerca non solo nei campi della scienza e nell’informatica, ma anche nella sociologia, nelle discipline umanistiche e nella linguistica sia teorica sia pratica, creando in tal modo il terreno favorevole a un’espansione naturale della terminologia in tutti i settori e alla progressiva riduzione delle parole inglesi.
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Re: ANALISI SOCIOLINGUISTICA

Intervento di Freelancer »

Uri Burton ha scritto:[...]Negli ultimi cinquant’anni[...]L’equivalente italiano, l’adattamento, la finale vocalica rappresentano per lui un ritorno all’angustia della provincia[...]
Discorso plausibile ma che va fatto risalire a ben più di cinquant'anni fa, dato che cose analoghe le diceva già Bruno Migliorini nel 1938:
A pagina 97 di [i]La lingua italiana nel Novecento[/i] Bruno Migliorini ha scritto:[...]la lingua è ancor oggi davanti a un dilemma non risolto; essa, pur sentendo il disagio che le recano voci non conformi al ritmo generale della lingua, non sa decidersi ad accettare le forme toscane, che le sembrano limitate da un punto di vista territoriale, e popolari o addirittura plebee da un punto di vista sociale.
Una delle cause principali dell'accettazione dei forestierismi integrali, sulla quale concordano tutti i linguisti, era pure già stata individuata da Migliorini:
A pagina 20 di [i]La lingua italiana nel Novecento [/i]Bruno Migliorini ha scritto:È debolissima, insomma, nella lingua di oggi la capacità d'assimilazione fonetica; troppo fortemente ha lavorato a sminuirla la predominanza della lingua scritta sulla lingua parlata.
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Intervento di Marco1971 »

Non crede, caro Roberto, d’aver saltato a piè pari il sostantifico midollo dell’intervento magistrale di Uri Burton? :roll:

La questione – alquanto marginale in questo filone – della penetrazione di forestierismi per via scritta si potrebbe affrontare aprendo un filone apposito (e la inviterei a farlo se ne vuol disquisire); a me pare tuttavia che non sia un fatto profondamente vincolante, altrimenti non si spiegherebbe come mai ancor oggi la pratica dell’adattamento grafico e fonetico sia ben viva presso i nostri cugini ispanofoni e lusofoni.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Intervento di Freelancer »

Marco1971 ha scritto:Non crede, caro Roberto, d’aver saltato a piè pari il sostantifico midollo dell’intervento magistrale di Uri Burton? :roll:
Amo la sinteticità; e trovo che in due righe Migliorini abbia centrato il bersaglio. E lo ha fatto quasi 70 anni fa. :wink:
Marco1971 ha scritto:La questione – alquanto marginale in questo filone – della penetrazione di forestierismi per via scritta si potrebbe affrontare aprendo un filone apposito (e la inviterei a farlo se ne vuol disquisire); a me pare tuttavia che non sia un fatto profondamente vincolante, altrimenti non si spiegherebbe come mai ancor oggi la pratica dell’adattamento grafico e fonetico sia ben viva presso i nostri cugini ispanofoni e lusofoni.
Lei sa che in Spagna la Real Academia provvede di continuo ad addomesticare termini forestieri di nuova entrata anziché consentirne la circolazione allo stato naturale. Quindi per ogni paese la situazione è diversa.
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Intervento di Marco1971 »

Freelancer ha scritto:Lei sa che in Spagna la Real Academia provvede di continuo ad addomesticare termini forestieri di nuova entrata anziché consentirne la circolazione allo stato naturale. Quindi per ogni paese la situazione è diversa.
Sí, e non credo che non funzionerebbe da noi se l’Accademia della Crusca avesse lo stesso prestigio e lo stesso potere della Real Academia Española – o se li acquisisse.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Intervento di Freelancer »

Marco1971 ha scritto:
Freelancer ha scritto:Lei sa che in Spagna la Real Academia provvede di continuo ad addomesticare termini forestieri di nuova entrata anziché consentirne la circolazione allo stato naturale. Quindi per ogni paese la situazione è diversa.
Sí, e non credo che non funzionerebbe da noi se l’Accademia della Crusca avesse lo stesso prestigio e lo stesso potere della Real Academia Española – o se li acquisisse.
Lei sa certo che Giovanni Nencioni ha scritto che lo Stato italiano si è sempre disinteressato della lingua nazionale. Vede cambiamenti all'orizzonte?
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Intervento di Marco1971 »

Freelancer ha scritto:Lei sa certo che Giovanni Nencioni ha scritto che lo Stato italiano si è sempre disinteressato della lingua nazionale. Vede cambiamenti all'orizzonte?
Non so quanto azzardato possa essere, ma potremmo comunque tentare di scrivere una lettera al Presidente della Repubblica, che mi sembra sia sensibile alla tutela dell’italiano. Chi ha idee e se la sente di partecipare può mettersi in contatto con me.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Intervento di Freelancer »

Marco1971 ha scritto:La questione – alquanto marginale in questo filone – della penetrazione di forestierismi per via scritta si potrebbe affrontare aprendo un filone apposito (e la inviterei a farlo se ne vuol disquisire); a me pare tuttavia che non sia un fatto profondamente vincolante, altrimenti non si spiegherebbe come mai ancor oggi la pratica dell’adattamento grafico e fonetico sia ben viva presso i nostri cugini ispanofoni e lusofoni.
Secondo me invece è pertinente, se ci mettiamo d'accordo (e penso che per lei andrebbe bene) che "sociolinguisticamente accettabile" non esclude a priori nessun tipo di traducente, adattamento, sostituto, ma semplicemente ne indica la maggiore o minore probabilità di diffusione. Ogni termine fa storia a sé e va verificato di volta in volta. Ad esempio, circola in rete un termine che penso la farà felice: niubbo, adattamento di newbie.
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Intervento di Marco1971 »

È quello che siamo venuti dicendo, mi pare (sottolineando la difficoltà di stabilire il grado d’accettabilità se non in termini strutturali e semantici). Certo, niubbo è bellissimo.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Intervento di bubu7 »

Ladim ha scritto:Gentile Bubu7, potrebbe sembrarle ovvio se, diversamente da quanto suggerisce lei (ma il suo discorso ha pur un suo equilibrio), io volessi ritenere opportuna anche la mia opinione, quindi la mia sensibilità linguistica?


Certo, caro Ladim. Purtroppo questo mezzo di comunicazione a volte rende difficile esprimere le sfumature di significato. Dia sempre per assodato, la prego, che il mio atteggiamento è quello del ricercatore e non quello del contradaiolo. Non ho alcun interesse a difendere a oltranza nessuna posizione. Il mio intento è quello di cercare di capire sempre meglio le caratteristiche della realtà (in questo caso, linguistica) e le leggi che la governano. La massima soddisfazione la ottengo quando sono costretto a rivedere le mie convinzioni e non quando riesco a difenderle. :)
Ladim ha scritto:In ultimo, non sarebbe ozioso, io credo, circoscrivere meglio – se possibile – questi fattori sociolinguistici...
Questa è anche l'aspirazione e l'obiettivo degli studiosi di sociolinguistica. Lei però sa meglio di me che col progredire della complessità dei fenomeni analizzati (e quelli sociali sono tra i più complessi e inoltre chiamano in causa moltissime discipline) è sempre più difficile dare delle definizioni che soddisfino criteri matematici. Questo non vuol dire che non è possibile una classificazione delle influenze sociali sulla lingua e la definizione di gerarchie (analisi sociolinguistica dei componenti di una parola o della sintassi a un estremo e analisi dell'influenza dei media e del costume all'altro) ma che da queste classificazioni non possiamo aspettarci il rigore di quelle grammaticali.

La mia analisi di ludomanetta cercava di applicare, da dilettante, quanto ero riuscito a digerire dai miei studi di sociolinguistica. Essa era "in buona parte", come giustamente ha detto Marco1971, impressionistica. L'intento era di presentare un ragionamento e fornire alcuni elementi di giudizio che spingessero qualche nostro lettore ad approfondire l'argomento delle relazioni tra sociolinguistica e onomaturgia.
Ladim ha scritto:Se a lei va bene, le chiederei di scegliere (tra quelli proposti e no) un sostituto che, a suo modo di vedere, rispetti abbastanza bene i – chiamiamoli così – parametri di accettabilità sociolinguistica. Leggerei molto volentieri una sua analisi, al riguardo...
Vedrò quello che posso [riesco a] fare... :)

Uri Burton ha scritto: D’altra parte, un’analisi per determinare se una nuova parola sarà gradita o no non può ridursi a una petizione di principio, a un giudizio che dà per scontato ciò che è da dimostrare. Dovrebbe invece cominciare col dividere i parlanti per età, genere, classe, lavoro, prestigio e potere, per poi esprimere ipotesi operative e quindi verificabili alla luce dell’esperienza: che in questo caso si ricava soltanto dopo aver interpellato, con quesiti non suggestivi, campioni rappresentativi delle varie categorie.
Ma questo è quello che è (già) stato fatto dagli studi sociolinguistici.
Quando Marco1971 dice che io presuppongo l'esistenza degli archetipi Informatico e Ragazzino, pensando in questo modo di ridicolizzare la mia ipotesi, sta evidenziando proprio due di quelle suddivisioni che lei ha elencato e che identificano delle varianti sociolinguistiche, la prima relativa a un linguaggio tecnico-specialistico e la seconda relativa a una ben individuata (e studiata) variante denominata linguaggio giovanile.
Il fatto che all'interno di un gruppo sociale, ad esempio quello dei giovani, esista una certa variabilità di modi espressivi non significa che non si possano individuare delle costanti (come è stato fatto) che caratterizzano il gruppo e il relativo linguaggio. Chi nega quest'evidenza e afferma che non è possibile prevedere l'accettabilità di un termine all'interno di un gruppo che adotta una varietà linguistica, rifiuta le più elementari acquisizioni delle scienze statistiche. Chi parla solo di dignità di struttura e perspicuità semantica nella pratica onomaturgica, ignorando le considerazioni sociolinguistiche, è fuori dal mondo ed è destinato a rimanerlo.
Ripeto: Castellani ha creato tantissimi termini degni e perspicui, nessuno ha superato la soglia del laboratorio a causa della loro inaccettabilità sociolinguistica.
Se il nostro obiettivo è solo dare sfogo alle nostre pulsioni onomaturgiche siamo sulla strada giusta ma se l'obiettivo è la diffusione del termine non c'è bisogno di essere veggenti per prevedere l'insuccesso del tentativo di diffondere termini come ludomanetta.

P.s.
Uri Burton ha scritto:Gli italiani , presi uno per uno, sono fluttuanti e anarchici...
Su questi e altri luoghi comuni sui caratteri dell'Italiano, mi permetta di non replicare.
La lingua è un guado attraverso il fiume del tempo. Essa ci conduce alla dimora dei nostri antenati.
V. M. Illič-Svitič
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