«Introduzione alla lingua poetica italiana»

Spazio di discussione su questioni di retorica e stile

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Ladim
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«Introduzione alla lingua poetica italiana»

Intervento di Ladim »

Qualche giorno fa, durante una piacevole conversazione tra amici, mi si è ripresentata una domanda in qualche modo relativa a "una" vexata quaestio, ormai poco dibattuta nei circuiti accademici (ma sempre viva!), che già "qualche" anno fa, nel più fervente clima strutturalista, si era presentata più o meno sotto questa forma: che cosa rende un «testo» un «testo poetico/letterario»?

L'argomento, e questo è il mio parere, oggi sembrerebbe lusingare soprattutto il lettore più ingenuo, aduso alle sole letture scolastiche per cui l'alterezza di un professore custodirebbe ancora, e a buon diritto, l'origine confusa di un pur vago principio di letterarietà, sempre applicabile in quella cornice istituzionale (ormai fagocitante "ogni-cosa") che ha nome «Arte». Ribadire questo atteggiamento del lettore, per proporlo come "il" principale elemento in grado di distinguere ciò che è letterario da ciò che non è letterario, pare fatica sprecata se ci rivolgiamo a chi ad ogni modo crede ancora al miraggio di una «differentia specifica», isolata in certe forme "esterne" della letteratura (come la metrica, la prosodia etc.).

Tuttavia, se parliamo di «lingua», specialmente in poesia, si può sì affermare una «differentia», soprattutto per la nostra tradizione letteraria in versi, almeno fino ai primi del '900. Raccoglierei quindi uno degl'inviti d'Infarinato, stendendo due parole sul lavoro, di qualche anno fa, molto ben fatto, di Luca Serianni «Introduzione alla lingua poetica italiana», Carocci 2001 – rendendovi poi partecipi di una brevissima, quanto personale riflessione sulla lingua poetica di uno dei nostri maggiori autori.

Il saggio (immagino ben conosciuto) è portato da una volontà estremamente attenta nel valutare quelli che il Serianni stesso chiama «istituti grammaticali» della lingua poetica; ovvero, sceverando gli aspetti più propriamente linguistici, indica i «ferri del mestiere poetico di là da ogni intenzione d'arte; in una parola: la loro appartenenza alla grammatica poetica dell'italiano classico» etc. (ma basterebbe leggere il breve Ambito e metodi d'indagine di pp. 11-41 per avere un'idea più esatta...).

Vorrei qui tentare, allora, una piccola riflessione (non del tutto libero dal timore di annoiarvi), naturalmente ancorata al lavoro del Serianni (o meglio, a una più recente rilettura del suo lavoro), intorno ai primi 57 versi del primo canto del Paradiso dantesco [che non trascrivo (dal Petrocchi), ché non ce ne sarebbe alcun bisogno!]. Una riflessione di stilistica, ma anche di «grammatica poetica», per un autore, al riguardo, estremamente sfuggente...

Riproponendo quindi (umilmente!) l’impostazione indicata dal Serianni nel suo lavoro (ripeto: relativamente ai primi 57 vv. di Pd I), a parte i casi di evidenti sicilianismi o provenzalismi, tutto sommato resterebbe dubbia l’individuazione di quali forme possano comparire indiscutibilmente sotto la dicitura di “franchi poetismi”, soprattutto considerando che proprio da Dante la tradizione successiva, (e soltanto) con l’irrinunciabile mediazione petrarchesca, raccoglierà molte delle forme considerate e catalogate dallo stesso Serianni. Delineare qui la “grammatica poetica” di un autore come Dante presenterebbe allora una fondamentale difficoltà: quali elementi della lingua adoperata dall’autore possono di fatto esibire, in sincronia “dantesca”, una sicura marcatezza poetica, là dove il rapporto con la recente tradizione letteraria è complicato dal cosiddetto “plurilinguismo” dantesco? Sarebbe ottima cosa, quindi, distinguere subito le marche dello stile elevato già caratteristico del Paradiso, presentando distintamente quegli elementi d’uso poetico, condizionati dalla precedente tradizione letteraria, riferibili in ultimo a una più esatta (e preesistente) “istituzione grammaticale”.

Sotto il profilo fonetico, dunque, tra le forme che si segnalano, al primo verso compare move, variante “dotta” di «muove», legata alla tradizione siciliana per il vocalismo tonico monottongato (attiva anche la tradizione provenzale). Lo stesso tratto sarebbe presente nel loco del verso 56, in cui si potrebbe registrare anche il consonantismo sordo – altro connotato, in alcuni casi, indice di una più decisa qualificazione poetica, specie se latineggiante.

Al verso 7 incontriamo disire, il cui vocalismo siciliano ne indica l’appartenenza al linguaggio poetico.

Non agevole l’individuazione di ire al verso 9: sarebbe più cauto considerare questo verbo come un generale latinismo, piuttosto che una forma tipica e già schiettamente poetica – ma lo statuto di latinismo qui assume un suo valore specifico, in una lingua che riscopre evidentemente il proprio riferimento più illustre nella tradizione letteraria latina.

Dimandi al verso 15: sebbene il vocalismo protonico esibisca una patina linguistica in qualche modo trascelta, anche secondo quanto suggerito dal Serianni (p.33), non andrebbe considerato come poetismo, di contro alla più consueta forma con vocalismo labializzato; e, del resto, nemmeno il referente etimologico latino suggerisce una valutazione in qualche modo discriminante. Lo stesso amendue, al verso 17, risulterebbe essere una forma fiorentina non marcata stilisticamente. Non franco poetismo nemmeno uopo, al verso 18 (qui privo della relativa coloritura arcaizzante), il cui uso sarebbe forse da ascrivere al più generico stile elevato (tuttavia libero dall’influsso latino). Per l’intrar al verso 18, andrebbe segnalato il vocalismo latineggiante, attivo anche in triunfare (al verso 29), parturir (verso 31), retro (v. 35), Surge (v. 37) e, più di tutto, in licito che, insieme a lece (v. 56), d’uso comune nel Duecento e nel Trecento, figureranno nel Petrarca lirico. Per mercé al verso 56, è preferita la variante latineggiante su quella provenzale-siciliana merzé. Rimaso, del verso 18, apparterrà alla tradizione e vi figurerà come franco poetismo, anche d’uso semplicemente letterario nell’800, sino alla Ventisettana manzoniana; già adoperato da Guittone, da Cavalcanti, sconosciuto al Guinizzelli, Dante sembrerebbe averlo inserito solo nella Commedia (otto occorrenze in tutto; contandone poi tre nella sola prosa del Convivio...).

Abbastanza ricco il drappello dei latinismi: gloria (v. 1), universo, penetra, risplende (v. 2), intelletto (v. 8 ), memoria (v. 9), regno, santo (v. 10), mente (v. 11), materia (v. 12), ultimo (v. 13), spira (v. 19), Marsia (v. 20), vagina, membra (v. 21), divina (v. 22), beato (v. 23), manifesti (v. 24), coronare (v. 26), cesare, poeta (v. 29), umane (v. 30), il già ricordato parturir, letizia (v. 31); delfica, deità (v. 32), peneia (v. 33), mortali (v. 37), mondana (v. 41), modo, tempera (v. 42), emisperio (v. 45), sinistro (v. 46), vidi (v. 47), atto (v. 52), immagine (v. 53), fissi, uso (v. 54), licito (v. 55), mercé, loco (v. 56). La densità delle voci dotte aderisce auspicabilmente allo stile elevato in qualche modo riconducibile all’aptum della terza cantica.

Schietto poetismo è però il condizionale siciliano in ia del verso 32, dovria. Riguardo all’avea del verso 43, con Serianni, «le forme senza labiodentale, abituali nell’italiano antico, hanno rappresentato per molti secoli un’alternativa non marcata, o debolmente marcata, rispetto alle forme concorrenti (almeno per la classe in -ere)» (pag. 184); avea andrà ancora considerato come uno strumento utile al giusto computo sillabico, o più semplicemente abituale in poesia, senza escludere l’uso prosastico.

Il fiorentinismo arcaico giugne del verso 39, in Dante, non sarebbe poetismo (tant’è che nella Vita Nuova e nel Convivio compare soltanto nella prosa). Ancora l’unquanco al verso 48 non apparterrebbe alla lingua poetica, e rispecchierebbe alcuni tratti demotici non fiorentini.

Da ascrivere allo stile poetico sono invece le numerose forme apocopate o elise: ciel (v. 4), quant’ (v. 10), far (v. 11), valor (v. 14), dar (v. 15), or (v. 17), intrar (v. 18 ), vedra’, parturir (31), miglior (v. 35), tal (v. 44), riguardar (v. 47), pellegrin, tornar (v. 51); gran (v. 34) e, in particolar modo, piè (v. 24), le cui apocopi sono sillabiche. In senso contrario andrebbe quel buono al verso 13, in forma piena davanti a parola iniziante con vocale.

Di passaggio si segnalano le preposizioni articolate analitiche de la, de le (v. 21), ne l’ (v. 53), de l’ (v. 57), di cui è già probabile la pronuncia intensa della laterale.

Infine l’epitesi del rimante tue al verso 19.

Autentici poetismi lessicali, riconducibili a una sicura relazione con la tradizione letteraria precedente, allora sarebbero solo move, disire, dovria e, nonostante l’affricata palatale, mercé (forse anche suso, ampiamente adoperato dall’“amico” Cino da Pistoia).

Per quel che riguarda la microsintassi: oltre alle consuete e più generali anastrofi del predicato verbale, e, poniamo, alle costruzioni marcate retoricamente come il chiasmo del verso 3 «in una parte più e meno altrove», si segnala la precessione del complemento partitivo al verso 4: «che più de la sua luce prende»; e ai versi 10/11 «quant’io del regno santo ... potei far tesoro»; soprattutto del complemento di specificazione, al verso 14: «fammi del tuo valor si fatto vaso». Una qualche marcatezza è rintracciabile nell’anteposizione del participio passato in «Fatto avea», al verso 43. La locuzione preposizionale ‘in + su’ per i complementi di stato in luogo, ai vv. 31 e 46: «in su la lieta /delfica deità», «in sul sinistro fianco» (in cui si può anche notare, per la struttura del sintagma nominale, la successione determinante/determinato, già altrove in v. 40 miglior corso, migliore stella; v. 30 umane voglie; v. 23 beato regno; v. 22 divina virtù; e, in direzione opposta, col possessivo, al v. 19, petto mio etc.).
amicus_eius
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Intervento di amicus_eius »

Il problema di una grammatica della poesia è alquanto controverso. Definire la questione richiederebbe, forse, anche alcune suddistinzioni. Il problema posto è relativo alla sola lingua poetica dell'italiano? Non credo, perché il bell'intervento di Ladim sembra muovere da considerazioni di carattere generale.

Relativamente al linguaggio poetico dantesco, dovremmo anzitutto prendere le mosse dalla stessa teorizzazione di Dante, dalla classificazione delle parole che l'Alighieri propone nel De vulgari eloquentia, una categorializzazione nata dall'applicazione di generici criteri di eufonia, conservatisi nella tradizione della retorica (greco-)latina sopravvissuta nel Medioevo, e dall'opposizione fra municipalismo (voce dialettale, locale) e voce cardinale aulica curiale. Il Paradiso, non a caso, mostra una prevalenza di parole "pettinate e lisce", spesso di marcati latinismi (talvolta si giunge all'inserzione cumulativa di voci latine scrie scrie: "... già contento requievi/di molta ammirazion, ma ora ammiro/com'io trascenda questi corpi levi..."); l'analisi del Serianni in tal senso coglie perfettamente nel segno.

A partire dalla teorizzazione dantesca (e dalla pratica di selezione classicistica del Petrarca, delle novelle "tragiche" del Boccaccio, dell'edonismo linguistico cinquecentesco che canonizza l'uno e l'altro modello) dovremmo dunque con estrema facilità giungere alla precisa definizione di un asse paradigmatico del linguaggio poetico, a partire dai criteri di "curialismo" (o se si vuole, di "urbanitas") ed eufonia, opposti a cacofonia e municipalismo. Intervengono, però, considerazioni di carattere più generale.

Difficile non considerare poesia lo stile di pronunciato carattere comico-realistico di certi canti dell'Inferno. Tuttavia versi (citati in ordine sparso e senza preciso riferimento stichico, non me ne voglia, vado a memoria) come "ed elli avea del cul fatto trombetta"; "vidi un col capo sì di merda lordo"; "il tristo sacco/ che merda fa di quel che si trangugia"; parole (sempre citate alla spicciolata, come si presentano alla mente), come "dilacco", "babbo", "gabbo", "pappo", "dindi", "introcque", "schianze", "buffa" etc. etc.; espressioni forti e crude come queste appena elencate sono l'esatto opposto del paradigma poetico ideale definito dallo stile "tragico" delineato nel De vulgari eloquentia: il linguaggio dell'Inferno, costituisce, in verità una sorta di antiparadigma (non a caso si parla di "morta poesì", all'inizio del Purgatorio). L'antiparadigma, naturalmente, ha una sua assoluta legittimità retorica, stante la teorizzazione dei tre stili e l'idea di decos (prépon) ad essa sottesa.

Da questo aspetto si ricava, tuttavia, un dato di ovvietà lapalissiana, cioè che la fisionomia dell'asse paradigmatico del linguaggio poetico (e lato sensu letterario), assume tratti meno univoci di quanto sembrerebbe a prima vista. Estendendo poi il discorso da Dante ai suoi exemplaria latina, Virgilio e Orazio in particolare, e alle radici retoriche (greche e latine) dei loro assunti metapoetici (di principi metapoetici e stilistici enunciati a gola spiegata si può parlare più per Orazio che per Virgilio, in verità), il problema si complica e, credo, si pone in tutte le sue sfaccettature.

Orazio, preoccupato di affermare uno stile di misura classicistica, sembra più volto a privilegiare l'aspetto sintagmatico del linguaggio poetico, che non l'aspetto strettamente paradigmatico (dixeris egregie notum si callida verbum/reddiderit iunctura novum). La formazione di un linguaggio poetico della latinità passa infatti attraverso la strada della mutuazione dei modelli greci in difficile convivenza con la necessità di affermazione autonoma di una letteratura che sia in tutto e per tutto latina. La callida iunctura è la soluzione stilistica perfetta per la letteratura di una lingua i cui morfi opacizzati non permettono di creare molteplici e trasparenti composti, come accade in greco. La difficile e riuscita operazione culturale dei poeti di età augustea, di porsi accanto ai modelli greci come modelli essi stessi, si fonda su questa scoperta essenziale, nell'interfaccia fra l'articolazione (a livello di morfologia lessicale) del contenuto della forma del lessico latino e dela forma del suo contenuto. Non a caso i retori e i kritikòi più tardi attribuivano a Virgilio e a Orazio una sorta di kakozelìa anomala, fatta non di glosse rare e frasi trascelte, ma di "parole normali", cioè di una morfosintassi e di un lessico che in sé e per sé non si qualificavano apertamente come poetiche. La dimensione letteraria è data per lo più da una speciale "sintagmatizzazione" di paradigmi morfosintattici e lessicali per altro verso usuali; spariti i genitivi greci omerizzanti di Ennio in -oeo, ridimensionati a pochi, rari casi, i genitivi in -ai, azzerate le forme antiquae come induperator o caelus, che suonano anche volgari, azzerati i composti-macedonia di Pacuvio e di Accio, che davano luogo a versi mostruosi tipo "Nerei repandirostrum incurvicervicum pecus"; ridimensionata l'allitterazione, che è una caratteristica del latino arcaico (grammatici classicisti tardi detestavano, giudicandola una verborum structura absurda et indecens, l'allitterazione multipla, da erotosonetto sanguinetiano ante litteram, di versi come "Africa terribili sonet horrida terra tumultu", "maxima multa minax molitur machina muros", "O Tite, tute, Tati, tibi tanta, tyranne, tulisti", tutti di Ennio); spariti gli iconismi linguistici al limite della decenza come "saxo cere comminuit brum", dove il "cerebrum" sminuzzato dal colpo di pietra è sminuzzato anche linguisticamente; sparite le strane onomatopee tipo "At tuba terribili sonitu taratantara dixit", sempre enniani. Il linguaggio di Ennio negli Annales, il suo mastodontico poema epico storico, si configura, per lo sforzo creativo, come linguaggio poetico paradigmaticamente definito. Il classicismo augusteo darà forma definitiva alla maniera poetica puntando sulle risorse dell'inventio sul piano sintagmatico, previa dissoluzione e ironizzazione (si vedano le parodie di Orazio agli esametri tipologicamente scardassati dello stesso Ennio) di quel linguaggio poetico arcaico, che infatti, fra l'altro, non passerà all'umanesimo. Tutto questo nonostante il fatto che i latini avessero un orecchio finissimo per i livelli stilistici e i registri linguistici, a livello di paradigmi...

Andando ancora più a monte, nella tradizione retorica greco-latina che è alla base della differenziazione dantesca dei tre stili, si scopre un ulteriore spunto di riflessione.

Gli antichi retori greci (tre per tutti, Aristotele a parte: lo pseudo-Demetrio Falereo del "Perì hermenèias", il Dionigi di Alicarnasso del "De compositione verborum", e infine, all'inizio dell'età tardo-antica, l'Ermogene di Tarso del "De ideis") mostrano una complessa trattazione delle differenze fra gli stili. Senza entrare nel dettaglio, i vari stili o armonie stilistiche o idee o forme di stile che essi descrivono, hanno, in sé e per sé, le loro caratteristiche definite a livello paradigmatico, sul piano ritmico, fonetico, morfosintattico, lessicale, nulla escludendo, nemmeno le eteree e inafferrabili plaghe dei soprasegmentali. Tutti però, da diverse prospettive, convergono su un punto: Aristotele parla di misura stilistica, lontana dagli eccessi, di mescolanza; lo ps.-Demetrio, che se non è il Demetrio Falereo, finissimo retore aristotelico, tiranno di Atene, amico di Menandro, è tuttavia vicinissimo alla sua scuola, parla di prépousa mìxis ton charaktèron dei singoli autori, "mescolanza appropriata degli stili" mentre i tipi di stile da lui descritti (ischnòs o sottile, deinòs, o forte, glaphyròs o leggero, megaloprepès o grandioso) e ben paradigmatizzati, sono convenzioni espositive; Dionigi di Alicarnasso parla di armonia "èukratos" degli stili, identificando le armonie estreme, quella aspra e quella leggera, come eccessi; Ermogene erige a modello di oratoria Demostene creando preventivamente la categoria critico-retorica della deinòtes perì tou lògou, la forza-eloquenza del discorso basata sull'uso opportuno di tutte le possibili forme di stile. In poche parole, la validità stilistica della scrittura sul piano letterario è identificata, dai retori, non tanto nell'adesione a un paradigma, ma nell'adeguato padroneggiamento dei paradigmi possibili e nella capacità di servirsene con senso di opportunità (eukairìa e prépon). Un bilanciamento fra adesione al paradigma visto come strumento espressivo e capacità di riorientare il paradigma sulla base della situazione sintagmatica (nel senso più ampio, in parte metaforico, del termine) dell'enunciato.

Il discorso ci ha portato apparentemente un po' lontano dallo spunto della riflessione di Serianni su Dante e dal problema della lingua poetica. In realtà lo spunto e la questione di partenza sono sempre stati al centro del discorso.

A partire dalle riflessioni qui condotte in modo forse troppo cursorio, mi sembra di poter concludere che la letterarietà di un registro o di uno stile non risieda semplicemente in aspetti paradigmatici tout court, quanto piuttosto nell'efficacia di (ri-)orientare gestalticamente le strutture logico-linguistiche di classificazione del reale. Un'operazione di carattere (mi si perdoni l'ennesimo composto) meta-paradigmatico.

Mi permetto, in clausula (ormai ne ho dette tante), un piccolo esquisse genericamente valutativo, forse di sapore vagamente lotmaniano (ma di un Lotman parecchio imbastardito). In epoche passate la letteratura italiana ha sofferto, sul piano della lingua e dello stile, di una adesione supina alle forme di autori "canonizzati" (mi stava scappando l'ennesimo composto, un'iperparadigmatizzazione). Nelle sue forme deteriori, questo fenomeno si è manifestato nel petrarchismo di maniera di certi poetucci "minorrimi" ( :lol: ) -i quali per altro non sono privi di interesse, a un occhio più attento- o nel manzonismo becero di certa prosa ottocentesca romanticheggiante... Molta letteratura contemporanea, sulla scia di fenomeni culturali in sé e per sé validissimi, sembra invece aver cavalcato troppo facilmente la tigre della dissoluzione dei paradigmi, affidandosi a una sintagmaticità bruta e amorfa. Di qui da un lato la cacozelia dell'inselvatichimento di molta produzione letteraria (specialmente, ma non solo lirica), dall'altro il proliferare di molta letteratura (specialmente, ma non solo, narrativa) orientata sul mercato...
Ladim
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Intervento di Ladim »

amicus_eius ha scritto:Il problema posto è relativo alla sola lingua poetica dell'italiano? Non credo.
Esattamente. La lingua resta un aspetto, e nemmeno fondamentale: essa è uno strumento, o meglio, le parole sono l'«oggetto» della letteratura, servendo benissimo al loro scopo etc. Le Sue considerazioni, per altro, rievocano (con mirabile competenza) i 'comportamenti' che nella storia del pensiero letterario gli uomini via via hanno chiarito a loro stessi nella persuasione di credere a una letterarietà impressa, più che altrove, appunto nelle dimensioni paradigmatiche e sintagmatiche della lingua (nella forma e nel contenuto; nei valori che alla poesia pre-esistono, ossia quelli d'alto profilo umano e no etc.): in realtà costoro parlavano soltanto [avverbio, mi si perdoni, domandato da questioni meramente argomentative] di «poetiche».

Come — se mi permette — s'inizia nella forma di una particolarissima poetica — bella (e affine alla 'dantesca' del poema) — la proposta che lei stesso definisce qui di séguito, chiudendola con grande raffinatezza su una considerazione più generale (che, come 'lettore', condivido perfettamente), ma che soddisfarebbe requisiti ancora di ordine 'letterario', per un'ipotesi di come 'potrebbe essere' la letteratura, e non di ciò che perterrebbe alla 'letterarietà':
mi sembra di poter concludere che la letterarietà di un registro o di uno stile non risieda semplicemente in aspetti paradigmatici tout court, quanto piuttosto nell'efficacia di (ri-)orientare gestalticamente le strutture logico-linguistiche di classificazione del reale
Il carattere delle mie considerazioni, ha visto bene, erano generali: poi ho scartato bruscamente sul particolare, sapendo che la lingua rispetta sempre le sue convenzioni, in poesia come 'al bar(re)'...
Ultima modifica di Ladim in data mar, 08 nov 2005 1:13, modificato 1 volta in totale.
atticus
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Intervento di atticus »

Nulla da aggiungere, nulla da togliere alle Vostre puntuali riflessioni.
Ritocco, a questo punto, il quesito iniziale:
che cosa rende un «testo poetico letterario» "opera d'arte"?
Da parte nostra si prenda in considerazione, ovviamente, et in primis, la lingua.
Ladim
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Intervento di Ladim »

Caro atticus, temo di doverla deludere — ma è una questione molto delicata, che chiederebbe anzitutto di precisare bene il valore della parola 'letterarietà' (e al riguardo non varrebbe l'appoggio di nessun dizionario), avendo per fermo che con 'letteratura' intendiamo un determinato corpus di testi. Ma devo deluderla perché la lingua, così coinvolta nella 'letteratura', ha ben poco che fare invece con la 'letterarietà', che resta una proprietà paradossalmente estranea all''opera' (Jakobson, si sa, parlò di 'funzione poetica', cogliendo un aspetto, sebbene importante, non del tutto pertinente — tuttavia, sia chiaro, la mia è una 'posizione', e come tale soggiace ai sottili rigori della persuasione).

L'intervento e le personali considerazioni di amicus_eius, pur estendendo i limiti della discussione al di fuori di una dimensione segnatamente 'grammaticale', non si allontanerebbero però dai ricchissimi dominî dello 'stile' (sebbene, nei suoi termini, siano coinvolte molto a proposito le «strutture logico-linguistiche» di una possibile «classificazione del reale» etc.), confinando il suo piacevolissimo e, per altri motivi, illuminante esame entro le spire di ciò che possiamo giudicare ancora un complesso 'sistema' letterario. Cercare di capire, invece, che cosa renda un testo un'opera letteraria, solleciterebbe un ben diverso sforzo di astrazione, cioè a dire considerare il 'fatto' osservandolo, per dir così, esclusivamente 'dal di fuori'.
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miku
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Intervento di miku »

Testi 2 di Heissenbüttel si apre con questa citazione:

A work of literature is, first of all, an organised, purposeful sequence of words. - René Wellek
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giulia tonelli
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Intervento di giulia tonelli »

René Wellek ha scritto:A work of literature is, first of all, an organised, purposeful sequence of words.
...e quanto siamo distanti da una definizione sensata lo indica il fatto che questa si applica anche alla lista della spesa :)
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miku
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Intervento di miku »

Ecco, questo è un fatto interessante: altrove si è già parlato del saggio di Fish e dei suoi scherzetti agli studenti, quando sottoponeva testi non letterari in lingue occulte o inventate, ma che producevano comunque informazioni e ricorrenze, molto simili ai meccanismi di reiterazione tipici della poesia...
Ladim
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Intervento di Ladim »

Una caratteristica della 'letterarietà' sarebbe appunto quella di attribuire, a una qualsiasi 'sequenza di parole', una pressoché radicale e pervadente semanticità... Fish, con i «suoi scherzetti», sottolineò una realtà chiara a tutti, ma scarsamente tematizzata: l'individuo vede ciò che può riconoscere; poi sta al buonsenso distinguere un'idea buona da un'idea cattiva. Così la responsabilità di chi formula un'interpretazione — non necessariamente letteraria — sottostà alla sola intelligenza argomentativa, quand'essa muove da premesse 'ragionevoli' e ad ogni modo condivisibili (ma che cosa condividiamo, se discutiamo di letteratura, quando abbiamo sottomano ciò che potrebbe 'anche' sembrare una «lista della spesa»? — domanda, questa, che oggi dovrebbe apparire meno sconcertante, soprattutto dalle 'avanguardie' in poi...)...
amicus_eius
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Intervento di amicus_eius »

Ricompaio inopinatamente in questo filone di discussioni e chiarisco alcuni punti del mio intervento che mi paiono essere stati recepiti come meno chiari. Nel farlo cerco di rispondere ad Atticus, tentando di esporre che cosa, a mio modesto parere (per quello che il parere di un signor nessuno, per giunta pseudonimato, come il sottoscritto, può valere), fa di un'opera letteraria un'opera d'arte.

Il buon Ladim mi attribuisce una prospettiva limitata al problema dello stile; inoltre vede, nel mio intervento, non tanto una proposta di definizione di letteratura, quanto una proposta di poetica.

Certamente lo stile è un elemento importante della questione (di qui gli interventi arguti di Miku e di Giulia Tonelli sulla citazione wellekiana). La letteratura è sostanzialmente linguaggio. Uso non ordinario del linguaggio. Ora, è noto, dalla teoria di Austin sugli atti linguistici, che ciascuno, producendo un atto retico, nel momento in cui dice qualcosa, mette in moto, con il suo atto locuzionale, delle forze illocuzionali che poi sono alla base dell'effetto dell'atto retico sul piano performativo della perlocuzione. In tal modo è possibile appunto "far cose con parole", come non a caso recita il titolo del saggio austiniano in merito.

Ciò posto, si consideri che l'espressione letteraria è espressione linguistica, o latiore sensu semiotica. Ad essa pertanto le categorie austiniane si adattano perfettamente, con le conseguenze che ora prenderò a delineare.

Percorrendo a volo d'uccello il variegato panorama delle forme letterarie possibili ed effettuali, dal Gilgamesh sumerico fino alle transavanguardie e ritorno, passando per i carmina figurata, gli indovinelli medievali, i calligrammi e il paroliberismo, poesia visiva compresa, un dato di partenza è che la letteratura è comunque, in ultima analisi un atto retico, per il quale valgono pienamente i risultati delle argomentazioni filosofiche di Austin.

Sovrapponiamo a questa linea argomentativa quanto si è detto dello stile. L'atto, tipicamente letterario, di riplasmare il linguaggio, proponendone un uso non ordinario, implica un'azione che investe tutti i livelli della comunicazione linguistica, tanto sul piano sintagmatico, tanto sul piano extrasintagmantico, ovvero, per ritornare alle categorie della filosofia analitica, tanto sul piano della locuzione, quanto sul piano della perlocuzione (la "pervandente semanticità" di cui più che giustamente parla Ladim). Questo implica una ridefinizione delle coordinate semiotiche del contesto interno ed esterno del messaggio linguistico. L'impiego di figure retoriche, metro, ritmo, parole in libertà onomatopee, linguaggi non verbali e quant'altro, determina un gioco linguistico in cui le forze illocuzionali attuano una ridefinizione complessiva del mondo, sia sul piano dell'identità (morale, psicologica, personale, culturale) dell'emittente, sia sul piano di quella del destinatario, operando altresì un riorientamento cognitivo. Il testo letterario identifica, marchia, crea il suo pubblico, il suo mondo di valori, l'ethos dell'autore e del lettore essendo costruiti attraverso un complesso intreccio di giochi linguistici peculiari, che si basano sul concetto "parliamo la stessa lingua-condividiamo la stessa dimensione umana" e ciò è valido sia per l'aedo delle popolazioni arcaiche, che si identificano sulla base della parola articolata e della comprensione (per gli slavi sono fratelli quelli che si capiscono, slavi, appunto, dalla radice indeuropea *kleu- sentire, comprendere, che diventa *slov- *slav- in virtù della satemizzazione; per i greci, quelli che cinguettano lingue straniere incomprensibili, sono individui blesi e alogici, bàrbaroi, dalla radice indeuropea onomatopeica*blb *brb, da cui anche il latino blaesus, e balbus, "balbuziente") e che divinizzano la forza della parola come fondatrice divina del mondo (dal Vak vedico al Logos biblico, passando per l' Ossa Diòs anghelos di omerica memoria e per il gorgiano logos megas dynastes), fino ai poeti e agli scrittori aristocratici delle età più raffinate, che selezionano attentamente il loro pubblico, perché poesis paucis contenta est iudicibus e odi profanum vulgus et arceo, e tutti quelli che non comprendono sono classisticamente connotati (in senso naturalmente negativo).

Oltre a marchiare e a marcare un'identità, individuale, classistica, collettiva (le tre dimensioni ovviamente si contemperano nei modi più impensati), il testo lettarario riorienta le forme dell'esperienza umana sul piano cognitivo. Un esempio è dato dall'esordio dell'Iliade, in cui la fanno da padroni i nessi logici temporali e causali, che sin dall'inizio pongono in essere, davanti agli uditori del canto aedico, il cronotopo della narrazione ed esplicano le ragioni sufficienti degli eventi che in esso campeggiano:
"Chi fra gli dèi aveva fatto contendere Agamennone e Achille? Il figlio di Leto e di Zeus. Ma perché? Perché egli, adirato col re, aveva gettato sul campo la peste maligna. Ma perché? Perché l'Atride aveva maltrattato Crise, che supplicava in nome di Apollo gli Achei. Ma in che circostanza e perché? Perché Crise era venuto alle navi degli Achei, per liberare sua figlia..." etc. etc. Con finissima sensibilità non solo filosofica, ma anche critico-letteraria, si è messa in evidenza questa peculiare struttura investigativa dell'inizio del primo testo della letteratura greca, in opposizione agli esordi laudativo-sacrali di poemi di letterature più antiche come quelle mesopotamiche ed egizie, e la si è correlata con la struttura di fondo del pensiero antico. I filosofi che cercano l'arché delle cose sono figli (eracliteamente discordi, ma innamorati, dei padri) di quegli aedi che cantano (vedi non solo Omero, ma ancor più Esiodo) l'arché teo-cosmogonica del mondo o l'arché di episodi e saghe mitiche, enucleando cause e pretesti (mi si scusi la dittologia fra Tucidide e Guccini) con minuziosa memoria. Si pensi poi al bellissimo articolo che Walter Kranz scrisse a corollario della sua edizione dei Vorsokratiker, condotta a termine in collaborazione con Diels. In esso si discute con penetrante intuito di come una figura retorica prettamente letteraria (epica in particolare), quale la similitudine, finisca, sul piano logico, per costituire il precipuo strumento cognitivo a disposizione del filosofo arcaico, che la prende a prestito da un universo primitivo di riti e canti basati sulla sostanziale sympàtheia fra gli elementi di un universo vivo e animato da imprevedibili forze intenzionali. La similitudine non sarebbe stata uno strumento cognitivo così potente, se non fosse vera la recriminazione di Senofane di Colofone "ex arches kath'Omeron epei memathekasi pantes" ("da principio, visto che tutti si sono addottorati seguendo Omero"), se cioè la letteratura greca non avesse avuto inizio con una poesia in cui non fosse stata centrale la similitudine sviluppata di per se stessa, alla ricerca delle più sottili e recondite forme di rapporto fra elementi apparentemente lontani del reale.

Fin ora ho evocato remoti numi a che scoscendessero dall'Olimpo le loro folgori, ma quel che vale per Omero vale per ogni altro poeta o scrittore passato, presente e futuro, qualunque sia, sia stata, sarà la forma di espressione che egli abbia usato, usi, userà, minimo, mediocre o sommo che egli sia stato, sia, sarà. Sotto tutti i cieli e i tempi, quel che conta, per definire la letterarietà di un testo, è la sua disposizione comunicativa originaria a porsi in senso forte come identificante-orientante per l'emittente e per il destinatario, sul piano dell'ethos e/o della dimensione cognitiva. Non è un caso che le stesse parole "poesia" e "poeta" portino significazione della natura profonda delle realtà a cui alludono, rimontando al concetto di "poiein", fare, creare, cioè alla potenza creatrice-identificatrice dell'atto retico identificabile come poesia.
Questo vale, mi si perdoni quella che in età di postmodernismi, liberalismi più o meno ironici, derive destinali e pensieri deboli può sembrare una bestemmia, anche per la lista della spesa. Se io recito, di fronte a un uditorio linguisticamente condizionato sul piano della comunicazione e del contesto in cui essa avviene, una lista della spesa, volendo intendere che sto significando l'abiezione della civiltà consumistica reificante e fungibilizzante, bene, sto facendo letteratura! A un livello magari infimo, con bieca intenzione al dolo critico-intellettuale, ma sto facendo letteratura comunque, e pertanto in questa classe c'è un testo, per Zeus ( :lol: ), e che testo (ma su questo penso che già l'ultimo intervento di Ladim si sia espresso)!

Naturalmente, quanto ho detto finora, al di là dei toni epico-tragici (sarà il mio ethos melodrammatico), è semplicemente una descrizione di ciò che io intendo poter essere una risposta alla domanda su che cosa sia letteratura e che cosa sia la letteratura come tale. Se pieghiamo queste mie affermazioni (che le si condivida o meno) a una disposizione di carattere valutativo, esse automaticamente divengono criteri estetici, o linee direttive per una critica letteraria. Naturalmente, a quel punto, avremo attuato implicitamente una prescrittivizzazione di questi criteri: essi, divenendo prescrizioni, diverranno linee di una poetica. Ma si badi bene, non lo erano in origine. Fra l'altro si tratterebbe in ogni caso di prescrizioni ipotetiche, e non categoriche (se si voglia fare letteratura, si dovrà...).

Su un piano più ampio, ciò che fa della letteratura un'opera d'arte è appunto questa forte disposizione a porre in essere un fondamentale riorientamento semiotico dei cardini di base dell'esperienza umana: l'effetto straniante che si attua ogni volta che elementi del mondo materiale, del mondo degli stati d'animo o anche del mondo delle teorie e dei significati (per usare categorie popperiane) vengono piegati a intenzioni comunicative che sono ad essi in partenza estranee, con un'operazione volta a ridefinire i cardini semiotici della nostra interpretazione-orientazione del mondo. In tal senso, rispetto ad altre forme di arte, in cui la "risemiologizzazione del reale" (ormai, parolone in più parolone in meno...) interessa il piano della manipolazione materiale della realtà, la letteratura si pone in una dimensione di "meta-risemiologizzazione": è l'arte che per eccellenza riorienta semiologicamente il sèma come tale e ne ridefinisce i paradigmi, non tanto il suo potenziale oggetto o significato materiale. Si tratta dello stesso rapporto che intercorre fra le teorie scientifiche (fisiche, matematiche etc.) e le metateorie filosofiche, che ne studiano di principio le condizioni di validità. E del resto non è un caso che le epoche (e le civiltà) letterariamente (e figurativamente) più ricche siano anche quelle che pongono le basi dello sviluppo delle tecnologie più avanzate e delle teorie più raffinate sul piano filosofico. Ma ormai siamo scaduti nell'ovvietà e le orecchie e gli occhi saranno stanchi, perciò la chiudo qui, scusandomi se sono stato più prolisso del solito. Au revoir.
Ladim
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Iscritto in data: lun, 08 nov 2004 14:36

Intervento di Ladim »

Dopo aver messo in luce così elegantemente la dimensione 'pragmatica' della fruizione latteraria, forse occorrerebbe (ma è già un pretesto) mettere a fuoco un ultimo aspetto della 'letterarietà' (una volta fermata l'ipotesi secondo la quale lo stile e la lingua sono quegli aspetti immanenti al testo che vanno incontro a una valutazione peculiare soltanto dopo l'assunzione di un'opera entro la 'cornice' istituzionalizzata dell''arte'), ora strettamente relativo a quel fenomeno storico-sociale che ha decretato, per quel che ci riguarda, il mutamento culturale in cui le «belle lettere» classiche sono diventate ciò che oggi indichiamo tout court, più o meno dalla fine del '700 in poi, con l'etichetta di «letteratura»: l'«assiologia della modernità», ovvero quel fondamentale criterio di 'nuovismo' a tutti i costi – ché altrimenti un'opera di alto profilo letterario non è tale se appare schematica e ripetitiva etc. –, e il principio della 'quiddità'. Due aspetti, ad esempio, che hanno portato alla definizione di alcune delle più 'traumatiche' poetiche del '900, per cui un tipico requisito dell'opera d'arte era certo indice di illeggibilità, o, se si vuole, di esasperato esoterismo culturale (realtà che col finire del '900 è andata rinnovandosi fino a inglobare un più pacifico recupero delle forme del passato, come della letteratura meno coinvolta nei piani alti della cultura, e, per così dire, di un seppur ironico riavvicinamento tra 'letterato' e società). In una così fatta temperie la pubblica lettura di una lista della spesa avrebbe convenientemente mimato un aspetto della realtà consumistica (come giustamente propone amicus_eius), divenendo un esemplare saggio di poesia 'nuova' e per questo legittima (anche se, a ben guardare, riletta una seconda volta, una 'poesia' così intesa avrebbe auto-fagocitato la propria legittimità divenendo più solo un documento antropologico): ecco un aspetto del reale ad ogni modo 'indagato', riformulato e risemantizzato, magari attraverso la strumentalizzazione meditata di certi linguaggi d'uso, che delegittimerebbero quello più tradizionale e, forse, indice di certa pedissequa sensibilità (del resto, oggigiorno sarebbe pressoché impossibile valutare un'opera senza poterne misurare l'eventuale scarto sul metro della tradizione – si pensi al bambino che di fronte a un Picasso esclami: «questo lo so fare anch'io!»), pervenendo in ultimo a modificare le istanze estetiche del lettore meno indifferente... etc.
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