Intervento
di amicus_eius » sab, 30 dic 2006 1:40
Teoricamente, la sinalefe non avviene fra parole che hanno le seguenti caratteristiche prosodiche, sintattiche e semantiche:
1) non sono in qualche modo inserite in catene di proclisi e di enclisi (in altre parole, il loro accento non risulta indebolito o assente perché si appoggiano a una parola che segue o precede):
esempio:
d'antica selva dal cavallo è scorta.
La è che precede il participio è morfosintatticamente fusa con il participio passato a formare un presente passivo dunque la sinalefe ci deve essere per forza.
Un'altro esempio è dato dal verso della Batracomiomachia citato da Pocoyo. Cose non dissimili accadono quando il verbo essere (anche in voci bisillabiche) va a formare giunture tipo copula + predicato; essere predicato + stato in luogo ecc.
2) sono parole che hanno una forte rilevanza enfatica all'interno del verso o per spontanei fenomeni grammaticali (teste di sintagma, soggetti logici etc.) o per questioni di carattere espressivo.
Una situazione tipica: il caso del verso dantesco:
Quel ch'i dico di me, di sé || intende.
3) La presenza di cesura può scoraggiare la sinalefe in caso di forte iato fra vocali di timbro diverso; la favorisce fra vocali di eguale timbro.
Si aggiunga inoltre che nella prosodia della poesia medievale, determinate regole sono più elastiche, e non per un caso: determinate origini franco-romanze o latino-medievali erano più vicine nella coscienza linguistica dei parlanti e poetanti. Altrettanto elastici appaiono essere i trattamenti di sinalefe e dialefe nella versificazione teatrale, se si esclude la breve parentesi rappresentata dal rigoroso classicismo cinquecentesco. Anche ciò non è casuale: si tratta di mimesi degli iati naturali del parlato colloquiale.
Tale elasticità di trattamento è ripresa nella poesia moderna, per questioni derivanti dall'atteggiamento novecentesco di liberalizzazione, ironizzazione, rottura delle forme e dei moduli tradizionali. I sonetti di Raboni, per cui si è parlato di atonalismo dell'endecasillabo, di trattamento atonale del verso endecasillabo (con rottura della legge di Bembo, ridefinizione espressionistica dei sandhi vocalici) ne sono un esempio. L'antico sonetto di Marco1971 è un altro esempio di atonalismo novecentesco dell'endecasillabo. L'infiltrazione dell'atonalismo nella metrica tradizionale è una caratteristica delle fasi postavanguardistiche della metrica contemporanea, anche se se ne vedono antesignani e precorrimenti.
Quanto alla questione delle ultime sillabe, il discorso va approfondito.
Le sillabe dopo l'ultima accentata, nella versificazione italiana e ibero-romanza, vengono considerate soprannumerarie, per convenzione prosodica ereditata dalla poesia in lingua d'oc e d'oil, la prima a esprimersi in volgare.
Per quanto riguarda la clausola dell'endecasillabo le cose sono piuttosto complicate.
Per una questione statistica, la tendenza insita è quella di preferire i versi piani: le sdrucciole in italiano sono frequenti, ma certo non quanto le piane. Le bisdrucciole sono rare, e inoltre, la presenza di un debole accento di supporto finale permette per esse un duplice trattamento: un verbo come gravitano, in fine di verso, può essere considerato come se fosse accentato gràvitanò. Ed è quello che accade in Pascoli, non solo nelle traduzioni neoclassiche delle elegie di Tibullo: una ipotetica sequenza come "ecco scivolano" può essere considerata, specie nella poesia contemporanea dalla fine dell'Ottocento in poi equivalente a un quaternario sdrucciolo, ma anche a un settenario tronco, se la struttura ritmica predefinita dal poeta lo impone (influssi della metrica moderna delle lingue germaniche). L'ambiguità del possibile trattamento prosodico delle bisdrucciole le rende oggetto di una sorta di proscrizione implicita. Le tronche in italiano sono tipologicamente rare.
Per quanto riguarda l'impiego espressivo delle clausole dell'endecasillabo, esso non è affatto neutrale. Il caso più semplice è quello dell'endecasillabo sciolto. L'uso di endecasillabi sciolti sdruccioli in serie continua dà luogo a un vero e proprio metro "barbaro" alternativo al semplice endecasillabo sciolto, cioè a una resa accentuativa di un metro latino: il senario (o trimetro) giambico. Si tratta di una trovata antica: è nientemeno che il metro delle commedie di Ludovico Ariosto (particolarmente riuscito sul piano tecnico ne è l'impiego nella Lena), in precedenza redatte in prosa. L'uso, nell'ambito di un testo in endecasillabi sciolti piani, di una lunga sequenza o lassa di endecasillabi sdruccioli, risponde invece all'esigenza espressiva di concitazione o velocità: si veda ad esempio, nell'Eneide di Annibal Caro, la descrizione della tempesta scatenata da Giunone o la similitudine fra i Cartaginesi e le api, nel I libro).
Questo è (più o meno) tutto. Scusate la pedanteria.