[xTSC] «-a» per «-e»

Spazio di discussione su questioni di dialettologia italiana e italoromanza

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u merlu rucà
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Re: TRANSIZIONE INVERSA - GENERALIZZATA - DA "-A"

Intervento di u merlu rucà »

ippogrifo ha scritto:
u merlu rucà ha scritto:
ippogrifo ha scritto: “Pesciu” si ritrova nel corso. Che è assai più ricco di genovesismi di quanto pensino gli studiosi. Dai quali non si può pretendere la conoscenza del genovese.
A volte, curiosamente, il corso concorda lessicalmente più con i dialetti occidentali che con il genovese. Per esempio corso chjottu/ciottu ligure occ. ciotu "buco nel terreno", forma che non esiste nel genovese per quanto mi risulta.
Avrei dovuto scrivere di ligurismi anziché genovesismi. :wink:
Probabilmente, c'è anche un problema di prospettiva e di autoreferenzialità. :wink:
Però, lei sa bene che a Genova accade un po' la stessa cosa che si verifica in Corsica.
Quella dei ligurismi occidentali nel corso sarebbe una questione interessante da affrontare, prestiti o sostrato comune? Nel ponente ligure non c'è mai stata un'entità politica forte che possa aver influenzato il lessico corso.
Appena possibile vedrò di preparare il sinottico, magari aprendo un filone a parte.
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ippogrifo
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-A x -E

Intervento di ippogrifo »

Ferdinand Bardamu ha scritto: Va anche detto che ciò che abbiamo osservato non è universalmente valido. La mancata normalizzazione in parole come nòte (‹nòtte›) e late (‹latte›) si può spiegare piuttosto difficilmente. O, almeno, per me, che sono un profano, è cosí.
La ringrazio della Sua personale cortesia, ma non si preoccupi. Sono più che profano anch'io - mi occupo di tutt'altro - . Mi ero doverosamente premurato di chiarire che la mia "illazione" non poteva avere validità generale.

I) : perché occorre sempre pensare in questo modo per correttezza metodologica - altrimenti, s'incorre brutalmente in ipotesi "ad hoc" :shock: (vedi l'interessante intervento di Carnby);

&

II) perché ricordavo che cosa scrive il Rohlfs - "Morfologia" , § 353, pag. 14 (Grammatica storica) - . Nel testo - noti - si riscontra anche la parola "croce" con desinenza in "-a" - v. I) :wink: - . Certamente, in altre zone rispetto alle Sue. :wink: Inoltre, l'autore fornisce un breve elenco di vocaboli relativi all'italiano attuale : ghianda, pancia, fronda, poppa e sedia. E più ne propone relativi alla lingua antica.

Divagazione
Aggiungo io: è nozione comune che l'anatomia ritenga il termine "glande" con "gl-" essendo - aggiungo sempre io - l'italiano lingua "doppia": glande/ghianda, glaciazione/ghiaccio, clero/chierico et c. (non si finirebbe se non dopo un bel po').

Rientro in tema.
La spiegazione proposta - non so se totalmente condivisibile - è: "Il nucleo di questo fenomeno si trova in effetto - sic - nell'Italia settentrionale dove l'-e finale s'indebolì o cadde. Si tratta dunque anche qui d'una ricostruzione erronea, ovvero d'una tendenza a precisare il genere."

E a pag. 16: "Nel complesso si può dire che il fenomeno può pensarsi ovunque dovuto a una naturale esigenza di chiarezza; e che appar particolarmente intenso là, dove la vocale finale è divenuta indistinta. Nelle forme sopra citate per la Toscana saran da vedere influssi settentrionali."

Il Rohlfs riferisce anche fonti bibliografiche di oltre un secolo fa, ma non posso sapere se si tratti di forme lessicali ancora vitali.

Quindi, secondo il Rohlfs, non si tratta solo di "normalizzazione", ma anche di "ricostruzione" - della serie: dato che dobbiamo rifare, rifacciamo bene 'sta volta, che si capisca (cioè, in "-a", dato che di femminile si tratta) ! -.

Dove mi trovo non ho altri testi sotto mano.

Cordialmente
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Ferdinand Bardamu
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Intervento di Ferdinand Bardamu »

Grazie della citazione del Rohlfs. :)
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Re: -A x -E

Intervento di u merlu rucà »

ippogrifo ha scritto:La spiegazione proposta - non so se totalmente condivisibile - è: "Il nucleo di questo fenomeno si trova in effetto - sic - nell'Italia settentrionale dove l'-e finale s'indebolì o cadde. Si tratta dunque anche qui d'una ricostruzione erronea, ovvero d'una tendenza a precisare il genere."
Spiegazione poco convincente per il ligure e il veneto, dove le -e finali si conservano. Io penso che si tratti di passaggi antichi da una declinazione all'altra (metaplasmi), senza che siano avvenuti per gli stessi termini in tutte le regioni.
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Carnby
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Re: -A x -E

Intervento di Carnby »

u merlu rucà ha scritto:Spiegazione poco convincente per il ligure e il veneto, dove le -e finali si conservano.
Io credevo che fossero le -a che si conservavano. Poi in ligure e veneto le regole per la caduta sono differenti: mi pare che, in linea di massima, le vocali in veneto cadano se la penultima consonante sia una sonorante; in ligure mi sembra che avvenga solo se la penultima è una nasale. Infatti si dice in entrambi i casi can e pan, no?
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Ferdinand Bardamu
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Re: -A x -E

Intervento di Ferdinand Bardamu »

Carnby ha scritto:Io credevo che fossero le -a che si conservavano. Poi in ligure e veneto le regole per la caduta sono differenti: mi pare che, in linea di massima, le vocali in veneto cadano se la penultima consonante sia una sonorante; in ligure mi sembra che avvenga solo se la penultima è una nasale. Infatti si dice in entrambi i casi can e pan, no?
In veneto, questo è vero per /n/: pan, can, butín (=‹bambino›). Per le parole che derivano dai suffissi latini -ALIS e per le desinenze degli infiniti ci sono differenze diacoriche: per esempio, nella mia variante si mantengono, come in magnare, vèrdzare (=‹aprire›), caxale (=‹casale›).
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Re: -A x -E

Intervento di ippogrifo »

Carnby ha scritto:
u merlu rucà ha scritto:Spiegazione poco convincente per il ligure e il veneto, dove le -e finali si conservano.
Io credevo che fossero le -a che si conservavano. Poi in ligure e veneto le regole per la caduta sono differenti: mi pare che, in linea di massima, le vocali in veneto cadano se la penultima consonante sia una sonorante; in ligure mi sembra che avvenga solo se la penultima è una nasale. Infatti si dice in entrambi i casi can e pan, no?
L'osservazione del Merlo è pertinente - le -"e" finali si conservano, in generale, ma ci sono eccezioni - come la sua critica al Rohlfs. Come anche la nota di Carnby.

Quando - allora - l' "-e" finale cade? Dopo [n], che diventa - ovviamente - [η] e dopo l' "r" approssimante - esito di "-r-" , ma anche di "-l-" -.
In queste condizioni "cade" anche "-u".
Infatti - oltre a pan e can - si ha vin, fén = fieno e moltissimi altri.
Gli esempi in [ŕ] - approssimante e che non si pronuncia più da molti secoli - sono praticamente infiniti e alcuni - anche se non ero, evidentemente, risultato molto esplicito :wink: - si trovano già nel mio memo precedente: mei = mela/melo, pei = pera/pero/pelo et c. , figiő = bambino, lenső = lenzuolo e moltissimi altri.
Tra cui: da vei = davvero, de rê = dietro, mâ = mare/male, mő = molo, mű = mulo, sâ = sale, sê = cielo, ső = sorella/-e/strato, sû = sole, fâ = fare, fî = filo, fû = ronzio, u/a pâ = sembra(pare), u/a vâ = vale, u/a vő = vuole, pâ = paio, buei = vanga, badile. Sono davvero innumerevoli. Smetto.

Se, però, la consonante è geminata, non succede nulla. La valle è a valle e il vaglio è u vallu. Mentre - v. sopra - la forma verbale vale è u/a vâ - non può più "contrastare" con a valle - .

L'origine - come accennato - è del tipo: sâle ['sa.ale]>sâre ['sa.aŕe] - [ŕ], cioè approssimante perché intervocalica - >sâr ['sa.aŕ]>sâ ['sa.a]. l' "r" approssimante è caduta, cioè si è "vocalizzata". Pei- ovviamente - viene da peir perché l'"i" breve dette "ei".

Per altro, le regole del gioco imponevano d'identificare vocaboli con "-e" caduta e ripristinata in "-a", ma il genovese non si presta a sostenere la tesi del Rohlfs perché - nelle condizioni richieste ("-e" caduta) - non si trovano femminili e, comunque, l' "-e" caduta non viene ripristinata in alcun modo. :(
Non si potrebbe perché s'è perduta anche l'"r"!

Sâ = sale, a mio avviso, è diventato femminile solo dopo aver perduto "-e" ed "r". Solo perché termina in "una specie" di "-a". E, per altro, nessun ripristino. Rimane sciû = fiore - probabilmente femminile già in origine -, ma - in città - non si usa più se non in stereotipi quale, ad es., côu sciû = cavolfiore - e si adopera esclusivamente - ormai - l'italianismo fiûre. Ma, come preannunciato, non ci sarebbe potuta essere nessuna modalità di recupero nemmeno in questo caso.
A sciû (fl>∫) = il fiore - femminile in "-u" - era "insoddisfacente" e - peggio ancora - collideva con u sciû = il signore. Entrambi i vocaboli - ancora riportati nei vecchi lessici - vennero abbandonati e -oggi - si usa l'italianismo u scignûru - è maschile, quindi in "-u", non commettiamo errori! :wink: - . U sciû - oggigiorno - si usa solo in associazione al cognome: u sciû Cujő = il sig. Queirolo. Al femminile, ad es., a sciâ d'e Ciann-e - la sig. Dellepiane - . Andrebbe anche notato che la signora è a scignûa - non certo il femminile dell'italianismo scignûru, ma di un maschile non più esistente (il Devoto scrisse di Babele linguistica!) ! - . :wink:

Rimane u Segnû - con evoluzione perfettamente regolare - solo in senso religioso.

Quindi, "signore" richiede 3 differenti traduzioni! :wink:

E la signora - in genovese - non è il corrispondente femminile del signore! :wink:

Si riscontra a sciura nei dialetti ponentini e occorrerebbe chiedere al Merlo, ma sono convinto che si tratti di una "normalizzazione" dovuta al genere - femminile - del fiore e non a una "ricostruzione". Nemmeno i ponentini - che dicono sà et c. - , se fossero giunti - nel corso dell'evoluzione linguistica - a sciù per fiore, sarebbero potuti tornare indietro a sciura. :wink:
E l'aver "normalizzato" a sciura ha impedito - invece - ulteriori derive linguistiche perché l'"-a" non cade nemmeno se preceduta dalla sonorante [ŕ] tuttora pronunciata in varietà linguistiche del Ponente. L' "-a" non cade neppure - ovviamente - se il parlante non pronuncia più l'[ŕ], come avviene in altre varietà linguistiche in cui si dice a sciûa. Anche se - ormai - gl'italianismi fanno dovunque passi da gigante.
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Intervento di u merlu rucà »

Sale è femminile anche in spagnolo (la sal), quindi non è sicuro che sia diventato femminile in ligure dopo la caduta della sillaba finale. In latino il sale è masch. o neutro. Anche fiore è femminile in spagnolo e francese (la flor/la fleur), mentre in latino è masch.
Forse, anticamente, erano femminili, in ligure, anche il miele (l'amé < la mele) e il fiele (l'afé < la fele).
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Ferdinand Bardamu
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Intervento di Ferdinand Bardamu »

u merlu rucà ha scritto:Sale è femminile anche in spagnolo (la sal), quindi non è sicuro che sia diventato femminile in ligure dopo la caduta della sillaba finale.
È femminile anche nella mia variante, che non tronca le parole che in italiano terminano in -ale: la sale.
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Intervento di Carnby »

Ferdinand Bardamu ha scritto:È femminile anche nella mia variante, che non tronca le parole che in italiano terminano in -ale: la sale.
Con l velare?
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Intervento di Ferdinand Bardamu »

Sí, anche se meno forte di quella padovana.
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LIGURISMI NELLE PARLATE CORSE

Intervento di ippogrifo »

u merlu rucà ha scritto:Quella dei ligurismi occidentali nel corso sarebbe una questione interessante da affrontare, prestiti o sostrato comune? Nel ponente ligure non c'è mai stata un'entità politica forte che possa aver influenzato il lessico corso.
Appena possibile vedrò di preparare il sinottico, magari aprendo un filone a parte.
Sì, di qualcosa mi ero accorto anch’io, ma, evidentemente, la sua sensibilità è più specifica. Credo che, comunque, in maggioranza - anche se dubito che qualcuno possa aver calcolato dati statistici attendibili -, i vocaboli del corso che vanno considerati prestiti derivino da voci panliguri: ad es., “carrughju” - in corso anche via, strada - , “carreca” - pronunciato carrega - et c. . L’elenco sarebbe lunghissimo. Tra l’altro, occorre notare che i corsi non si sono resi conto che la seggiola gli è pervenuta in confezione “pre-sonorizzata” dalla Liguria e, quindi, potrebbero tranquillamente scrivere “carrega” anche perché nel vocabolo non c’è nessuna “c” etimologica da conservare . . .
Non so se gli studiosi l’abbiano già notato, ma “u sgio Paoli” non è altro che il panligure “u sciû Paoli” con sonorizzazione in fonosintassi tipica del corso. Anche “i sgio” nel senso di “i signori” non è altro che il vecchio genovese “i sciuî” , che ha - appunto - lo stesso significato. Non proseguo.
Che dirle? Dubito che gli studiosi attuali del corso - corsi e, quindi, di lingua e di cultura francese - possano avere l’interesse e le competenze occorrenti a valutare i “liens&#148; che lei propone. Anche i migliori tra loro hanno, al massimo, una conoscenza non approfondita dell’italiano e nessuno di loro ha mai seguito studi d’italianistica o di dialettologia italiana. Molti, come lei sa benissimo, s’impegnano a promuovere una “versione” di corso in cui vengono utilizzati vocaboli anche poco diffusi localmente, purché abbastanza difformi dall’italiano. Nella ricerca di una meglio definita specificità identitaria. Vengono, ad es., insegnati “sfarenza” e “sfarente”, quando in tutta l’isola si tratta di forme esistenti, ma minoritarie e si ha la netta prevalenza - in un parlato genuino - di “differenza” e “differente”. Indipendentemente dalla località. Inoltre, riesce anche difficile poter comprendere un paradigma di contrapposizione tra le parlate isolane e il francese che - se pure attualmente meno studiato al di fuori dei confini nazionali - rimane pur sempre la lingua di una grande civiltà tramite la quale le idee della “modernità” - è un dato storico (che piaccia o meno) - hanno percorso l’Europa e il mondo.
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u merlu rucà
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Intervento di u merlu rucà »

Oltre a chiottu/ciottu (< *klotton) vi è anche, nel corso, brocciu/brucciu che indica una specie di ricotta. In entrambi i casi, il termine corso ha parenti stretti in area catalana, provenzale, franco-provenzale, ligure occidentale (ciotu/brusu), piemontese e non in area genovese (il gen. sotta "fossa", di significato simile, ha probabilmente un etimo diverso *ciot "ammasso compatto", forse di origine onomatopeica, da cui anche l’it. ciottolo).
Per quanto riguarda ciotu < *klotton, le ipotesi variano da un'origine celtica (REW/FEW) a una genericamente preromana (Bolelli e Scheuermeier), mentre per brusu/brocciu si è pensato ad un'origine gotica *brukja, derivato dal got. gabruka "pezzo"; l'obiezione a questa ipotesi è che difficilmente un termine gotico avrebbe potuto imporsi nel lessico caseario delle Alpi.
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ippogrifo
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SOSTANTIVI "TRANSGENDER" ET AL. - PARTE I -

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u merlu rucà ha scritto:Sale è femminile anche in spagnolo (la sal), quindi non è sicuro che sia diventato femminile in ligure dopo la caduta della sillaba finale. In latino il sale è masch. o neutro. Anche fiore è femminile in spagnolo e francese (la flor/la fleur), mentre in latino è masch.
Forse, anticamente, erano femminili, in ligure, anche il miele (l'amé < la mele) e il fiele (l'afé < la fele).
Sì, lo so. :wink: E lei ha perfettamente ragione. Ho letto - da tempo - tutto - quel poco - che c’è sul tema - a iniziare dall’Azaretti -. Gli autori, inoltre, scrivono sempre le stesse solite cose e "prendono" l'uno dall'altro senz'aggiungere riflessioni o approfondimenti. Letto uno, letti tutti. :wink: Anche il Dizionario etimologico, che riporta in riferimento al sale: “ il genere femminile è comune all’area italiana settentrionale e gallo-romanza”. Ho scritto “a mio avviso” perché volevo proporre una provocazione - intellettuale, s’intende - . Un tentativo di “sparigliare” le carte. Come a dire: anche se esiste un’area geografica di continuità cui connettersi, non potrebbe essere - ipotesi - che in Liguria l’attribuzione del genere possa derivare dall’ ”erosione” fonetica dovuta all’evoluzione linguistica. O che la struttura fonetica - in “-â” - possa - almeno - aver contribuito a evitare la “normalizzazione” - in direzione italiana, cioè maschile - del genere.
Perché mi vengono queste idee “balzane”? Perché, ad es., l’amê = miele e l’arfê = fiele (ma anche cisti fellea) me le fanno venire. Chiarisco. E’ ragionevole, all’origine dei due sostantivi, ipotizzare il genere femminile. Infatti, in amê si ritrova l’articolo femminile “a” agglutinato – un po’ meno chiaro risulta arfê coll’ “r” , ma transeamus – e c’è un’ampia zona di dialetti settentrionali in cui si ha il femminile. Bene. E questa è la spiegazione - convincente - che forniscono tutti i testi. Ma allora perché - in Liguria e in Piemonte (amel e afel) - i sostantivi si rivoltarono contro il loro genere originario e pretesero il maschile? Questo chiarimento sarebbe interessante e nessuno, però, ce lo sa fornire! Ci sarà ben stato un motivo! I testi riferiscono che “forse” - citazione letterale - ciò è dovuto all’influsso della lingua italiana. Ma perché proprio in Liguria e Piemonte - regioni fino a non molto tempo fa ben poco “italianizzanti” - e in parole molto “svincolate” dal registro colto della lingua? Si può pensare come causa all’ “erosione” fonetica? Da amêŕ e arfêŕ ad amê e arfê, proiettati, quindi, in una classe di vocaboli in cui prevalgono i maschili e, perciò, “per analogia”? Potrebbe anche essere. Anche se alla stessa classe appartiene mugê = moglie. Ma in moglie prevarrebbe – comunque pronunciato – l’inequivoco aspetto semantico . . .
A sciû <sci>”r -” in fonosintassi - . In italiano l’ “l -“ è stata interpretata come articolo e dissimilata. A lôdua < ŕa lôduŕa = l’allodola mostra la stessa strategia: l’ “a-“ di “alauda” dissimilata e interpretata come articolo femminile. Per altro, la lodola compare anche nei lessici italiani. Siccome - in genovese - gli articoli sono “u” e ”a” davanti a consonante e solo “l’” - masch. e femm. - davanti a vocale, si riscontra che - al femminile, nel caso in cui il genere non cambi - si possono agglutinare sia “a” quanto “l’”. Infatti, la mira è “l’amîa”, mentre l’edera è “a lellua”. Proprio come la fodera – non federa - di cuscini o materassi è “a lintima”. Da alcuni autori accostata a “ ’ένδυμα ” = abito . . . Mentre in medicina si parla di tonaca intima riferendosi ai vasi sanguigni o, ancora più semplicemente, d’intima. Che sembra un accostamento molto più “ragionevole”. Senza scomodare la parola greca che non possiede l’accezione di fodera . . .
Non esiste - invece - esatta corrispondenza nel maschile dove agglutinato si trova solo l’articolo “l’”, ma non “u”- vedi sopra “u lammu” = l’amo - .
Anche al maschile si può avere dissimilazione e agglutinazione. Dissimilazione: “l’ouföggiu” - “lauri foliu(m)” - è l’alloro - in realtà, la foglia per il tutto (la pianta) - . Notevole il maschile - in realtà, il “neutro” “foliu(m)” per foglia - che non si ritrova altrove. Infatti, la foglia dell’alloro è “a föggia de l’ouföggiu”. In sostanza, ci si ripete. Assimilazione: “u lensin” = il gancio (l’uncino) . “U latun” = l’ottone è, invece, - in genovese - perfettamente regolare ed è l’italiano - in questo caso - che ha dissimilato l’ “l-“ intesa come articolo.

Ritengo che alcuni degli esempi precedenti si possano trovare isolatamente nei testi. Ma tutti insieme no. Per radunarli ho fatto un notevole sforzo di memoria. Chi pensa che avrei fatto molto meglio a fare altro ha perfettamente ragione. Potrebbe essere elegante - ormai, a cose fatte - non farmelo pesare più di tanto. :wink: In realtà, tutti gli elenchi o le classi di vocaboli che solitamente inserisco negli interventi sono frutto della memoria. I testi non li riportano e - soprattutto - non prendono mai in considerazione classi strutturate di vocaboli contrassegnate da specifiche caratteristiche fonetiche/fonologiche come quelle che solitamente propongo.
ippogrifo
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SOSTANTIVI "TRANSGENDER" ET AL. - PARTE II -

Intervento di ippogrifo »

Il seguente è un ulteriore esempio che conosco bene, ma non ho trovato trattato in nessun testo.
I vecchi non dicevano “al largo”, ma “a l’amâ”. L’espressione “a l’amâ” - per altro - è sempre meno usata. Qualcuno sostiene che provenga dallo spagnolo “a la mar” e, infatti, in castigliano il sostantivo “el/la mar” ha genere “ambiguo”, anche se nel registro colto e in quello scientifico si usa solo il maschile. Anche in catalano, in realtà, si può avere el/la mar. Non prendo in considerazione il francese - “la mer” - né il provenzale - “la mar” - perché - nonostante si tratti di lingue geograficamente prossime nelle quali il mare risulta di genere femminile - i contatti - all’epoca della grande marineria genovese - erano col regno di Spagna. Nel caso di “a l’amâ”, per “rimediare” a un mare di genere femminile - l’”alto” mare - pur tentando di mantenere un qualche livello di contrasto col “normale” mare in senso generale (u mâ di genere maschile) - si adottò - non saprei come si potrebbe spiegare altrimenti - la stessa strategia di “l’amê”: agglutinazione dell’articolo “a” - femminile perché “rispettoso”dell’articolo iberico originario (la mar) - al sostantivo ed espressione di un ulteriore articolo – maschile, questa volta - per giungere a “l’amâ” e poter così avere un diverso sostantivo - “l’amâ” - proprio come si ebbero i maschili l’amê e l’arfê - per indicare specificamente il mare profondo e non il mare in senso più generale. Generando un “ibrido”notevole: desinenza in “-â” e genere maschile! Da cui: al mare = “ou mâ” - sulla spiaggia - , in mare = “in mâ” - anche a pochi metri dalla battigia - , “intu mâ” – nel mare nel senso di “dentr’al mare” - , ma “al largo” = “a l’amâ” ! “A l’amâ” - indipendentemente dalla distanza (anche breve) - implicava che la terra non era più in vista. Probabilmente per un “popolo di navigatori” questa specializzazione semantica veniva ritenuta importante! Non so se esista in altre lingue. Ad es., i pescatori privi di strumenti e di vere cognizioni di navigazione si orientavano osservando la costa e potevano stare “in mâ” quanto volevano, ma era pericoloso che si avventurassero “a l’amâ”.

Anche il seguente è un esempio che conosco bene, ma non sono riuscito a riscontrare nei testi.
Fino alla generazione precedente alla mia venivano dileggiati gli abitanti di Sampierdarena - appena fuori dalle antiche mura - sia per l’intonazione, ma anche per la pronuncia e il lessico - . Veniva loro imputato - quasi fosse una sorta di “shibboleth” - il sostantivo “a lænn-a” - articolo agglutinato - , mentre i cittadini pronunciavano – evidentemente, in modo corretto :wink: - “l’ænn-a”. Ora tutti dicono “a sabbia”. La sabbia ha prevalso sulla rena intorno alla metà dello scorso secolo. Se si fosse trattato di una vittoria più antica, oggi si avrebbe “a saggia” – invece, inesistente - . Infatti bl > bj > dž - bianco è giancu - . Indipendentemente dal fatto che il vocabolo sia di origine latina o no. Oggigiorno si possono ancora ascoltare - ma raramente - anziani al mare l’estate che dicono di “acuêgâse in sce l’ænn-a” nel senso di stendersi - letteralmente “coricarsi” - sulla sabbia ad “asuîgiâse” - prendere il sole - .
Chi diceva “ænn-a” per sabbia diceva “mænn-a” (letteralm. marina) per spiaggia. Oggi “spjâgia”.
Rimane “a Mænn-a” - [‘mεηηa], pronuncia per “iniziati” - quale nome di un quartiere cittadino anticamente lambito dal mare.
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