[NAP] Calamari, uccellini ciechi, anelli (?) e contadinotte

Spazio di discussione su questioni di dialettologia italiana e italoromanza

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u merlu rucà
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Intervento di u merlu rucà »

Però aie/aje è negli ultimi tre versi, quelli dell'uccellino e non in quelli del calamaro...
Se aie può essere terza singolare, si potrebbe avere un'altra interpretazione:

aie ch'è cecato, e bella
aie marenaro mio
Foretanella


Letterale:
ha che è cieco, e bella
ha pescatore mio
la contadinella.


Quindi:
dato che è cieco
bella gli sembra
pescatore mio
la contadinella


L'uccellino non può vedere e quindi gli sembra bella la contadinella (che magari non lo è).

Non so se questa costruzione sia possibile in napoletano. Nel mio dialetto sì (per esempio alla domanda: cos'u l'à? "che cosa ha?" si risponde: u l'à ch'u l'è maroutu "ha che è malato").
Largu de farina e strentu de brenu.
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u merlu rucà
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Intervento di u merlu rucà »

Cembalaro ha scritto:Non ho riportato una mia precoce ipotesi poi scartata.
Bello non è solo l'aggettivo identico all'italiano, ma anche un avverbio dal significato di «con diligenza», come scrive ancora Galiani.
Si usa tuttora, non solo nelle locuzioni come iamme bello, che non vuol dire «andiamo, bello», ma «andiamo, con solerzia», bensì anche in frasi in cui significa pressappoco «del tutto, compiutamente». Sicché aie ch'è cecato e bella si tradurrebbe con «è proprio cieco». D'altronde un uso simile si riscontra altrove (in romanesco, forse?), in frasi come è bello che morto, o anche in italiano: è bell'e morto.

Sono fuori strada?
Perché allora la forma femminile bella?
Largu de farina e strentu de brenu.
ippogrifo
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INDIZI

Intervento di ippogrifo »

Quanto ho scritto in precedenza vale - ovviamente - solo a livello di spunto/indizio. :wink:
Anche perché attinto da una tradizione popolare che può avere aspetti di similitudine, ma non è quella napoletana. In particolare mi riferisco al contesto del "trallallero" in cui un cantore accompagnato da un coro che simula gli strumenti musicali - strumenti effettivi non ce ne sono - esegue brani codificati dalla tradizione. Molti brani sono giunti a noi con diverse varianti - come potrebbero essere "io muoio" o "e le mole (nel senso dei molari)" dei testi napoletani (se ho letto bene) - . Inoltre, è piuttosto frequente che anche nei testi codificati compaiano - quali "nonsense" - richiami tipici dei vari venditori ambulanti di un tempo. Non perché "c'entrino" qualcosa né perché il testo preannunci o includa scene di mercato, ma - semplicemente - per avere l'opportunità di dimostrare il virtuosismo del cantore nella modulazione vocale e anche per stupire, "disorientare", "divertire" l'ascoltatore tramite l'espediente costituito da un "imprevisto" rispetto al flusso narrativo. Ora meno, ma fino a poco tempo fa assai diffuso era il "rimescolamento" che denotava la bravura e la flessibilità interpretativa dei cantori. Il cantore iniziava un brano che, all'improvviso, lui stesso cambiava per, poi, ritornare a quello originale o passare a un altro ancora e così via. A volte era il coro che costringeva il cantore a cambiare e a ricambiare. In tutto questo venivano alternati i richiami dei venditori realizzati con particolari melismi - senza alcun nesso logico rispetto alla narrazione - e il cantore interrompeva il testo - ma non il canto né la metrica - per rivolgersi a uno spettatore, salutare un passante, fare un commento o rispondere a un commento del pubblico. Per altro, melodie e testi adespoti. I richiami erano molto ingenui, del tipo di: “Il calamaro ha l’anello, è buono come l’agnello e chi lo mangia diventa bello”. Questo è stato appena “inventato”, ma quelli che ho - effettivamente - potuto ascoltare non si discostavano molto come ideazione e struttura. Quanto tutto ciò possa risultare applicabile e utile in riferimento al contesto napoletano settecentesco va valutato. :wink:
Cordialmente
domna charola
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Intervento di domna charola »

Mi viene in mente "La bella la va al fosso", in cui in mezzo a questa scena di lavandaia, di acqua e di pescatori, torna un ritornello tutto giocato sulla sonorità delle parole e legato invece a un ipotetico mercato di verdure, che non sembra attinente al contesto, a meno che non lavi verdure nel fosso... insomma, è un artificio che nelle canzoni si ritrova sino ai giorni nostri, e probabilmente crea ostacoli all'analisi dell alogica di questi testi... boh?
Cembalaro
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Re: INDIZI

Intervento di Cembalaro »

ippogrifo ha scritto:Quanto ho scritto in precedenza vale - ovviamente - solo a livello di spunto/indizio. :wink:
Anche perché attinto da una tradizione popolare che può avere aspetti di similitudine, ma non è quella napoletana. In particolare mi riferisco al contesto del "trallallero" in cui un cantore accompagnato da un coro che simula gli strumenti musicali - strumenti effettivi non ce ne sono - esegue brani codificati dalla tradizione. Molti brani sono giunti a noi con diverse varianti - come potrebbero essere "io muoio" o "e le mole (nel senso dei molari)" dei testi napoletani (se ho letto bene) - . Inoltre, è piuttosto frequente che anche nei testi codificati compaiano - quali "nonsense" - richiami tipici dei vari venditori ambulanti di un tempo. Non perché "c'entrino" qualcosa né perché il testo preannunci o includa scene di mercato, ma - semplicemente - per avere l'opportunità di dimostrare il virtuosismo del cantore nella modulazione vocale e anche per stupire, "disorientare", "divertire" l'ascoltatore tramite l'espediente costituito da un "imprevisto" rispetto al flusso narrativo. Ora meno, ma fino a poco tempo fa assai diffuso era il "rimescolamento" che denotava la bravura e la flessibilità interpretativa dei cantori. Il cantore iniziava un brano che, all'improvviso, lui stesso cambiava per, poi, ritornare a quello originale o passare a un altro ancora e così via. A volte era il coro che costringeva il cantore a cambiare e a ricambiare. In tutto questo venivano alternati i richiami dei venditori realizzati con particolari melismi - senza alcun nesso logico rispetto alla narrazione - e il cantore interrompeva il testo - ma non il canto né la metrica - per rivolgersi a uno spettatore, salutare un passante, fare un commento o rispondere a un commento del pubblico. Per altro, melodie e testi adespoti. I richiami erano molto ingenui, del tipo di: “Il calamaro ha l’anello, è buono come l’agnello e chi lo mangia diventa bello”. Questo è stato appena “inventato”, ma quelli che ho - effettivamente - potuto ascoltare non si discostavano molto come ideazione e struttura. Quanto tutto ciò possa risultare applicabile e utile in riferimento al contesto napoletano settecentesco va valutato. :wink:
Sì, è uno spunto o un indizio, ma ho la sensazione che si rivelerà fruttifero. Le circostanze della produzione e dell'esecuzione della musica barocca napoletana differiscono molto, naturalmente, da quelle liguri che non sbaglio lei richiama: era l'epoca dei grandi cantanti castrati e gli strumenti che essi e i compositori avevano per stupire erano molti e di diversa natura. Però c'è un'altra cantata (di Alessandro Scarlatti, nientedimeno) in cui il grido del venditore viene rievocato attraverso un intervallo musicale (non ve ne accorgereste dalla lettura dei soli versi); c'è l'aje messo a lemma da D'Ambra; c'è in questa cantata l'esplicita citazione del grido del mercante: chi vò lo purpo addoruso?. Nei tribunali si comminano pene gravi con indizi meno consistenti di questi. :)

Non sono riuscito a trovare finora (ma ho dedicato solo due ore alla ricerca ieri sera) conferme all'agnello o carne usati come similitudine per indicare una superiore bontà. Però nella Posilicheata di Pompeo Sarnelli (1684) il narrante va a trovare un amico facendogli una sorpresa, l'amico lo accoglie festoso, ma dopo un po' si aggiunge - autoinvitatosi a pranzo - un altro ospite. Il padrone di casa è ospitale, e si scusa perché poiché non sapeva della doppia visita c'è solo pesce per pranzo. Il nuovo ospite gli risponde pressappoco "ma non sai che in realtà il pesce è più buono perché...?"

Vi terrò informati.
Cembalaro
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Intervento di Cembalaro »

u merlu rucà ha scritto: Perché allora la forma femminile bella?
Non lo so: sto cercando occorrenze in letteratura. Parlando io non ho la sensazione che bello/bella si accordi nel genere. Le due parole si pronunciano in maniera pressocché uguale a causa dell'ultima vocale indistinta.
ippogrifo
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CANTI E CANTORI

Intervento di ippogrifo »

A Genova i cantanti castrati si esibivano unicamente per l'aristocrazia. Richiedevano compensi troppo elevati. Ma il loro ruolo è tuttora vivo e richiesto nel canto popolare - che ho descritto - perché in una "squadra" - così si chiamano - si può arrivare ad avere anche una ventina di elementi, ma solo cinque sono quelli imprescindibili: contralto, tenore, baritono, "chitarra" - non è uno strumento, è un umano che imita lo strumento - e basso. Il "contralto" canta in falsetto per tutta la durata dell'esibizione e non può esistere alcuna squadra se non si trova un contralto. Solo da pochissimi anni alcune squadre - meno ortodosse - hanno ammesso qualche donna. Il genere musicale descritto è stato - fino a ier l'altro - patrimonio indiscusso di soli uomini.

P.S.: "foretanella" e situazioni simili. A Genova potrebbe essere - in un momento "idillico" della cantata - la "citazione" di una canzone vel sim. nota al cantore e al pubblico e adeguata alla situazione. Come quando nei vecchi film americani al momento del bacio tra i protagonisti cambiava la musica. :wink:
A Genova - evidentemente - la potenziale ambiguità testuale verrebbe risolta dalla melodia che non sarebbe piu' - in questo caso - quella del filone principale, ma quella specifica del motivo noto "citato".
Avatara utente
u merlu rucà
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Intervento di u merlu rucà »

Gli ultimi versi sono sempre difficoltosi.
Largu de farina e strentu de brenu.
Cembalaro
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Intervento di Cembalaro »

u merlu rucà ha scritto:Gli ultimi versi sono sempre difficoltosi.
Sì, continuano a sfuggirmi.

Ho dimenticato di risponderle a proposito della costruzione "ha che è cieco". La risposta è che non ne sono sicuro: la stessa costruzione esiste nel dialetto d'oggi, ma col verbo tené, non col verbo avé. Però il fatto è che tené ha sostituito avé in quasi ogni uso, relegandolo a forme verbali complesse come "devi fare": haie da fá --> haie 'a fà --> hê fà. Oppure il futuro, che da farraggio classico è diventato anch'esso hê fà.

Insomma non so rispondere e devo rileggere qualche classico per essere certo.
ippogrifo
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NAPOLI CANTA

Intervento di ippogrifo »

Non trascurerei neppure l’interpretazione di “bello” in accezione avverbiale e riferito alla cecità dell’uccellino: “questo pomodoro è bello marcio”, “il caffè è bello pronto”, “la mamma è bella pronta”. Mi riferisco agl’”italiani locali”, non ai dialetti. Qui “bell’è pronto” è - chiaramente -
inteso, ma nessuno l’usa nell’italiano “locale” perché “fa” molto “toscano ottocentesco” - almeno secondo la sensibilità locale (relata refero :wink: ) - . Se dopo “bello” vi fosse un’apprezzabile cesura melodica si potrebbe anche pensare a ciò che dicevo. Il cantore intona un “refrain”o un esordio appartenente a una melodia nota all’epoca, ma non più necessariamente testimoniabile. Qui - e mi ripeto - è ammissibile e relativamente frequente che il cantore - tra le varie “azioni sceniche” che simula – simuli pure il canto stesso. Di un’altra melodia, ovviamente. Col vincolo che sia nota, altrimenti l’ascoltatore potrebbe non percepire la “commutazione” - switching (speriamo che non legga nessuno :wink: ) - .
Da noi la commutazione melodica è d'ausilio all'interpretazione e al mutamento di contesto semantico.
Anzi, qui la melodia va considerata - ermeneuticamente - prioritaria rispetto al testo.
A Genova - fino a tutti gli anni ’60 (poi, intervennero i cantanti “moderni”) - la canzone napoletana fu in auge. Indipendentemente dagli emigrati meridionali. Ma i testi - molti li possedevano - dettero sempre problemi. Ricordo - ad es. - un signore anziano che - anni dopo - non “accettava” la trascrizione di “Ah (,) chi vo’ spingule” et c. . Per lui avrebbe dovuto corrispondere a: “A chi vo’ spingule”. In modo da potersi assimilare all’”incipit” “canonico” del richiamo genovese: “A chi vuole . . .”. Sottintendendo: “Questo richiamo è rivolto . . .”. Ricordo benissimo che mi faceva notare che non s’avvertiva affatto la cesura che l’ “h” - proditoriamente - indicava. Ero piccolo e avevo altri interessi . . .
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u merlu rucà
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Intervento di u merlu rucà »

Mi sembra evidente che ci siano molteplici possibilità di interpretazione. Anche aie = ahimè non è da eliminare:

Ahimè che è cieco, e bella
ahimè pescatore (o marinaio) mio,
(è la) villanella.

Insomma è un peccato che sia cieco, perché la villanella è bella e lui non la può vedere. Un collegamento insomma fra il protagonista, che non può avere la villanella, e l'uccellino che non la può vedere.
Largu de farina e strentu de brenu.
Cembalaro
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Intervento di Cembalaro »

Caro Ippogrifo,
avevo infatti proposto un'interpretazione avverbiale di bella. U merlu rucà ha però obbiettato che al femminile non s'accorderebbe con l'uccello; e io non ho saputo rispondere se non con l'indistinzione della vocale finale.
L'idea mi piace, sto rileggendo i classici per trovarne occorrenze non accordate.

Sì che c'è una cesura musicale dopo e bella! Una cesura piuttosto importante. Dica la verità: ha guardato la partitura :)
Non v'è citazione melodica, è rielaborazione del materiale tematico esposto in precedenza, ma direi che ciò che abbiamo è sufficiente ad accreditare l'ipotesi.

Vorrei sottolineare che il popolaresco è in queste cantate un'illusione ottica voluta dall'autore: i compositori sono campioni dell'opera eroica e almeno in un caso (A. Scarlatti) vi è perfino un rispettato e arcaico - per i tempi - polifonista. Ma hanno scritto in napoletano anche un austero compositore di musica sacra come Latilla, Pergolesi, Vinci e decine d'altri. I poeti erano, almeno quelli di cui si conosce il nome - baroni e avvocati, che peraltro inseriscono citazioni letterali o quasi dei maggiori poeti del secolo precedente (Cortese soprattutto). Il luogo di esecuzione i palazzi nobili e perfino principeschi: il testo più noto, A buje parlo, a buje dico veniva eseguita due volte alla settimana alla corte del principe Carlo Sanseverino di Bisignano (ce lo racconta il cantante, Bonifacio Petrone detto Pecorone, nella sua autobiografia del 1729).
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u merlu rucà
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Intervento di u merlu rucà »

Per curiosità: esiste già qualche traduzione precedente o è la prima volta che qualcuno ci prova?
Largu de farina e strentu de brenu.
ippogrifo
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IL POPOLARESCO NELLA MUSICA D'AUTORE

Intervento di ippogrifo »

Cembalaro ha scritto:Vorrei sottolineare che il popolaresco è in queste cantate un'illusione acustica :wink: voluta dall'autore: i compositori sono campioni dell'opera eroica e almeno in un caso (A. Scarlatti) vi è perfino un rispettato e arcaico - per i tempi - polifonista. Ma hanno scritto in napoletano anche un austero compositore di musica sacra come Latilla, Pergolesi, Vinci e decine d'altri. I poeti erano, almeno quelli di cui si conosce il nome - baroni e avvocati, che peraltro inseriscono citazioni letterali o quasi dei maggiori poeti del secolo precedente (Cortese soprattutto). Il luogo di esecuzione i palazzi nobili e perfino principeschi: il testo più noto, A buje parlo, a buje dico veniva eseguita due volte alla settimana alla corte del principe Carlo Sanseverino di Bisignano (ce lo racconta il cantante, Bonifacio Petrone detto Pecorone, nella sua autobiografia del 1729).
Gent.mo Cembalaro,
ha fatto bene a chiarire anche a beneficio dei non-musicofili. Personalmente non avevo dubbi.

Tornando a bomba:

1) come lei sa benissimo, i copisti dell’epoca erano dei poveretti pagati a cottimo - e non vedo perché Napoli avrebbe dovuto far eccezione - che operavano spesso in condizioni “sub-umane”;

ergo

2) opinione assolutamente personale - che non costa e non vale nulla - : se io fossi riuscito a maturare una convinzione ragionevole - anche in base all’intuito - , né una geminata sbagliata al Nord né - ancora meno - un timbro vocalico incongruente al Sud - potenzialmente dovuto all’incertezza/confusione nella trascrizione dei numerosi “scevà” (particolarmente in fine di parola) - mi smuoverebbe minimamente dall’obiettivo conseguito.

Quando può - se ritiene - mi toglierebbe gentilmente la curiosità che Le ho esposto in merito alle spille?

Grazie e cordialità
Cembalaro
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Intervento di Cembalaro »

Caro ippogrifo,
può esserle sembrata una lezioncina presuntuosa: non voleva esserlo, mi creda. Pensavo però che stavo dando per risapute cose che magari non lo sono, in un contesto di persone colte sì, ma che potrebbero benissimo non aver presenti i contesti e i personaggi che attengono ad un capitolo della storia della musica. La fretta con cui ho scritto ha forse contribuito a dare al mio scritto un tono da professorino. In tal caso me ne scuso.

Mi scuso anche di aver ignorato la sua domanda sulle spille: ma ho riletto e non la trovo, né la ricordo. Può rifarmela? Risponderò con piacere.
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