[LIJ] «Abaén» ~ «abaèn»

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ippogrifo
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RE: [LIJ] LE PAROLE DEI TETTI

Intervento di ippogrifo »

Scilens ha scritto:Anche in Toscana l'ardesia si chiama lavagna.
La ringrazio per il contributo!
Quindi, ammesso che si tratti di sineddoche (la parte per il tutto), se si fosse realizzata in ambito toscano, avremmo lavagna per abbaino?
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Scilens
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Re: RE: [LIJ] LE PAROLE DEI TETTI

Intervento di Scilens »

ippogrifo ha scritto:[S]e si fosse realizzata in ambito toscano, avremmo lavagna per abbaino?
Seguendo la stessa logica sopra descritta dovrei rispondere affermativamente.
Tuttavia restano i seguenti fatti:
-i tetti di lavagna o pietra similare non sono diffusi in Toscana, dove fin dall'antichità sono stati usati i laterizi, tranne sull'Appennino.
-La descrizione fatta dell'abbaino come lastra alzabile non corrisponde a quel che s'intende con tale termine (io ho in mente questo http://www.milanofoto.it/archive/Strada ... 0torre.jpg)
Non conosco questo dialetto, ma ho la sensazione che se il termine ligure fosse stato italianizzato, avrebbe teso alla forma originaria (abate?)
Per quanto mi risulta, la costosa ardesia era usata, oltre che per le lavagne, per la seduta dei cessi più lussuosi che avevano anche un tappo di marmo con maniglia d'ottone.
Spero di essere di qualche utilità.
Saluto gli amici, mi sono dimesso. Non posso tollerare le contraffazioni.
ippogrifo
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[LIJ] ARDESIA/LAVAGNA

Intervento di ippogrifo »

Grazie, Scilens!
Contributo ricco di dati.
Davvero molto gentile
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Carnby
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Intervento di Carnby »

u merlu rucà ha scritto:Non capisco perché il termine italiano debba necessariamente derivare da quello genovese. L'ardesia proveniva dalla Fontanabuona e il termine più corrente è abaìn da cui abbaino.
Avranno semplificato un po', la valle Fontanabuona è sempre in provincia di Genova anche se non vi si parla il dialetto geneovese cittadino.
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Scilens
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Intervento di Scilens »

Dunque mi par di capire che quest'etimologia sia da rivedere. A volte succede che si tramandino conoscenze indiscusse che in realtà sarebbero discutibili.

(:) grazie Ippogrifo)
Saluto gli amici, mi sono dimesso. Non posso tollerare le contraffazioni.
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u merlu rucà
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Intervento di u merlu rucà »

L'abbaino italiano viene reso con lucarna nel mio dialetto, probabilmente un francesismo (lucarne).
Largu de farina e strentu de brenu.
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Scilens
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Intervento di Scilens »

Pare che l'abbaino come entità architettonica nasca in Francia e si diffonda in Italia nel XVI secolo.
Non so se sia effettivamente nato in Francia, ma il termine era usato già molto prima in Italia e al centro di quest'affresco di Lorenzetti (Siena 1338), tra il cavaliere e le bifore, ce ne sono due.
Lucarna dimostra una funzione legata alla luce.
Però lo scopo dell'abbaino italiano non è di dare luce. Serve solo da accesso al tetto. In caso di gran calura estiva può essere aperto la notte per raffreddare la casa.
Saluto gli amici, mi sono dimesso. Non posso tollerare le contraffazioni.
ippogrifo
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Re: [LIJ] LE PRONUNCE DELLA PAROLA ARDESIA

Intervento di ippogrifo »

u merlu rucà ha scritto:
ippogrifo ha scritto:[È] l'autore citato dal Merlo - per quanto si tratti, globalmente, di un buon contributo - a non risultare del tutto attendibile. :x L'autore citato è noto - nella ristrettissima cerchia degli appassionati - per queste sue "ingenuità". Mi spiego: non è possibile che, durante il breve corso di non molti anni che separano le due edizioni del Casaccia, la pronuncia urbana si sia evoluta - tra l'altro, al contrario ! ! ! - da "abæn" ad "abaen" ! ! ! Non è proprio credibile! :x Si tratterà - piuttosto - di difficoltà o "idiosincrasie" tipografiche ottocentesche.
Quando si riportano forme tratte da dizionari o vocabolari, vengono riportate come risultano nel testo. Conosco personalmente l'autore e mi sembra strano che sia noto per queste 'ingenuità'. Nella Val Polcevera il dittongo ai non si chiude anche in posizione accentata in termini in cui è caduta la -r- intervocalica (evidentemente in epoca tarda e quando il fenomeno della chiusura si era già esaurito): màin-a; fàin-a; àin-a (mare, farina, sabbia).
Mi scusi, abbia pazienza, ma le osservazioni che lei fa non riguardano affatto quanto da me scritto nella parte del mio messaggio da lei citata.

I) Anche lei sa che i dittonghi ancora aperti della val Polcevera da lei citati provengono dalla “caduta” - storicamente “recente” - dell’-ř- intervocalico e non hanno nulla a che fare colla chiusura - più antica - di dittonghi quali quello di “abæn”<abàin in cui non c’è mai stata nessuna -ř-. Si tratta proprio - linguisticamente - di due parrocchie diverse! Inoltre, come appena scritto, ci sono secoli di mezzo - anche in val Polcevera - tra i due fenomeni linguistici - tra loro diversi -.

II) Sappiamo entrambi - come chiarito al punto I) - che i dittonghi quali “abæn”<”abàin” e “fætu” <”faitu”- quindi, non provenienti da -ř- - sono chiusi tanto in val Polcevera quanto a Genova. E da molti secoli! Se si mischiano così argomenti che non c’entrano nulla tra loro, nessun lettore - ammesso che le nostre considerazioni possano risultare d’interesse a qualcun altro - potrà mai capire nulla. Nella divulgazione di argomenti specifici e poco noti occorrerebbe essere sempre estremamente chiari.

III) Il brano da me scritto e da lei citato non riguarda specificamente l’apertura o la chiusura di dittonghi. Sto affermando altro. Molto semplicemente sto solo dicendo che una voce quale “abaen” - cioè con “a” ed “e” pronunciate singolarmente - non poteva esistere nel genovese dell’epoca del Casaccia - II metà dell’Ottocento - né è mai esistita in genovese.


Semplicemente perché un singolare maschile in “-en” non è ammissibile né mai lo fu anticamente in genovese né in nessuna varietà linguistica di tipo genovese.

Lei sa bene quanto me che si tratta semplicemente di una sciocchezza.

Se anche un tipografo dell’Ottocento avesse, ad es., sciolto la legatura “æ” di “fætu” e stampato “faetu”, ciò non potrebbe implicare assolutamente nulla di diverso rispetto alla pronuncia effettiva. Infatti, la “legatura” “æ” rappresenta semplicemente un mero espediente grafico utilizzato per indicare il timbro -intermedio - di “e” aperta (e lunga) su cui s’è “assestata” la monottongazione del dittongo formato da “a” + “i” dell’antica forma “faitu”, in cui - prima, appunto, della monottongazione - “a” e “i” erano pronunciate singolarmente e separatamente e in cui non esisteva nessun timbro di “e”. Proprio come non c’è mai stata nessuna “e” in “abàin”, che è l’antecedente della forma contratta ”abæn”. Detto ancora più semplicemente: “a” ed “e” contemporaneamente non ci sono mai state.


Se si vede scritto in un testo di geometria scolastica che la somma degli angoli interni di un triangolo è di 18 gradi, si pensa a una nuova ipotesi o a un banale refuso o difficoltà di stampa? E, inoltre, mi scusi, non può risultare assolutamente credibile che si abbia la forma contratta “abbæn” nel 1.851 - il Casaccia (tra l’altro) riporta nella grafia la geminata etimologica già all’epoca non più pronunciata - e “abbaen” nel 1.876 che - oltre a essere impossibile per le ragioni chiaramente su esposte – contrasterebbe (se le vocali fossero state pronunciate singolarmente) coll’evoluzione “naturale” del genovese. La direzione dell’evoluzione fonetica naturale del genovese - e non solo - è verso la chiusura, non certo verso la “riapertura” dei dittonghi già chiusi! E - inoltre - non s’è certamente compiuta nel corso di 25 anni! Sono occorsi secoli . . . Se intendessimo avvalerci del concetto da lei esposto - d’intangibilità della grafia dei testi -, dovremmo ammettere che l’autore dell’opera citata - Marco Cuneo - non osserva affatto questo criterio. Infatti, l’accento su “abaén” è dovuto a lui, non certo all’ottocentesco vocabolarista né ai tipografi dell’epoca. Il vocabolario - infatti - non lo riporta. E nessun altro vocabolario del genovese - ho controllato fino agli anni Cinquanta del Novecento - riporta la grafia “slegata” “abaen”.
Contengono tutti “abbæn”. Quindi, “abaén” - sic ! - non compare in nessuna fonte. Dunque, l’autore non aderisce all’impostazione da lei citata. “Integra”, “interpreta”. Tant’è vero che l’autore non riporta la doppia “b” dell’ “hapax” “abbaen” - ripeto, senz’accento sull’ “e” nel testo originale -, ma neppure la doppia “b” di tutte le altre ricorrenze, che sono tutte “abbæn” - tutte quante colla “legatura” “æ” -.

Infatti, l’autore cita perfino la pagina dei dizionari consultati, ma non riporta le voci nella loro integrità testuale. Elimina la doppia “b” perché ritiene non fosse più pronunciata o - più semplicemente - perché ritiene che le doppie non abbiano - in genovese - valore fonologico. Comunque sia, non riporta assolutamente le grafie testuali “telles quelles”. Bene. E fin qui . . .

Però nel porre l’accento sull’ “e” - che nel dizionario non c’è (né in nessun altro dizionario, come sopra chiarito) - sbaglia.

Semplicemente perché sembra non tenere in alcun conto la struttura linguistica del genovese. O non essersene reso conto. E - ancora più semplicemente - non aver verificato con nessun informatore. E sono fonti di questa tipologia che “inquinano” i dati riportati - ad es. - dalla Treccani. Come l’inesistente “abaén”! Mai esistito!

Che vuole che sappiano e quanto possiamo pensare s’interessino di genovese alla Treccani? Si avvalgono e si fidano dei dati degli autori. Ma, fidandosi, - in definitiva - finiscono per riportare - a beneficio di tutti - sciocchezze. Lasciamo pure perdere l’aspetto semantico di “abatino” sul quale non esistono attestazioni e che certamente la forma contratta “abæn” non ha mai significato.

La forma “abaén” – sic ! accentata sull’ “e” ! - riportata dalla Treccani è solo un abbaglio, un miraggio!

Non è, non può essere - è stato chiarito “ad abundantiam”- e non è mai stato genovese.

Anche se - ormai - su Internet il totalmente erroneo - e mai esistito - “abaén” può vantare un significativo numero di ricorrenze di cui - ovviamente - nessuno si cura.
ippogrifo
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Iscritto in data: ven, 15 feb 2013 10:16

Re: [LIJ] LE PRONUNCE DELLA PAROLA ARDESIA

Intervento di ippogrifo »

u merlu rucà ha scritto:
ippogrifo ha scritto:[È] l'autore citato dal Merlo - per quanto si tratti, globalmente, di un buon contributo - a non risultare del tutto attendibile. :x L'autore citato è noto - nella ristrettissima cerchia degli appassionati - per queste sue "ingenuità". Mi spiego: non è possibile che, durante il breve corso di non molti anni che separano le due edizioni del Casaccia, la pronuncia urbana si sia evoluta - tra l'altro, al contrario ! ! ! - da "abæn" ad "abaen" ! ! ! Non è proprio credibile! :x Si tratterà - piuttosto - di difficoltà o "idiosincrasie" tipografiche ottocentesche.
Quando si riportano forme tratte da dizionari o vocabolari, vengono riportate come risultano nel testo. Conosco personalmente l'autore e mi sembra strano che sia noto per queste 'ingenuità'. Nella Val Polcevera il dittongo ai non si chiude anche in posizione accentata in termini in cui è caduta la -r- intervocalica (evidentemente in epoca tarda e quando il fenomeno della chiusura si era già esaurito): màin-a; fàin-a; àin-a (mare, farina, sabbia).
Solo altri due esempi riferitimi dello stesso autore:

1) Lei sa bene quanto me che “piğētu”(sic!) - così egli scrive, intendendo “pigiætu” (sic!) - per “preso/pigliato” in genovese non esiste né è mai esistito. La forma locale è solo “pigiou”. Né si venga a dire che potrebbero esistere attestazioni. Non n’esistono. Per un lettore genovese equivale a leggere in una grammatica italiana che il participio passato di “prendere” è “presato”. Eppure l’autore - in una sua opera - lo propone per genovese . . .

2) Gli ultimi che in città ancora pronunciavano “mæta”/[‘mε.εta] = maretta sono scomparsi da pochi anni, ma questa era la pronuncia tradizionale. Il Casaccia riporta “maèta”, ma è chiaro che volesse intendere la pronuncia che ho descritto. Altrimenti, avrebbe scritto “maetta” - con due “t” - che rappresenterebbe, appunto, la pronuncia precedente secondo la trafila maretta>mařetta>maetta>mæta/[‘mε.εta]. Dopo la vocale lunga accentata si scempia la consonante doppia. Ormai, l’hanno capito anche i bambini . . . Eppure l’autore riporta per Genova “maæta - sic! - (Casaccia, 484, scritto maèta)”. Ho posto tra virgolette il testo originale. Anche l’ “impossibile” “maæta”- sic! - (che, se fosse mai esistita, si sarebbe dovuta pronunciare [ma’ε.εta]) rappresenta una “chimera”: cioè, una creatura tanto mostruosa quanto inesistente. Quindi - anche in questo caso - l’autore interpreta e - anche in questo caso - interpreta a sproposito. Da dove avrà mai preso la terza “a”? In “maretta” ce ne sono due in tutto! L’autore interpreta - nuovamente -, però in una modalità che non dimostra alcuna relazione colla reale struttura del genovese! Il quale - fino a pochi anni fa - aveva ancora parlanti che pronunciavano “pæta”/[‘pε.εta] per paletta, “cæta”/[‘kε.εta] per caletta, “j-æte”/[‘jε.εte] - letteralmente “le alette” - per le pinne dei pesci et c. . . .
Anche se dovrebbe trattarsi di una struttura ormai acquisita da parte di chi si occupa di dialetti liguri . . . Eppure . . . Forse, sarebbe semplicemente bastato domandare a qualche vecchio informatore urbano ancora attendibile. Anche se - di solito - i libri sono figli di libri e nessuno cerca un riscontro sul “campo” in merito alle congetture che formula sui testi.

L’elenco che mi è stato consegnato è molto lungo e continua. Ho certo di meglio da fare che divulgarlo e risulterebbe di scarso interesse per la gran maggioranza dei lettori. Proprio come potrebbe risultare del tutto inutile chiarire a quelli della Treccani tutta la storia dell’inesistente “abaén". Al massimo, risponderebbero che non possono assumersi responsabilità diretta per quanto contenuto in opere di cui si avvalgono in merito a contenuti di cui non hanno competenza diretta. E avrebbero ragione . . . Chiaramente, inoltre, non mi occupo della divulgazione di elenchi compilati da altri e l’elenco può benissimo essere divulgato dalle persone che l’hanno compilato. Qui ho fatto solo due esempi. Inoltre, desidero chiarire di non essere assolutamente animato - personalmente - da alcun tipo di “vis polemica” e non ce ne sarebbe alcuna ragione.

A volte, però, mi sembra di riuscire a capire la delusione degli ultimi e pochissimi lettori locali e le sensazioni di spaesamento da loro provate nel leggere descrizioni di quanto loro conoscono o ricordano ancora bene trattate dagli autori come si trattasse di materia profondamente aliena. Per lo meno aliena rispetto all’autore. Nessuno - evidentemente - giudica le persone, ma, quando la frequenza degli errori su un determinato argomento inizia a farsi notare, il lettore - inevitabilmente - si pone un problema di attendibilità e, oltre a soffrire per quella che egli avverte non come la proposta scientifica, ma l’incomprensione e - quasi - la deformazione del proprio linguaggio (come già altri hanno scritto) è portato a togliere credibilità anche al resto dell’opera. Si vede che il destino del genovese è quello di estinguersi senza che nessun autore sia riuscito a fornirne - per svariate ragioni - una descrizione realmente attendibile. In fondo, al mondo c’è di peggio . . .




P.S.: un altro aspetto che si verifica - in queste situazioni - è lo “schieramento” delle persone. C’è chi s’impegna nell’evidenziare ed elencare gli errori. Chi – invece – propende per atteggiamenti più “difensivi” che si manifestano in affermazioni del tipo “Però, in complesso, è bravo”. Sembra - a volte - che l’esigenza psicologica di “schierarsi” quasi prevalga su una considerazione obiettiva dei contenuti e degli errori - da cui nessuno può risultare completamente immune -. Effetto che non dovrebbe verificarsi, se davvero si fosse interessati alla materia e ai suoi contenuti. Però, forse sarebbe pretendere troppo . . . o rivelerebbe solo ingenuità aspettarsi che su questi argomenti e nell’approccio al loro studio si possa raggiungere un certo livello di rigore scientifico oggettivo e una tranquillizzante serenità di giudizio.
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