«Chi se li fa se li…», dialetti e responsabilità genitoriale

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Ferdinand Bardamu
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«Chi se li fa se li…», dialetti e responsabilità genitoriale

Intervento di Ferdinand Bardamu »

Ho notato come in diversi dialetti esista un detto che si ripete in modo molto simile di zona in zona, il cui fine è quello di esortare i genitori a badare loro ai propri figli, senza chiedere aiuti esterni.

Il detto consiste in una specie di distico a rima baciata, in cui il primo verso è null’altro che un pretesto per la rima. Da me, ad esempio, si dice:
  • rèchie metèrna, c(h)i se je fa se je guèrna
dove guerna vale ‹accudisca e sim› e rechie metèrna è la storpiatura popolare di requiem aeternam. Esiste anche una variante riferita all’infedeltà coniugale e alla necessità di affrontarla da soli, es. nel vicentino si dice «Rèchie metèrna, chi che ga i corni se i governa».

In Liguria — chiedo scusa per la grafia, se contenesse errori fatemelo sapere — ho visto che esiste:
  • Dixe santa catterinn-a che chi se i fa se i ninn-a.
Ninn-a (se si scrive cosí) vuol dire ovviamente ‹culla›.

Ricordo da Amici Miei che in Toscana si dice:
  • Bimbi e grulli chi se li fa se li trastulli.
Da voi c’è un proverbio del genere?
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u merlu rucà
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Intervento di u merlu rucà »

Nel Ponente Ligure: Santa Catařìna, chi se i fa se i nina.
Nella versione, presumo genovese, presentata, viene usata, per esigenze di rima, una forma italianizzante Catterinn-a anziché Cattænn-a.
Largu de farina e strentu de brenu.
Ligure
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Re: «Chi se li fa se li…», dialetti e responsabilità genitor

Intervento di Ligure »

Ferdinand Bardamu ha scritto:Ho notato come in diversi dialetti esista un detto che si ripete in modo molto simile di zona in zona, il cui fine è quello di esortare i genitori a badare loro ai propri figli, senza chiedere aiuti esterni.

In Liguria — chiedo scusa per la grafia, se contenesse errori fatemelo sapere — ho visto che esiste:
  • Dixe santa catterinn-a che chi se i fa se i ninn-a.
Ninn-a (se si scrive cosí) vuol dire ovviamente ‹culla›.
Non si preoccupi, caro Ferdinand, le grafie dialettali locali, antiche e moderne, sono "puramente indicative". Ed è ancora un giudizio "benevolo". Sono state elaborate da persone che non possedevano la competenza dei fatti linguistici né, men che meno, una minima consapevolezza fonologica. E fondamentalmente non possedevano alcuna personale motivazione all'approfondimento di tutto ciò.

Ritenersi "onnisciente" è patologico. Ma, quando a ritenersi "onniscienti" sono gli ignoranti…
Ligure
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Intervento di Ligure »

u merlu rucà ha scritto:Nel Ponente Ligure: Santa Catařìna, chi se i fa se i nina.
Nella versione, presumo genovese, presentata, viene usata, per esigenze di rima, una forma italianizzante Catterinn-a anziché Cattænn-a.
La versione locale tradizionale del proverbio è solo quella sopra riportata. L'invocazione alla santa dev'essere stata aggiunta in un secondo momento per esigenze di rima.

La forma verbale dîxe non compare/compariva nella versione tradizionale. Per altro, risulta agrammaticale. Ciò che ne dimostra la mancata genuinità. Infatti, per quanto il soggetto risulti posposto, la forma verbale necessita, comunque, del soggetto clitico. In questo caso, a dîxe. Le forme riferite sono quelle delle grafie tradizionali. Ma non corrispondono alla fonologia.

A Catterinna *, quale italianismo, ha effettivamente /-t-/ geminato, ma non /-n-/. La pronuncia, infatti, è /a ˌkatte'riɳa/, derivata dalla forma “aristocratica”/ŕa ˌkatte'riɳna/, non più in uso in città. A Cattænna, ormai disusato, altro non era che /a ka'tɛɳa/. Senz'alcuna geminata. Mentre falsamente la grafia tradizionale ne propone addirittura due! Ma molto più usata era la variante a Cattæn /a ka'tɛɳ/. Anch'essa, senz'alcuna geminazione. Gl'ipocoristici femminili erano “formulati” popolarmente (ne ignoro la ragione) al maschile e, in questo caso, “-ina” venne interpretato quale suffisso diminutivo.

Grafie più ragionevoli potrebbero essere, rispettivamente, ad es.: a Catterin-a, a Catæn-a e a Catæn. L'esito /a ka'tɛɳa/ proveniva dalla forma del socioletto aristocratico /ŕa ˌkatta'ŕiɳna/, anch'essa (come indica inequivocabilmente la geminazione di /-t-/>/-tt-/) un precedente italianismo. La relativa transizione evolutiva risulta (non riporto, per semplicità, l'articolo, per altro obbligatorio nel caso dei nomi propri): /kate'ri:na/ > /ˌkatte'ŕinna/ > /katta'ŕiɳna/ > /katta'iɳna/ > /ka'taiɳna/ > /ka'tɛɳna/ > /ka'tɛɳa/ > /ka'tɛɳ/.

Ovviamente, di a Catæn esisteva anche il relativo diminutivo:
/kateri'ni:na/ > /ˌkatteŕi'ninna/ > /ˌkattaŕi'ninna/ >/ˌkattaŕi'niɳna/>/ˌkattaŕi'niɳa/>/ˌkattai'niɳa/>/ˌkattai'niɳ/. Cioè: a Cattainin. In questo caso, il dittongo /-ai-/ non si "chiuse" in /-ɛ-/ semplicemente perché si tratta di sillaba non dotata di accento (né primario né secondario). La geminata /-tt-/ anetimologica postaccentuale - in questo caso si tratta dell'accento secondario della parola - è dovuta al fatto che si tratta di un italianismo **.

La quantità degli italianismi nel dialetto è davvero impressionante e segue evoluzioni del tutto specifiche. Diverse da quelle delle voci di derivazione diretta. Ma gli "studiosi" locali, quali ciechi alla guida di altri ciechi (chi li "prende sul serio", li “segue”) si sono sempre “rifiutati di capire”. Fatti linguistici, per altro, banalissimi. Come, ad es., il fatto che, in genovese, fratello sia tuttora fræ /'frɛ:/ ***, voce, evidentemente, di tradizione diretta, mentre frate è tuttora fratte /'fratte/ ****, italianismo con geminata anetimologica del tutto regolare nel dialetto genovese, nell'inventario fonematico del quale /-t-/, come dimostra la prima delle due voci, s'era ridotto allo zero fonico. Mentre /-tt-/ risultava ancora disponibile. Ma, se vogliamo essere modernamente e correttamente “aristotelici”, non si può non ammettere che la sostanza della lingua/dialetto è φωνή, le γραφαί – specialmente se del tutto incongruenti rispetto alla φωνή – rappresentano soltanto degli accidenti

* Anche questo italianismo, fino a pochi anni fa, aveva il suo ipocoristico: a Catte /a 'katte/. Il quale, a sua volta, possedeva il diminutivo (soltanto nella versione maschile) a Catin /a ka'tiɳ/. Infatti, una geminata, anche se anetimologica, com'è negl'italianismi, può "manifestarsi" (cioè essere pronunciata) solamente in posizione immediatamente postaccentuale. Quindi, /a 'katte/, ma /a ka'tiɳ/.

** Gli "studiosi" locali non riescono proprio a rendersi conto di quanto diverse siano, ad es., le voci gatte /'gatte/ = gatte e fratte /'fratte/ = frate - pur, evidentemente, foneticamente equivalenti. La prima rappresenta la conservazione della geminazione etimologica originaria - possibile esclusivamente in posizione immediatamente postaccentuale -. Quindi, indubitabilmente, voce di derivazione diretta. La seconda, in quanto italianismo, risulta caratterizzata da una "regolare" - in genovese - geminazione anetimologica. La controprova è rappresentata dal fatto che - se si fosse trattato di "derivazione diretta" - si sarebbe avuto l'esito fræ/'frɛ:/ - "regolarissimo" per voci di tradizione diretta - e riservato, in genovese, soltanto a fratello.

*** /'fra:tre/ > /'fra:dre/ > /'fra:δre/ > /'fra:re/ > /'fra:ŕe/ > /'fra:e/ > /'frɛ:/.

**** /'fra:te/ (ital.) > /'fratte/: in questo caso, la derivazione della voce dialettale non è dal latino, ma direttamente dalla lingua italiana.
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Animo Grato
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Intervento di Animo Grato »

Ligure ha scritto:Gl'ipocoristici femminili erano “formulati” popolarmente (ne ignoro la ragione) al maschile
Anch'io, ovviamente, ne ignoro la ragione, ma credo proprio che non si tratti di un uso limitato al genovese e al livello popolare. Ad esempio porto il caso di violino (che altro non è che il diminutivo di viola), come testimonianza di un fenomeno molto più produttivo, suppongo, in passato (mentre i parlanti di oggi, dovendo coniare un diminutivo all'impronta, probabilissimamente non farebbero il "salto di genere").
Per la precisione, credo che il passaggio sia dal genere di provenienza al neutro (dimensione che in italiano confluisce nel maschile e quindi, in pratica, invisibile), come si potrebbe non dico dimostrare, ma almeno argomentare facendo un raffronto coi suffissi del diminutivo in tedesco, -chen e -lein, che sono per l'appunto neutri.
«Ed elli avea del cool fatto trombetta». Anonimo del Trecento su Miles Davis
«E non piegherò certo il mio italiano a mere (e francamente discutibili) convenienze sociali». Infarinato
«Prima l'italiano!»
Ligure
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Intervento di Ligure »

Faccio una breve premessa dicendo, quale informazione, ormai, di carattere "storico", che, almeno a Genova, quando ancora la classe "borghese" era dialettofona, si era già avuto un tentativo di reazione e, nel socioletto "borghese", risultava evidente il "tentativo" (o l'"affettazione", se si volesse essere più critici) di "ripristinare", se mai l'avessero posseduto, il genere femminile negl'ipocoristici di persone di tale genere.

Devo dire che anch'io sostanzialmente ho pensato a quanto lei riferisce. Infatti, gl'ipocoristici nascono colla nascita dell'essere umano per, poi, accompagnarlo (almeno, un tempo) lungo tutta la vita. E si potrebbe anche fare riferimento a epoche (sostanzialmente, precedenti a quella di Freud) in cui l'infanzia veniva ancora considerata quasi "asessuata".

Tuttavia, non si tratta soltanto di diminutivi in /'-iɳ/ (in realtà, /'-ĩ/ nella pronuncia popolare, senz'alcun /ɳ/, ma con pronuncia nasale della vocale corrispondente) in cui si potrebbe anche pensare che /ĩ/ possa essere stato ritenuto ancipite.

Il fatto è che la forma genuina di Maria era a Majja /a 'majja/*. Il cui ipocoristico era a Majettu /a ma'jettu/ **. Colla desinenza /-u/ avvertita quale terminazione dei maschili e l'articolo /a/, com'era giusto che fosse, al femminile. Per altro, la forma a Majetta /a ma'jetta/ *** (per altro, "teoricamente prevedibile") rappresentava semplicemente, nell'ambito dell'onomastica genovese, soltanto una "reazione borghese" ispirata alla morfologia della lingua italiana… Si tornava a /'-ĩ/ soltanto nell'ipocoristico dell'ipocoristico: a Majjetin /a ˌmajje'tiɳ/ o /a ˌmajje'tĩ/… In teoria, però, anch'esso maschile, perché il femminile sarebbe stato in /'-ĩa/ o /'-iɳa-/!

P.S.: Certo, la lingua tedesca usa diminutivi di sostantivi che implicano il genere neutro, ma - in questi casi - si utilizza, per altro, anche l'articolo determinativo del genere neutro. Ad es., das Mädchen /ˈm(ɛ/e)ːtçən/= fanciulla, ragazza e non die Mädchen - die è il femm., mentre das compete al neutro - (l'etimo è condiviso col termine inglese maiden). All'opposto, in genovese, l'articolo di un ipocoristico relativo a una persona di genere femminile risulta sempre femminile. A Majettu è ipocoristico di Maria, mentre u majettu altro non può significare se non il maritino!

*/la ma'ri:a/ > /ŕa maŕi:a/ (forma del socioletto aristocratico) > /a ma'i:a/ > /a 'maia/ > /a 'maija/ > /a 'majja/: forma condivisa dal socioletto borghese e dal socioletto popolare perché (in entrambi) si verificò la transizione evolutiva da /-r-/>/-ŕ-/ > /-0-/. Oggi si dice a Marîa /a ma'ri:a/, evidente italianismo: /-r-/ anziché /-0-/. S'è tornati all'origine, ma ormai non ci saranno più evoluzioni linguistiche di alcun tipo…

** nonostante, per altro, possa anche essere interpretabile come "la maritino" (sic!). Infatti, majettu /ma'jettu/ è tuttora il normale diminutivo di majju /'majju/ = marito. La cui transizione evolutiva risulta: /ma'ri:tu/ > /ma'ŕi:du/ > /ma'ŕi:δu/ > /ma'ŕi:u/ (forma "aristocratica") > /ma'i:u/ > /'maiu/ > /'maiju/ > /'majju/ (esito attuale), da cui il regolare diminutivo /ma'jettu/ = maritino.

*** mentre esisteva soltanto con "morfologia maschile" il diffusissimo ipocoristico a Main /a ma'iɳ/ (spesso pronunciato, nei ceti popolari, /a ma'ĩ/), derivato dall'ipocoristico ŕa Maŕin /ŕa ma'ŕiɳ/ > /a ma'iɳ/ del nome Maria, riscontrabile nel socioletto aristocratico come ŕa Maŕîa /ŕa ma'ŕi:a/. E solamente con "morfologia maschile" risultava possibile il più popolare ipocoristico a Majollu /a ma'jɔllu/, dal quale si poteva anche ottenere a Majjulin /a ˌmajju'liɳ/, spesso /a ˌmajju'lĩ/ ecc.. Tutti "morfologicamente" maschili… E tutti rigorosamente caratterizzati dall'articolo femminile /a/ < /ŕa/ < /la/: infatti, la consonante di /la/ risultò "intervocalica" per effetto di fonosintassi e giunse a /-ŕ-/, esito regolare di /-l-/, da cui si pervenne successivamente allo zero fonico nel socioletto borghese sopravvissuto e nel socioletto popolare ormai, estinto. Il socioletto aristocratico si estinse, ma ancora caratterizzato da /ŕ/ (rimasto tuttora in zone di linguaggio arcaico anche nella provincia di Genova), nel corso del sec. XIX e nella misura in cui i parlanti, dopo il crollo del governo aristocratico, passarono direttamente all'uso della lingua italiana per segnalare, in questo modo, la loro "situazione di prestigio sociale", "disdegnando" di conversare nelle forme dei socioletti borghese o popolare. La stampa locale dette notizia nel 1895 del decesso dell'ultimo aristocratico (il marchese Luigi Doria) che ancora utilizzava questa pronuncia. Tuttavia, ancora negli anni della II guerra mondiale esistevano aristocratici che, pur non parlando più abitualmente il socioletto della propria categoria sociale, risultavano ancora in grado di rivolgersi, in questa variante sociolinguistica, ai contadini dei propri fondi. In molti casi, infatti, il linguaggio dei contadini non aveva seguito l'evoluzione della parlata urbana.
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