Influssi dotti nei dialetti

Spazio di discussione su questioni di dialettologia italiana e italoromanza

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u merlu rucà
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Intervento di u merlu rucà »

Ferdinand Bardamu ha scritto:
u merlu rucà ha scritto:Anche nel mio dialetto la forma per giovedi deriva da *iovia: zögia ['zø:ʤa], ma oggi si sente dire quasi sempre giuvedì.
Interessante, grazie. Posso chiederle quali sono le forme correnti di mercoledì e venerdì? È per capire se il prestito può avere qualche funzione all’interno della sequenza dei nomi dei giorni.
Le forme canoniche, già desuete quando ero piccolo:
lünesdì, materdì, mercurdì, zögia, venardì, sabu, duménega.
ora si sentono:
lünedì, martedì, merculedì, giuvedì, venardì, sabu, duménega.
Largu de farina e strentu de brenu.
Ligure
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Intervento di Ligure »

Per quanto si sia potuto verificare che i processi di retroaccentazione del veneto non coincidono con i fenomeni linguistici riscontrabili - nei dialetti liguri - relativamente all'evoluzione dei nomi dei giorni della settimana, dal momento che sono state proposte forme del Ponente, inserisco - per Genova - le voci - assai simili - ancora mancanti all'elenco dei giorni d'ővei /ˌdɵ:'vei/ (espressione, ormai desueta, che indicava le giornate lavorative).

Versione tradizionale: lünnezdì /ˌlynne'zdi/ e mātezdì /ˌma:te'zdì/.

Pronuncia attuale (semplici italianismi): lünnedì /ˌlynne'di/ e mārtedì /ˌma:rte'dì/.

La voce lünnezdì /ˌlynne'zdi/ ha, evidentemente, /-z/ per analogia con
mātezdì /ˌma:te'zdì/.

La forma ponentina, ormai desueta, riferita - materdì -, per altro, ci accerta di un'intervenuta metatesi del fonema /r/ nella denominazione locale del martedì.

Ne consegue che si dimostra falsa l'etimologia tradizionale che riteneva si dovesse interpretare, in genovese, nella voce tradizionale corrispondente a martedì - mātezdì /ˌma:te'zdì/ -, il fonema /-z/ quale relitto del genitivo latino di Marte.

Perché:

1) in mātezdì /ˌma:te'zdì/ l'/-r/ di Marte non sarebbe potuta scomparire. Infatti, in genovese, ad es., si dice forte esattamente come in italiano. Il fonema /-r/ permane. Gli esempi risultano praticamente infiniti e ipotizzare un'eccezione non avrebbe alcuna motivazione plausibile a sostegno;

2) la metatesi è possibile e, allora, basta pensare che, davanti ad altra consonante, /s/ e /z/, nel genovese popolare e nelle parlate del contado, possono alternare con /r/. Desinare era, a Genova, diznâ /di'zna:/, ma - nel contado - dirnâ, disfare è desfâ /de'sfa:/, ma, in campagna, derfâ...

Non è mai intervenuta - in genovese - alcuna inspiegabile sparizione dell'/r/ nella denominazione del dio Marte né è mai esistita alcuna particolare sensibilità conservativa dei dialetti liguri rispetto al genitivo latino. Fatto chiarissimo che tutta l'evoluzione dei dialetti liguri dimostra.

Si tratta, assai più semplicemente, di metatesi - frequente negli esiti di matrice popolare - e dell'alternanza di fonemi menzionata, evidentemente ignota agli etimologisti.

I quali non poche volte sparano a caso. Mettendo - metaforicamente - il costo delle cartucce sul conto di chi dà loro retta.

P.S.: sabato e domenica sono - da sempre - sabbu /'sabbu/ e dumennega /du'mennega/
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Ferdinand Bardamu
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Intervento di Ferdinand Bardamu »

Ligure ha scritto:Per quanto si sia potuto verificare che i processi di retroaccentazione del veneto non coincidono con i fenomeni linguistici riscontrabili - nei dialetti liguri - relativamente all'evoluzione dei nomi dei giorni della settimana…
Non mi è chiaro che cosa intenda: dice che in veneto la retroaccentazione non ha che fare con la fonotassi della lingua ma con fenomeni di analogia?
Ligure ha scritto:Sabato e domenica sono - da sempre - sabbu /'sabbu/ e dumennega /du'mennega/
La forma doménega e varianti locali riflette la normale evoluzione settentrionale di /VkV/. Secondo lei nella forma duminica (non limitata al mio dialetto né al veneto) si può ravvisare l’influsso del latino ecclesiastico, posto che io tenderei a escludere il prestito dall’italiano (posbellico)?
Ligure
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Intervento di Ligure »

La ringrazio per l'intervento.

Speravo di avere scritto una frase comprensibile. :(

Intendevo dire semplicemente che inserivo le forme di Genova per completezza - onde non risultare eccessivamente petulante - nonostante esse, a differenza di quelle venete, non manifestino retroaccentazione. Soltanto questo.

Ma si può modificare il testo se risulta poco chiaro.

Quando avrò un attimo di tranquillità potrei ritornare sul tema degl'italianismi e dei latinismi.

Senza riflettere più di tanto, risulta inevitabile che io non possa non prendere in considerazione quanto è avvenuto a Genova e in Liguria. Ma è solo un angolo di visuale...

Dal quale si vede come a Genova, ad es., tutto ciò si sia verificato in tempi piuttosto remoti.

Con intrecci continui tra italiano locale, latino e dialetti.

Solo un esempio, in seguito proverò a tornare sul tema.

Già all'inizio dell' '800, l'esito locale "regolare" per "modo" - certamente non un cultismo (e ciò si verificò per un'infinità di altre voci d'uso quotidiano) -, che era mőu /'mɵ:u/, non veniva più praticato da nessuno. Si disse soltanto moddu /'mɔddu/. Nel '700 ancora s'alternava. Ma nell' '800 tutti - cittadini e contadini - dicevano già così. E solo così. E per un'infinità di vocaboli. Perché così dicevano i nobili, i preti, i grandi borghesi, i signori ...

In Liguria, almeno, l'interazione sociale tra i diversi ceti fu sempre assai viva. Ebbe anche lunghi secoli d'incubazione. Ed esplose distruggendo un'amplissima quantità di voci, per altro testimoniata nei secoli precedenti.

Soltanto gli studiosi locali, insipienti e incuranti dei fenomeni sociolinguistici, possono parlare di eccezioni...

Si tratta semplicemente della dismissione della tradizione diretta e dell'assunzione diretta di voci dalla lingua italiana, sia pure ancora recepite coi vincoli del sistema linguistico locale.

Ma - sotto tutti gli aspetti - si trattò di voci nuove, in precedenza non presenti nel lessico locale. E di perdita per sempre di quelle tradizionali.

Per Genova e la Liguria si trattò, comunque, di fenomeni piuttosto antichi.

Spero se ne possa riparlare.
Ligure
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Intervento di Ligure »

Ovviamente, non conosco la dialettologia veneta.

Ma credo che, dappertutto, i latinismi popolari abbiano riguardato termini tratti dagli atti di devozione religiosa (il segno della croce, semplici - e meno semplici - preghiere che venivano imparate a memoria anche dagli analfabeti e alcuni canti liturgici).

Non credo molto di più.

Nelle orazioni della tradizione cattolica non ritengo compaia il termine corrispondente a domenica quale giorno della settimana.

I preti - e non penso solo in Liguria - furono tra gli ultimi ad abbandonare l'espressione dialettale nel rivolgersi direttamente alle persone più semplici.

Per altro, l'interazione diretta coi membri del clero veicolava molti italianismi, non latinismi. Era un po' come parlare - ancora in dialetto - col medico, col farmacista, coll'avvocato ...

A mio avviso, i nomi della settimana - a parte l'ovvia etimologia del sabato e della domenica - colla loro evidente paganità avevano poco a che fare cogli aspetti devozionali tradizionali e afferivano direttamente al computo civile del calendario.

Personalmente propendo chiaramente per un italianismo. Anche perché - pur non essendo un esperto del latino ecclesiastico - so che la Chiesa usava prevalentemente il genere maschile.

All'epoca di G. Paolo II, ad es., si trova scritto - come datazione temporale - Die dominico Paschæ = "Nella ricorrenza della domenica di Pasqua".

In realtà, si può riscontrare anche il femminile, ma non ne conosco la frequenza.

Ovviamente - premesso che è poco credibile che il sistema di datazione ecclesiastico possa aver riguardato gl'indotti - il fatto del genere maschile non consentirebbe d'ipotizzare se non un prestito dalla lingua italiana.

In Liguria il clero ha parlato in dialetto fin quasi all'ultimo e ha veicolato un'infinità d'italianismi - come i ceti culturalmente più elevati -, contribuendo, relativamente, in misura nettamente inferiore alla moderatissima diffusione di alcuni latinismi devozionali.

Collegati al tempo dell'eternità (ossimoro di carattere religioso) o a quello delle ricorrenze liturgiche.

Mentre lo scorrere delle settimane lavorative e degli altri aspetti civili non veniva minimamente intaccato dal latinorum clericale/devozionale.
Ultima modifica di Ligure in data ven, 16 nov 2018 20:30, modificato 3 volte in totale.
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Ferdinand Bardamu
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Intervento di Ferdinand Bardamu »

Grazie. Dunque, la forma di duminica può esser dovuta a ragioni foniche? Vedo che si ritrova sporadicamente in tutto il Settentrione: nel punto dell’AIS piú vicino a me della carta 335 («domenica»), ossia Cerea (381), vedo che la forma è per l’appunto dominica/duminica.
Ligure
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Intervento di Ligure »

Non ho capito se lei faccia esclusivamente riferimento all'Atlante o se si tratti di un esito che lei conosce direttamente.

Per altro, nelle zone di cui parla, un /-k-/ può essere unicamente dovuto o a una geminata etimologica degeminatasi o a un prestito.

In genere dall'italiano, ma anche dal latino o da qualsiasi altra favella.

L'infinità degli esiti in /-g-/ - ovviamente non tutti riferiti dall'AIS - attesta inequivocabilmente qual è il risultato dell'evoluzione storica.

Se è un esito che lei conosce - cioè effettivo - non può essere che un prestito.

Altrimenti, non si può respingere l'idea di un errore.

Nel caso di Genova, ad es., non si può pensare a un prestito quale mulin e, quindi, non rimase che chiarire che si tratta di un errore. Ma, nella situazione della Liguria, il termine de quo compariva una sola volta, essendo contraddetto da tutti i punti viciniori, e ciò rendeva l'indagine più semplice.

Comunque, l'evoluzione dialettale veneta - e non solo - è un dato di fatto scientificamente provato ed è certo che /-k-/ - indipendentemente da che cosa l'abbia determinato e dal fatto che potrebbe anche essere un errore (per quanto la relativa diffusione non parrebbe confermare quest'ipotesi) - non può rappresentare un esito di tradizione diretta.

Ribadisco: non esistono eccezioni vere. Possono esistere prestiti o errori.

Modernamente dovuti tanto all'informatore quanto al raccoglitore.

Entrambi significativamente incompetenti.

Anticamente, prevalentemente dovuti al raccoglitore, totalmente avulso dal contesto che avrebbe dovuto indagare e testimoniare in sæcula sæculorum. Ma gli strumenti del fallibile essere umano - carta stampata e registrazioni - sono innocenti e, quindi, onesti e testimonieranno in æternum (a chi sappia indagarli :wink:) anche gli errori commessi dall'uomo.

Anche di chi abbia ardentemente desiderato eternare la propria personale incompetenza ... :wink:

P.S.: sottovalutavo l'effetto del latinorum in condizioni d'ipoglicemia ...
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Ferdinand Bardamu
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Intervento di Ferdinand Bardamu »

Duminica è un esito a me noto: lo uso e lo sento in dialetto. Ho citato l’AIS come conferma. Trattasi dunque di prestito, resta da capire se dall’italiano o dal latino.
Ligure
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Intervento di Ligure »

Molte grazie per la gentile precisazione.

S'è proceduto, quindi, correttamente, escludendo un errore da parte dei tedeschi. Come, per altro, la relativa diffusione della voce induceva a ritenere.

Scientificamente, perciò, la diagnosi categoriale è prestito, non errore.

L'esatta attribuzione al latino o all'italiano - ormai, però, nell'ambito di una categoria fonetica e fonologica ben definita - è materia più di tipo ideologico.

Mi spingo a dire che, se, diversamente dalla mia opinione - ma tutte sono utili e valide in campo ideologico -, si ravvisa un'influenza "clericale" anche nel contesto delle denominazioni dei giorni della settimana - o, particolarmente, di quello dedicato alla Festa del Signore (Dominus) -, sarebbe assolutamente ragionevole anche ipotizzare una doppia componente - una somma di vettori -.

Dovuta all'influenza del clero - ancora veicolata dal linguaggio dialettale - che comunica al gregge dei fedeli - tramite italianismi - i latinismi relativi alla pratica della liturgia e alla diffusione della pastorale propria del ministero sacerdotale.

Quindi, senza dover ragionare esclusivamente - sia pure nel corretto ambito territoriale dei prestiti - su un'inevitabile dicotomia tra una lingua - allora solamente di cultura - (l'italiano) e una versione ormai sclerotizzata ai soli fini liturgici di quella che n'era stata l'augusta genitrice.
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Ferdinand Bardamu
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Intervento di Ferdinand Bardamu »

Grazie ancora. Mi premeva in particolar modo indagare l’origine di questi prestiti e affermare con forza, con l’aiuto della Sua acribia, la naturalità dell’influsso cólto (toscano/italiano o latino che sia) sulle parlate dialettali.

Mi è capitato infatti di parlare con venetisti — termine inteso in senso politico — che si spingevano fino a negare la realtà dell’influenza di superstrato dell’italiano in quanto lingua di cultura adoperata dalla sottile fascia di popolazione alfabetizzata nei secoli precedenti i media di massa.

Del resto, per accorgersi di come l’influsso del toscano letterario sia sempre stato presente anche in veneto, basterebbe dare una rapida occhiata a un testo qualsiasi del corpus pavano.
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u merlu rucà
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Intervento di u merlu rucà »

Direi che due sono i campi in cui l'influsso dotto, latino o italiano, si è maggiormente affermato nei dialetti: la religione e le malattie.
Alcuni esempi nel mio dialetto:
turìbulu 'turibolo'; aspèrge 'aspersorio' < lat. asperges; càlise 'calice'
pecùndria 'ipocondria'; pudràga 'gotta'; pustéma 'ascesso'
Largu de farina e strentu de brenu.
Ligure
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Intervento di Ligure »

Prescindendo da una specifica parlata locale - su cui preferisco non esprimermi -, si può notare che, in generale, quando i lessici delle più svariate varietà linguistiche liguri propongono per pecundria /pe'kuŋdrja/ il traducente italiano ipocondria, ciò avviene a seguito di un'attitudine improntata a pigrizia e deriva dall'aver fatto funzionare gli orecchi piuttosto che risultare conseguenza di un'effettiva conoscenza specifica del significato tradizionale.

Per quanto nessuno, ovviamente, possa porre in discussione l'etimo, il significato tradizionale delle parlate liguri non corrisponde a quello del disturbo attualmente classificato quale disturbo da ansia da malattia (che può anche essere in comorbidità col disturbo da sintomi somatici qualora, effettivamente, qualcuno di questi possa risultare davvero presente).

Infatti, il significato tradizionale verte su turbe o disturbi dell'umore - categoria che, per quanto assai ampia, non include l'ipocondria - e non implica il riferimento a manifestazioni specifiche di patofobia (caratteristica fondamentale del disturbo anche in assenza di sintomi di malattia concreti).

Ho consultato, ad es., un piccolo lessico ventimigliese, il quale riporta come primo significato malinconia, ma riferisce come seconda accezione la voce ipocondria. Certamente ineliminabile come riferimento mentale dovuto alla lingua italiana e somiglianza fonetica, sebbene si rimanga perplessi relativamente al fatto che sia davvero questa l'accezione locale, mentre è, inoltre, lecito mantenere il dubbio sulla vera comprensione da parte del lessicografo della categoria nosografica dell'ipocondria.

Dalla Lombardia alla Campania lessici più convincenti - almeno, apparentemente - segnalano le accezioni di turbe dell'umore come anche di malinconia o di nostalgia. Ma non ho riscontrato la specifica accezione d'ipocondria.

Sia come sia a giro, il significato genovese di pecundria /pe'kuŋdrja/, voce, ormai, desueta, il cui etimo originario risale al greco (τὰ) ὑποχόνδρια * - aggettivo neutro plurale sostantivato e non ancora sostantivo femminile -, non implicava minimamente un effettivo stato ipocondriaco, ma significava - genericamente - una situazione alterata dell'umore e - in una città calvinista sotto l'aspetto dell'impegno personale sul lavoro quale Genova era -, fondamentalmente, svogliatezza/scarsa voglia di lavorare, di sapersi impegnare.

Ciò che la pecundria /pe'kuŋdrja/ provocava negli altri era la ped(e/i)mmia /pe'd(e/i)mmja/ - sempre d'etimo originario nobilmente greco (ἐπιδημία) se pur con accento ritratto nel dialetto genovese -. Il significato non si riferiva minimamente ad aspetti relativi a una potenziale epidemia, ma, specificatamente, al fastidio, alla mancanza totale di empatia che la pecundria /pe'kuŋdrja/ inevitabilmente attirava su chi - a ragione o a torto - l'esibiva a fronte dell'aspettativa dell'impegno lavorativo del soggetto.

Perché "epidemia"? Perché se la pecundria /pe'kuŋdrja/ poteva anche essere ritenuta d'origine endogena e dovuta alla situazione umorale intrinseca del soggetto, la ped(e/i)mmia /pe'd(e/i)mmja/ era ritenuta esogena, provocata cioè dall'osservazione di un altro soggetto - svogliato o affatto privo di voglia di lavorare -.

Non indugio più di tanto sul termine pudrâga /pu'dra:ga/ = gotta (non soltanto del piede), podagra (l'unica delle quattro voci diagnostiche genovesi riferite a non aver avuto bisogno di aferesi). L'etimo originario risulta greco - ποδάγρα - e, letteralmente, significa piedica **, una metafora particolarmente adeguata in relazione alle manifestazioni di difficoltà di articolazione relative a quest'affezione. In questo caso, la pronuncia popolare (dialettale) s'è concessa una metatesi - per altro, di frequente riscontro in genovese quando risulti implicato il fonema /r-/ -.

La voce aferetica pustemma /pu'stemma/ = ascesso - in modalità esattamente parallele a quanto s'è verificato nella lingua italiana - deriva, originariamente, dal greco ἀπόστημα *** , di cui il lat. abscēssu(m) risulta l'esatto calco linguistico.

Per quanto, attualmente, anche i locutori dialettali pronuncerebbero la voce culêra /ku'le:ra/ = colera **** con la stessa posizione dell'accento della lingua italiana - /-l-/ e /-r-/ segnalano, indubitabilmente, un esito di derivazione non diretta (altrimenti, entrambi i fonemi si sarebbero ridotti allo zero fonico) -, la pronuncia tradizionale era terzultimale: còllera /'kɔllera/. Ormai unicamente relegata a esecrazioni stereotipate che indicano scarso autocontrollo ed esacerbato risentimento. Come, ad es., in Posci-tu pigiâto-u còllera! - che non richiede traduzione -.

E' esistita anche la relativa voce - pluralia tantum - di derivazione diretta - proveniente, comunque, sempre da una forma antica dotata di accento in posizione terzultimale (cölleŕe /'kɵlleŕe/) -, che era cöllie /'kɵllje/.

Essa, però, indicava unicamente l'arrossamento del viso, dovuto non soltanto a collera, ma anche a imbarazzo o timidezza - quando questi sentimenti ancora esistevano -.

Il pus dell'ascesso viene/veniva detto matêja /ma'te:ja/ (materia). Mentre la follia era la matejja /ma'tejja/. Ovviamente da mattu /'mattu/.

A onta dell'affermazione del Canepari secondo la quale /j/ non sarebbe fonema nel dialetto genovese. Mentre esso rivela anche possibilità oppositive relativamente alla lunghezza/durata. Come, ad es., nella coppia minima [proposta, in cui l'unico tratto distintivo risulta, appunto, costituito dalla lunghezza del fonema genovese /j/. Contrastato da /jj/.

Quandoque bonus dormitat Homerus.

*(Tὰ) ὑποχόνδρια, quasi fosse gl'ipocondri, faceva riferimento all'ambito viscerale, reputato sede anatomica di questa tipologia di affezione dell'umore. L'aggettivo sostantivato veniva riferito alla zona sottostante alle cartilagini: (Tὰ) ὑπό + χόνδρια ("ciò che - le cose che ... - sta sotto alle cartilagini"). La preposizione greca ὑπό vale "sotto" e la forma aggettivale plurale χόνδρια deriva da χόνδρος = cartilagine, anche se il significato più usuale del vocabolo risulta quello di chicco, grano di cereale.L'accentazione latina tiene conto della brevità della vocale ĭ - su cui, quindi, non può cadere l'accento - che trascrive la iota - ι - del greco.

** tanto per citare una voce italiana che abbia nell'etimo la radice latina pĕd-, analoga a quella greca ποδ- di ποδάγρα. Esse differiscono tra loro unicamente per l'apofonia del timbro vocalico. In genovese piede è /'pe:/ - evidentemente, /-d-/ (a motivo della lenizione) si ridusse allo zero fonico -. La vocale lunga risulta plurideterminata. Certamente si ebbe allungamento romanzo delle sillabe aperte (come in fiorentino e, quindi, in italiano). Ma si ebbe pure - a differenza del fiorentino - allungamento dovuto al fatto che i due timbri vocalici - ridotto allo zero fonico l'esito di /-d-/ - vennero a trovarsi in contatto diretto e, per coalescenza, si produsse un'unica vocale, lunga.

Per chi sia sagace indagatore potrebbe sorgere il dubbio se si sia verificato anche in genovese - come si può riscontrare in fiorentino - lo pseudidittongamento attribuibile a ĕ etimologico.

Il quale, per altro, sarebbe - in genovese - ulteriore motivo di allungamento vocalico. Ciò non risulta deducibile a partire dall'esito genovese attuale. In quanto le altre determinazioni esposte varrebbero già a giustificare la quantità lunga.

In realtà c'è stato e ce lo conferma agevolmente la forma pié /'pje/ dell'Appennino genovese (ad es., Rovegno). Ma perché la forma della montagna appare irregolarmente breve a differenza di quella urbana? Semplicemente perché - in forza dell'analogia - il monosillabo originariamente ottenuto, piê /'pje:/, venne abbreviato - in aree non urbane - soltanto al fine che potesse condividere la quantità breve, caratteristica anche nei dialetti di tipo genovese, dei monosillabi etimologici, originari.

Chi nutrisse curiosità può ascoltare gli esiti - chiaramente differenziali - di Genova e di Rovegno. Proposti da informatori (ormai, è stato chiarito a sufficienza) non genuini, che tentano, per altro, di dare il meglio delle proprie - limitate - capacità. L'informatore non urbano è più giovane d'età e ancora più malcerto del compagno d'avventura cittadino. Molti fonemi vocalici da lui pronunciati possono essere recepiti come lunghi. Ma non si tratta, in realtà, della durata quantitativa contrastiva storico-tradizionale. Tutto l'eloquio del soggetto risulta più impacciato e più lento a motivo dell'incertezza relativa a una varietà linguistica nella quale non è mai stato davvero abituato a esprimersi con scioltezza e spontaneità adeguate.

Comunque:

https://www2.hu-berlin.de/vivaldi/?id=m3215&lang=it



*** La voce greca ἀπό + στῆμα significa, letteralmente, allontanamento - rispetto alla precedente conformazione dei tessuti sani - e rappresenta il nome verbale corrispondente al verbo ἀφίστημι, da ἀπό + ἵστημι. Per quanto la forma del verbo latino geneticamente corrispondente a ἵστημι sia sto (da stare) - anzi, sisto (da sistĕre) -, il campo semantico non coincide completamente e, in questo caso, per rendere ἵστημι venne prescelto il verbo cēdo, da cui cessu(m). Chiaramente l'abs latino traduce la preposizione greca ἀπό. A differenza di quanto si verifica nel caso dell'accentazione greca, la sede dell'accento latino si trova sulla penultima sillaba in quanto η risulta di quantità lunga.



**** L'etimo, greco, è χολέρα, esito proveniente dal sostantivo χολή = bile. Data la brevità di ε, la prosodia latina richiede l'accento in posizione terzultimale.
Ultima modifica di Ligure in data gio, 06 dic 2018 19:44, modificato 9 volte in totale.
Ligure
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Intervento di Ligure »

Ferdinand Bardamu ha scritto:Grazie ancora. Mi premeva in particolar modo indagare l’origine di questi prestiti e affermare con forza, con l’aiuto della Sua acribia, la naturalità dell’influsso cólto (toscano/italiano o latino che sia) sulle parlate dialettali.

Mi è capitato infatti di parlare con venetisti — termine inteso in senso politico — che si spingevano fino a negare la realtà dell’influenza di superstrato dell’italiano in quanto lingua di cultura adoperata dalla sottile fascia di popolazione alfabetizzata nei secoli precedenti i media di massa.

Del resto, per accorgersi di come l’influsso del toscano letterario sia sempre stato presente anche in veneto, basterebbe dare una rapida occhiata a un testo qualsiasi del corpus pavano.
Mi scuso, ma mi era sfuggito il messaggio. Anch'io ringrazio lei.

Condivido totalmente quanto da lei sopra esposto.

E, altrettanto ovviamente, quanto s'è finora noi qui detto - e debitamente argomentato - esula ampiamente dall'ambiente veneto o ligure e si può affermare che abbia validità linguistica dotata di ampia generalità.

Rimane un grande piacere potere continuare a scrivere di questi aspetti linguistici, storici e - in genere - culturali su questo sito a motivo della totale libertà d'espressione di cui tutti si continua a godere e della totale assenza di contaminazione degli elementi schiettamente e veridicamente culturali con strumentalizzazioni - metodologicamente ingiustificabili - quando esse risultino riconducibili a istanze politiche localistiche nella misura in cui esse si appoggiano su evidenze linguistiche e storiche del tutto soggettive e ampiamente fuorvianti rispetto ai dati oggettivi disponibili e all'inconfutabile Verità scientifica.
Ligure
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Intervento di Ligure »

Avevo scritto un recente intervento sulle denominazioni dialettali liguri di alcune patologie - di etimo greco, ma, diversamente da quanto si può riscontrare nell'italiano, dotate nel dialetto locale di accentazione conforme alla prosodia latina.

Avevo, inoltre, chiarito che pecundria /pe'kuŋdrja/ e le corrispondenti variazioni dialettali regionali si riferivano all'ampio contesto dei disturbi dell'umore e non all'ipocondria - patofobia.

Ad es., a Savona si poteva riscontrare e pecuntre /e pe'kuŋtre/ - pluralia tantum - nel senso di fisime, idee fisse.

Ma, come ho avuto modo di esporre, l'accezione - a livello dialettale - di alterazione dell'umore risulta diffusissima, ben oltre i confini della Liguria, e i lessici dialettali attendibili (delle varie regioni) la riportano.

Se n'è occupata anche la Treccani:

https://www.vesuviolive.it/ultime-notiz ... o-daniele/

Non intendo risultare polemico, ma, ovviamente, non posso condividere l'opinione che la lingua italiana non avrebbe le potenzialità per poter esprimere adeguatamente determinati stati d'animo.

Ma, ormai da tempo, si vive nella società dello spettacolo e pare che anche la Treccani s'adegui.

Ovviamente, i termini dialettali locali citati, riferendosi all'amplissimo spettro delle alterazioni dell'umore, venivano usati anche per designare i disturbi depressivi.

Chi accolga un minimo di prospettiva storica non potrebbe, ad es., non rendersi conto che l'italianismo deppresciun /ˌdeppre'ʃuŋ/ risulta estremamente recente e non ha nulla a che fare col dialetto in senso storico.

Anche in un italianismo appare evidente la differenza delle durate consonantiche - entrambe opposte -: /depres'sjone/ contro /ˌdeppre'ʃun/.

Infatti, /-p-/ (ma anche /-pr-/) non sarebbe più stato possibile nelle voci di derivazione diretta - /-p-/ era da tempo giunto a /-v-/ - e, quindi, l'inventario fonematico dialettale - al momento del prestito - poteva disporre soltanto di /-pp-/.

Il fonema geminato /ss/ non si può manifestare, in genovese, se non nella sillaba immediatamente successiva a quella colpita da accento. Ma qui non è così.

Mentre /s/ seguito da /j/ dà /ʃ/. Ecco perché /ˌdeppre'ʃuŋ/.

Nella pronuncia popolare /ˌdeppre'ʃũ/ - l'avvertibile nasalizzazione di /u/ non richiedeva neppure la pronuncia di /ŋ/.

P.S. Ma, allora, come si diceva "ipocondria" - nel senso di patofobia (timore della malattia) - a Genova?

In effetti, non l'avevo scritto.

Semplicemente (male, cioè malattia) d'u padrun. Si trattava d'una considerazione sociale/ di classe (se si può ancora adoperare questo termine) della patologia. E l'ipocondria poteva essere attribuita unicamente alle cosiddette classi agiate. Tutti gli altri potevano avere esclusivamente diritto ad aver paura delle malattie concrete e, fondamentalmente, della vita - allora, forse, si sarebbe dovuto parlare di biofobia. Questo, almeno, secondo la mentalità e la cultura dell'epoca.

Nei dialetti liguri, come si può evincere dai pochi esempi riferiti, la conservazione degli etimi medici greci - per quanto accentati "alla latina" - risulta eccezionale.

Abitualmente, in dialetto, la patologia specifica veniva designata come (male, cioè malattia) de...

Segnalo soltanto - a motivo della sua arcaicità -, se pure, a volte, si sente ancora, il calco corrispondente al termine (di origine greca) isteria.

La definizione dialettale genovese risulta (male, cioè malattia) de muæ. In cui muæ /'mwɛ:/ non ha il significato usuale di "madre", ma proprio quello arcaico di "matrice", di "utero". Calco, quindi, del termine greco originario ὑστέρα, da cui isteria.

P.P.S. Mi permetto di osservare che, attualmente, i disturbi di tipo isterico sono classificati come disturbi di conversione - da un disagio a livello psichico a una manifestazione sostenuta da sintomatologia somatica.

Per altro - e sono gli stessi psichiatri a confermarlo -, le modalità esibite dalle pazienti isteriche studiate durante l'800 e gl'inizi del 900 non si riscontrano più. Ulteriore conferma che le manifestazioni della sofferenza mentale sono, in un certo modo, determinate dal contesto culturale in cui vive il/la paziente:

https://it.wikipedia.org/wiki/Storia_dell%27isteria

Per quanto riguarda il noto Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, giunto, ormai, alla quinta edizione, si può notare come, da tempo, nell'ambito della patologia del carattere, la definizione di disturbo isterico sia stata sostituita da quella di disturbo istrionico del carattere. Ovviamente, a parte le motivazioni cliniche, che qui non ha senso approfondire, l'etimologia dei due attributi (isterico/istrionico) - acusticamente non molto dissimili - non sembra coincidere. Ma credo che questo non sia certamente stato un problema che i redattori del Manuale citato si siano mai posti, dal momento che, nel linguaggio classico della psichiatria, un comportamento istrionico viene considerato soltanto una modalità - meno coinvolgente a livello fisico - appartenente, tuttavia, all'ambito di un'ampia gamma di manifestazioni determinate da motivazioni di tipo isterico.
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Ferdinand Bardamu
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Intervento di Ferdinand Bardamu »

Mi è venuta in mente un’altra parola che tradisce un chiaro influsso dòtto: líbaro, ossia ‹libero›. Lo sviluppo normale di /-b-/ nei dialetti veneti è /-v-/ oppure, molto spesso, il dileguo: es. guernareGUBERNARE, beère/béar ‹ BIBĔRE, ecc.
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