Della necessità dell’adattamento

Spazio di discussione su prestiti e forestierismi

Moderatore: Cruscanti

Avatara utente
bubu7
Interventi: 1454
Iscritto in data: gio, 01 dic 2005 14:53
Località: Roma
Info contatto:

Intervento di bubu7 »

Infarinato ha scritto: Non mi sono spiegato. Intendevo dire che, perché vi siano sconvolgimenti di una portata paragonabile a quella che ha condotto dal latino [volgare] all’italiano (e alle altre lingue romanze), bisogna che venga a mancare la necessità o, quantomeno, la possibilità di comunicare (da parte della comunità [o delle comunità] che svilupperà [risp. svilupperanno] la «lingua figlia» [risp. le «lingue figlie»]) col resto delle comunità appartenenti all’area in cui si parla[va] la «lingua madre».

Nell’odierno mondo «civilizzato» le prontamente soddisfatte necessità comunicative impediscono alle varie lingue in esso parlate di evolvere «piú di tanto».
Lo sconvolgimento che ha condotto dal latino all’italiano non è mai stato avvertito come tale dai contemporanei. Anche perché il latino volgare parlato e il latino medievale scritto erano sentiti come due varianti diamesiche. Non possiamo quindi sapere come sarà visto in futuro il nostro presente e se qualche altro fattore di differenziazione linguistica andrà ad aggiungersi o a sostituire quelli attualmente identificati.
Certo i paragoni vanno presi cum grano salis, per usare un’espressione che le è cara, e la rivoluzione italiana, che a mio parere può spiegare in parte la diversità del caso italiano da quello francese e spagnolo, è derivata più da una caduta di barriere politiche isolanti, mi riferisco all’unità d’Italia, che dall’elevamento di nuove barriere. Ovviamente questa rivoluzione trascende di gran lunga il marginale caso dei forestierismi ma può forse spiegare in parte la differenza tra la reazione italiana ai forestierismi e quella dei nostri cugini francesi e vicini spagnoli.
La relativa debolezza dell’italiano parlato, dovuta alla sua recente diffusione nella maggior parte della popolazione, unita all’elevamento delle condizioni della massa (alfabetizzazione e condizioni sociali) ha influito sulla maggiore disponibilità, rispetto all’Ottocento, all’accoglienza dei forestierismi.
A questi fattori va aggiunta la maggiore debolezza politica culturale e tecnologica del nostro paese rispetto, ad esempio, alla Francia, che ha contribuito a rendere più debole la nostra reazione all’indiscutibile primato, negli stessi campi, del mondo anglofono americano favorendo l’accoglimento, per il prestigio della loro provenienza, degli anglicismi.
Infarinato ha scritto:
bubu7 ha scritto:
Infarinato ha scritto:Piú probabile, invece, è che l’italiano diventi una lingua di sostrato e, come tale, finisca per estinguersi a vantaggio della lingua di superstrato, quale potrebbe essere (e in minima parte già è) l’inglese…
Il paragone non mi sembra pertinente. :mrgreen: A parte gli scherzi, il paragone mi sembra forzato. Perché si abbiano gli strati che lei nomina ci dev’essere una formazione politica e giuridica che li determina.
E questa potrebbe essere un giorno l’Unione Europea, in cui, senz’alcuna imposizione formale, l’inglese, già affermatasi come lingua franca, potrebbe infine diventare, per ragioni squisitamente «pratiche», l’unica lingua di fatto parlata…
Lasciando da parte gl’italiani, lei ce li vede francesi, spagnoli e tedeschi, per non nominare altre nazioni europee in cui è forte il sentimento nazionale, che decidono di adottare come prima lingua (è quello che è avvenuto per l’italiano nei confronti dei dialetti) l’inglese?
Non mi sembra una situazione che si realizzerà a breve termine.
Ma se questo dovesse accadere, se cioè tutte le nazioni europee dovessero finire per trovarsi in questo stato d’animo, io accoglierei con gioia l’adozione di un'unica lingua, qualunque essa fosse. E non per questo mi sentirei sminuito bensì arricchito, come lo sono attualmente nel parlare, e amare, l’italiano affiancato alla mia (indebolita) lingua madre che è un dialetto meridionale. In quel caso, l'italiano si troverebbe in una situazione simile a quella in cui si trovano oggi i dialetti e certamente finirebbe per indebolirsi e, probabilmente, sparire. Ma davvero questo sarebbe una iattura e non invece un traguardo a cui tendere?
Diverso da quello linguistico è l'aspetto culturale.
Il fatto di aspirare ad essere cittadino del mondo e di sentirmi, sebbene purtroppo ancora solo in parte, cittadino europeo, non offusca la mia coscienza d’italiano e delle mie radici locali.
La lingua è un guado attraverso il fiume del tempo. Essa ci conduce alla dimora dei nostri antenati.
V. M. Illič-Svitič
Avatara utente
bubu7
Interventi: 1454
Iscritto in data: gio, 01 dic 2005 14:53
Località: Roma
Info contatto:

Intervento di bubu7 »

Marco1971 ha scritto:
bubu7 ha scritto:Stia tranquillo che i termini stranieri venivano usati nel passato dalle persone colte, sia nel parlato sia nello scritto, e non come citazioni occasionali ma per designare nuovi oggetti e concetti di origine straniera (guardi l'uso del francese nell'Ottocento).
Ritengo utile citare un passo del «Morbus anglicus» di Arrigo Castellani in cui è acutamente messa in luce la differenza tra l’influenza esercitata dal francese e quella che subiamo oggi...
Ha fatto bene a riportare le considerazioni del Castellani, che condivido, ma esse, come avrà notato, non contraddicono bensì integrano le mie.
La lingua è un guado attraverso il fiume del tempo. Essa ci conduce alla dimora dei nostri antenati.
V. M. Illič-Svitič
Avatara utente
Infarinato
Amministratore
Interventi: 5245
Iscritto in data: gio, 04 nov 2004 10:40
Info contatto:

Intervento di Infarinato »

bubu7 ha scritto:Lo sconvolgimento che ha condotto dal latino all’italiano non è mai stato avvertito come tale dai contemporanei. Anche perché il latino volgare parlato e il latino medievale scritto erano sentiti come due varianti diamesiche.
Certo, ma infatti la mia era (e non poteva che essere) una costatazione a posteriori, ma costatazione pur sempre oggettiva, basata su considerazioni tipologiche, etc.
bubu7 ha scritto:Non possiamo quindi sapere come sarà visto in futuro il nostro presente e se qualche altro fattore di differenziazione linguistica andrà ad aggiungersi o a sostituire quelli attualmente identificati.
Questo è sicuramente vero: le mie considerazioni si basavano ovviamente sulla situazione attuale, e la mia «previsione» non era che una banale «estrapolazione»…
bubu7 ha scritto:Lasciando da parte gl’italiani, lei ce li vede francesi, spagnoli e tedeschi, per non nominare altre nazioni europee in cui è forte il sentimento nazionale, che decidono di adottare come prima lingua (è quello che è avvenuto per l’italiano nei confronti dei dialetti) l’inglese?
Ovviamente non si tratterebbe di un processo «conscio» (o rapido)…
bubu7 ha scritto:Non mi sembra una situazione che si realizzerà a breve termine.
Mai affermato il contrario.
bubu7 ha scritto:Ma se questo dovesse accadere, se cioè tutte le nazioni europee dovessero finire per trovarsi in questo stato d’animo, io accoglierei con gioia l’adozione di un'unica lingua, qualunque essa fosse. E non per questo mi sentirei sminuito bensì arricchito, come lo sono attualmente nel parlare, e amare, l’italiano affiancato alla mia (indebolita) lingua madre che è un dialetto meridionale. In quel caso, l'italiano si troverebbe in una situazione simile a quella in cui si trovano oggi i dialetti e certamente finirebbe per indebolirsi e, probabilmente, sparire. Ma davvero questo sarebbe una iattura e non invece un traguardo a cui tendere?
Come Lei sicuramente riconoscerà, qui si esce dal campo dell’analisi linguistica e si entra in quello delle preferenze personali, della propria (citazione! :mrgreen:) Weltanschauung.

P.S. [FT] Le segnalo che ho risposto (ancorché rapidissimamente) a un suo messaggio privato, che Lei non sembra avere ancora letto (presumibilmente perché, nel momento in cui è stato scritto, il serviente di posta elettronica del sito era fuori servizio).
Avatara utente
bubu7
Interventi: 1454
Iscritto in data: gio, 01 dic 2005 14:53
Località: Roma
Info contatto:

Intervento di bubu7 »

Infarinato ha scritto:
bubu7 ha scritto:Lasciando da parte gl’italiani, lei ce li vede francesi, spagnoli e tedeschi, per non nominare altre nazioni europee in cui è forte il sentimento nazionale, che decidono di adottare come prima lingua (è quello che è avvenuto per l’italiano nei confronti dei dialetti) l’inglese?
Ovviamente non si tratterebbe di un processo «conscio» (o rapido)…
Mi scusi la disattenzione, la mia risposta non teneva conto del suo precedente
«…senz’alcuna imposizione formale…».
Considerando questa sua ulteriore premessa le mie convinzioni, sulla difficoltà dell’adozione di una lingua unica, risultano rafforzate: perché, in questo caso, alle ragioni «pratiche» si contrapporrebbero quelle politiche.
Infarinato ha scritto:Come Lei sicuramente riconoscerà, qui si esce dal campo dell’analisi linguistica e si entra in quello delle preferenze personali, della propria (citazione! :mrgreen:) Weltanschauung.
Me n’ero reso conto, ma non sono riuscito a trattenermi dal de-lirare. :)
La lingua è un guado attraverso il fiume del tempo. Essa ci conduce alla dimora dei nostri antenati.
V. M. Illič-Svitič
Avatara utente
Marco1971
Moderatore
Interventi: 10445
Iscritto in data: gio, 04 nov 2004 12:37

Intervento di Marco1971 »

Un articolo interessante, di cui si può leggere la prima pagina qui. Lo fotocopierò domani e ne trascriverò i passi salienti.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Avatara utente
Freelancer
Interventi: 1897
Iscritto in data: lun, 11 apr 2005 4:37

Intervento di Freelancer »

Marco1971 ha scritto:Un articolo interessante, di cui si può leggere la prima pagina qui. Lo fotocopierò domani e ne trascriverò i passi salienti.
Mi sono procurato l'articolo e secondo me bisognerebbe trascriverne non i passi salienti bensì l'intero contenuto, non dimenticando la conclusione. Se Infarinato è disponibile posso mandargli il PDF così lo mette a disposizione di tutti.
Avatara utente
Marco1971
Moderatore
Interventi: 10445
Iscritto in data: gio, 04 nov 2004 12:37

Intervento di Marco1971 »

Ottimo, Roberto: io non sono riuscito a procurarmelo perché nella mia biblioteca hanno la rivista solo dal 1989 in poi e non ho avuto risposta dall’editore. Speriamo che Infarinato ce lo renda disponibile. :)
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Avatara utente
bubu7
Interventi: 1454
Iscritto in data: gio, 01 dic 2005 14:53
Località: Roma
Info contatto:

Intervento di bubu7 »

Marco1971 ha scritto:Un articolo interessante, di cui si può leggere la prima pagina qui.
Ho letto l'articolo di Gabriele Erasmi, Le parole straniere in italiano: adattamento morfologico, fonetico, e grafico (1983) e il mio parere è che l'autore dice molte cose ragionevoli ma niente di particolarmente nuovo per le nostre discussioni (e le mie convinzioni).
Un'osservazione interessante è quella contenuta nella nota 28, riguardante la maggiore facilità dell'adattamento dei prestiti provenienti da lingue che usano un alfabeto diverso.

Le conclusioni dell'autore sono le seguenti:
Nel riconoscimento della fondamentale sterilità dei tentativi istituzionali di controllo linguistico, fermi restando i limiti imposti dalla necessità di effettiva comunicazione con gli altri, ognuno è libero di seguire, a seconda delle circostanze, i modelli che preferisce secondo il proprio gusto e la propria educazione, perchè [sic] infine la "lingua" altro non è che la nostra "parola".
Ho qualche difficoltà ad abbracciare completamente questa posizione.
Se il controllo linguistico istituzionale è sicuramente sterile, un certo indirizzo istituzionale, soprattutto inteso come promozione di una cultura linguistica nella popolazione, permetterebbe di raggiungere, altrettanto sicuramente, risultati positivi. È ovvio poi che si debba lasciare la massima libertà alle persone di scegliere il proprio modo di comunicare, ma mi piacerebbe che le scelte fossero dettate appunto da gusto e educazione e non da ignoranza.
Nel complesso quindi la conclusione mi sembra un po' troppo semplicistica: a mio parere si poteva fare di meglio. :)
La lingua è un guado attraverso il fiume del tempo. Essa ci conduce alla dimora dei nostri antenati.
V. M. Illič-Svitič
Avatara utente
Marco1971
Moderatore
Interventi: 10445
Iscritto in data: gio, 04 nov 2004 12:37

Intervento di Marco1971 »

Sí, è un articolo che definirei proprio sfibrato.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Avatara utente
Mantengomi
Interventi: 7
Iscritto in data: sab, 07 mag 2011 19:22
Località: Roma e Reggio

Re: Della necessità dell’adattamento

Intervento di Mantengomi »

Marco1971 ha scritto:Comincio col ricordare che una parola italiana «di fatto» (sia di tradizione orale ininterrotta sia d’origine dialettale o forestiera) ha una struttura ben definita, il cui marchio caratteristico è l’uscita in vocale. Sono tollerabili (ma, tranne in poesia, non in fin di frase) solo le terminazioni in vocale + l/m/n/r. I vocaboli che non soddisfànno tali criteri non sono, stricto sensu, italiani, e andrebbero scritti in corsivo. Fanno eccezione i nomi propri, le sigle, le onomatopee e alcune citazioni latine, per esempio De Sanctis, ab imis fundamentis, ecc. Adattare una parola, o renderla italiana che dir si voglia, consiste quindi (quand’è possibile) nel subordinarla alle leggi della lingua. (Non entro qui nel discorso del «terzo sistema fonologico» di devotiana memoria, con il quale non posso concordare; né concordò il Migliorini.)

Ricito ancora i princípi del purismo strutturale ai quali s’attennero i nostri maggiori linguisti e filologi, Bruno Migliorini e Arrigo Castellani:

1. S’accettano solo forestierismi che vengono a colmare una reale lacuna semantica.
2. I forestierismi compatibili con le strutture fonetiche s’accettano tali e quali (tango).
3. Quelli che non si possono accettare senza cambiamenti, o s’adattano (filme), o si sostituiscono con voci già esistenti ([indice di] ascolto e non audience), o si sostituiscono con neoformazioni (autista e non chauffeur).

Consideriamo ora le seguenti parole, tutte di fattura ineccepibile, tanto che non se ne avverte l’origine straniera, e d’uso comunissimo: albicocca, bianco, cifra, dogana, etichetta, furgone, gabinetto, ingegnere, locomotiva, maresciallo, noia, orgoglio, pompelmo, quarzo, ricco, scherzare, tabacco, uragano, viaggio, zucchero. Immaginiamo per qualche minuto che queste familiarissime parole non fossero state adattate, come succede oggi; che lingua parleremmo oggi? (E che lingua parleremo domani, se si va avanti in questa maniera?) Diremmo, rispettivamente (le trascrizioni mancano di alcuni diacritici): al-barquq, blank, sifr, duwan, etiqueta/étiquette, fourgon, cabinet, engignier, locomotive (/loko'mOtiv/), marhskalk, enoja, orgolh, pompelmoes/pampalimasu, Quarz, rihhi, skerzon, tabbaq, huracán, viatge, sukkar. E se oggi adoperassimo tali voci nella loro «sacrosanta veste alloglotta» (Castellani) parleremmo, appunto, una lingua creolizzata, senza identità propria, e che non sarebbe piú una lingua di cultura.

Bisogna capire che queste parole straniere assimilate sono un arricchimento per la lingua. Tradurre tutto sarebbe chiudersi al mondo, e questo gli spagnoli l’hanno capito da gran tempo. Diceva Leopardi che «la nostra lingua non fa piú progressi»: come non sentire oggi tutta la portata di quest’affermazione? Il progresso dell’italiano consisterebbe appunto nell’appropriarsi le invenzioni moderne «senza venir meno alle necessità strutturali della lingua nazionale» (Migliorini). Sempre Leopardi scriveva:
...perocché noi veggiamo sotto gli occhi , che sebben forestiere di origine, elle [= voci e maniere] stanno in quelle scritture come native del nostro suolo, ed hanno un abito tale che non si distinguono dalle italiane native di fatto, e vi riescono come proprie della lingua, e cosí sono italiane di potenza, come l’altre lo sono di fatto, onde il renderle italiane di fatto non dipende che da chi voglia o sappia usarle; e per esperienza veggiamo che quegli scrittori, trasportandole nell’italiano, le hanno benissimo potute rendere, e le hanno effettivamente rese, italiane di fatto, come lo erano in potenza, e come lo sono l’altre italiane natie. Or questo medesimo è quello che nello studio delle lingue altrui dee fare in noi, in luogo dell’esperienza, l’ingegno e il giudizio nostro; cioè mostrarci, non per prova, come fanno gli scrittori nostri classici, ma per discernimento e forza di penetrazione, e finezza e giustezza di sentimento, benché sprovveduto di prova pratica, che tali e tali vocaboli e modi sono italianissimi per potenza, onde a noi sta il renderli tali di fatto, sieno o non sieno ancora stati resi tali dall’uso, o da parlatore, o da scrittore veruno...
Che la gente percepisca le cose in modo errato, ripugnando all’adattamento vuoi per scarsa sensibilità vuoi perché tutto quello a cui non siamo abituati suona strano la prima volta, non è un motivo valido, anzi, è una bischerata bell’e buona e il modo migliore per lavarsi le mani dei problemi. La gente reagisce cosí perché, novanta volte su cento, non sa. E allora va resa edòtta sulle questioni di lingua. (Ho recentemente scritto a un’Accademica della Crusca suggerendo, tra l’altro, la possibilità di concepire un programma televisivo brevissimo ma quotidiano in cui si spiegassero le cose ai cittadini.)

Né ritengo valido l’argomento di chi considera vetusto o addirittura obsoleto un fenomeno naturalissimo e antichissimo come l’adattamento: non è di moda, certo, ma le mode vanno e vengono, e si possono cambiare.

Concludo s’una nota personale. Quest’anno (come negli anni scorsi), al mare, m’è capitato di parlare del problema degli anglicismi. Non ci crederete, ma esponendo le cose con calma, con chiarezza, con simpatia, la gente è del tutto disposta ad accogliere termini italiani («È vero», «Hai ragione» mi sento ripetere da anni). Il terreno va solo annaffiato: la terra è buona e fertile; basta solo agire con i giusti mezzi nella direzione giusta.
Sarebbe accetto diffondere questo messaggio, citandola?

Postilla: con l'aggiunta delle successive sue insistenze, magari.
Avatara utente
Marco1971
Moderatore
Interventi: 10445
Iscritto in data: gio, 04 nov 2004 12:37

Intervento di Marco1971 »

Certo, non ci sono diritti d'autore. :D
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Intervieni

Chi c’è in linea

Utenti presenti in questa sezione: Google [Bot], Valalli e 14 ospiti