Un'«invasione barbarica»

Spazio di discussione su prestiti e forestierismi

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Ladim
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Un'«invasione barbarica»

Intervento di Ladim »

Con una certa ciclicità mi ritrovo ad affrontare la solita [per noi] questione dei barbarismi linguistici (tra l’altro, ho appena finito di leggere il bell’articoletto di Alfonso Leone L’italiano imbastardito), e, puntualmente, dopo essermi confrontato, al di fuori della mia turris eburnae, con alcuni ‘parlanti’ sul solito [per gli altri] uso improprio della lingua d’Albione, eccomi a compilare questa noterella, immagino di scarso interesse, ma che – confesso – in me avrebbe una funzione, per dir così, apotropaica (oltre all’idiosincrasia condivisa, immagino, da tutti noi sull’uso degli anglismi, è in me una 'resistenza' nei confronti dell’inglese senz’altro).

Insomma, muoverei [quasi retoricamente] da un’accesa discussione, intrapresa con una persona a me cara e che, con esuberanza, mi parlava ormai da un buon quarto d’ora, intessendo il proprio discorso con assidue ‘macule lessicali’, dei brutali anglismi che irrimediabilmente distoglievano la mia attenzione dai contenuti extralinguistici, infine rendendomi penoso l’ascolto di quella conversazione che mi suonava come un tradimento, un affronto personale (tu quoque!).
Così, quando ho preso la parola per esprimere la mia opinione, mi sono sentito moralmente costretto a chiedere, prima di tutto, il senso di quell’eloquio, in cui mi pareva di cogliere una qualche provocazione. Lo sguardo fattosi incredulo della persona a me cara, allora, pareva voler dire: «ma è possibile che tu non pensi ad altro?!» E in quel sottaciuto «non altro» vedevo il severo rimprovero per un’«inutile» e forse sciocco «accanimento» – vedevo cioè quello stesso atteggiamento di sufficienza che, a ben guardare, costituisce il grosso dell’irresponsabilità collettiva (culturale e no) cui dobbiamo l’impoverimento che oggi minaccia la nostra lingua.

Per farla breve: dopo aver mostrato con dovizia di concetti e di parole l’utilità di una migliore conoscenza della ‘propria’ lingua (un’utilità indiscutibile, che si fonda sulla capacità di poter esprimere spontaneamente e senza intoppi i propri pensieri, sentimenti e sensazioni, accedendo alla dimensione creativa del linguaggio, attivando quei significati «occasionali» che, pur allontanandosi dall’uso registrato e lemmatizzato, assumono la loro legittimità proprio in funzione di un impiego, diciamo così, ‘autorevole’ del linguaggio etc.), ed essermi quindi garantita l’attenzione del mio interlocutore, ho domandato alla ‘cara persona’ di proporre alcuni traducenti, anche non acclimati, per risciacquare il proprio discorso. Ebbene, ecco l’esito: la ‘cara persona’ dimostrava a me e a sé stessa di padroneggiare con disinvoltura i significati veicolati dai forestierismi, restando sempre in dubbio sulla liceità delle parole italiane. E cioè: quando si trattava di precisare l’ambito semantico e l’appropriatezza dei termini inglesi, riscontravo una lusinghevole sicurezza, direi imperturbata; quando, diversamente, erano in questione i termini italiani, i dubbi si ammonticchiavano fino ad apparire insostenibili. Il risultato: il locutore (la persona a me cara), diffidava dell’italiano, lo guardava con sospetto e timore, gli fuggiva per trovare riparo nell’inglese.

Quindi, questo sarebbe il rischio. Così come le popolazioni germaniche si sono vie più inserite nel tessuto sociale di un Impero romano ormai prossimo al tracollo, fino a favorire quel rimescolamento culturale ed etnico che ha portato al nostro Medioevo (ma con esiti linguistici davvero pregevoli; ovviamente la presunzione è d’obbligo, come la diffidenza per il nostro futuro linguistico «imbastardito»), gli anglismi oggi spersonalizzano, prima ancora che la lingua, la libertà creativa dei parlanti. Ci si affida sempre più a una lingua sconosciuta per esprimere sentimenti, idee e concetti conosciuti, con il risultato di attribuire un significato anche occasionale non a una parola di cui si può ancora intuire la struttura semantica, ma a un suono incomprensibile e alieno (parola, quest’ultima, a me cara, al riguardo, almeno come la persona qui citata), entro una comunicazione incerta e schematica, aridamente ripetitiva.

Sarebbe in discussione, allora, non l’uso degli anglismi, quanto la perdita di un’italiana affabilità linguistica – una perdita, naturalmente, da scongiurare, per un uso della lingua senza i segni metalinguistici «ma», «non saprei», «non è proprio così», e di un detto come «sì, insomma, sto parlando della ‘performans’».
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Federico
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Intervento di Federico »

Grazie per aver condiviso questa sua esperienza, proponendo un'efficace interpretazione unificata di ciò che siamo soliti chiamare sudditanza culturale e della riduzione della produttività dell'italiano, questioni che trascendono di gran lunga il problema (contingente?) costituito da qualche migliaio di prestiti (la cui rilevanza nell'economia generale della lingua molti tendono a minimizzare).
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bubu7
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Intervento di bubu7 »

Caro Ladim per me è sempre un piacere incrociare le nostre idee. :)
Per risponderle non mi farò distogliere dai contenuti extralinguistici della sua prosa, così caratteristica e, a mio parere, così poco moderna (non che io ne sia un depositario, tutt'altro).
Ladim ha scritto: E in quel sottaciuto «non altro» vedevo il severo rimprovero per un’«inutile» e forse sciocco «accanimento»
A mio parere questo suo atteggiamento è sbagliato perché deprime la sostanza della comunicazione privilegiandone la forma.
Non è così che si «educano» le persone ad adottare un linguaggio, a nostro giudizio, più adeguato.
Lì per lì possiamo contrapporre l'esempio del nostro modo di parlare e, per risultati più duraturi, regalare alla persona una bella Storia della lingua italiana o un bel classico della nostra letteratura (anche contemporanea).
Invece il suo atteggiamento in quell'occasione mi ricorda, in tono minore, quello di un altro forumista che replicò, a una richiesta d'informazioni formulata a suo parere non in «perfetto» italiano, che le informazioni le avrebbe date solo se la domanda fosse stata riformulata in «italiano».
Ladim ha scritto:Ebbene, ecco l’esito: la ‘cara persona’ dimostrava a me e a sé stessa di padroneggiare con disinvoltura i significati veicolati dai forestierismi, restando sempre in dubbio sulla liceità delle parole italiane. E cioè: quando si trattava di precisare l’ambito semantico e l’appropriatezza dei termini inglesi, riscontravo una lusinghevole sicurezza, direi imperturbata; quando, diversamente, erano in questione i termini italiani, i dubbi si ammonticchiavano fino ad apparire insostenibili. Il risultato: il locutore (la persona a me cara), diffidava dell’italiano, lo guardava con sospetto e timore, gli fuggiva per trovare riparo nell’inglese.
In questo atteggiamento non ci vedo, in molti casi, niente di strano. Se un concetto o un oggetto è entrato in italiano con un termine straniero, è ovvio che l'ambito semantico del termine straniero sia preciso. Ed è anche naturale che ci siano perplessità nell'indicare una parola italiana, magari traduzione più o meno precisa del termine straniero, come corrispondente italiano; non fosse altro che per motivi di frequenza del termine straniero, diciamo d'orecchio.
Già la resa in lingua di un neologismo straniero è un problema, figuriamoci se il termine ha acquisito una relativa diffusione.
Tutto questo per ribadire il fatto che le difficoltà di traduzione e la diffidenza sono comprensibili, come sanno anche (direi soprattutto) i migliori traduttori. Questo non significa che non ci si deve sforzare a «tradurre», ma solo che non ci dobbiamo stupire se quest'operazione comporta uno sforzo.
Ladim ha scritto:Ci si affida sempre più a una lingua sconosciuta per esprimere sentimenti, idee e concetti conosciuti, con il risultato di attribuire un significato anche occasionale non a una parola di cui si può ancora intuire la struttura semantica, ma a un suono incomprensibile e alieno (parola, quest’ultima, a me cara, al riguardo, almeno come la persona qui citata), entro una comunicazione incerta e schematica, aridamente ripetitiva.
Le sue parole potrebbero essere state proferite da un «purista» franco altomedievale, contro lo snaturamento della lingua germanica dovuta alle scelte di politica linguistica carolina.
Ladim ha scritto:...gli anglismi oggi spersonalizzano, prima ancora che la lingua, la libertà creativa dei parlanti.
Non sono gli anglicismi che spersonalizzano... sono i parlanti spersonalizzati che abusano degli anglicismi.

È sempre lo stesso discorso: si confondono i sintomi di un presunto male con le origini e si focalizza l'attenzione s'un rimedio secondario: togliere le pustole invece di dare l'antibiotico, tradurre il barbarismo invece di porre l'attenzione sulla pochezza culturale di vasti settori della nostra società.
La lingua è un guado attraverso il fiume del tempo. Essa ci conduce alla dimora dei nostri antenati.
V. M. Illič-Svitič
Ladim
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Intervento di Ladim »

Gentile Bubu7, voglio ringraziarla per l’attenzione che sempre mi rivolge (così, però, lei rischia di divenire il «lettore implicito» dei miei interventi… [perdoni la battuta]).

Ma ecco almeno due precisazioni, come di sicuro (io spero) Lei si attendeva.

Non era in questione la «forma» o il «contenuto» (anche se qui, nel mio piccolo, potrei intrattenerla lungamente sul senso di questo legame), ma il rapporto tra il parlante e la sua lingua. Con ciò, non penso alla reale appropriatezza degli anglismi (tra l’altro, sappiamo che l’uso di una parola spesso prescinde dall’originario e originale uso etc.); diversamente, a ‘come’ il parlante recepisce le parole che pronuncia: l’uso di una parola inglese (di là dal suo impiego corretto) è sentito, così mi sembra, sempre più adatto, preferibile (e il contesto di sopra non era quello di una conversazione tecnica o scientifica).

Insomma, guardavo soprattutto all’«occasionale» creatività del linguaggio, e su quella puntavo i miei dubbi (e lo ‘sforzo a tradurre’ non voleva equivalere a un provvedimento punitivo o emendatorio – spesso si sente la desolante lamentela di chi soffre per un discorso, il proprio, insufficiente; manca, mi pare, quel rapporto ‘intimo’ con la lingua che, tutto sommato, non dovrebbe essere la prerogativa dei soli «poeti laureati»: quando il parlante inventa, di solito sbaglia, e non crea: così vedo un’insicurezza che ricusa sé stessa attraverso un linguaggio predefinito e ripetitivo; poi, non vorrei esattamente «educare», semmai rendere interessante ciò cui io attribuisco un valore – ma faccio punto, subito).

Se poi lei ritiene che, confusamente, io voglia far passare sotto gamba l’aspetto culturale, allora temo che mi abbia frainteso – o sono io che ho frainteso lei (e tuttavia, per quanto mi dice poco più su, l’illustre pipinide pensava a una lingua non propriamente d’uso – al riguardo, riconosco di ricordare con piacere ‘due’ parole non esattamente divulgate di Castellani, per cui l’italiano letterario, in confronto a quello di ‘oggi’, si sarebbe dovuto chiamare «classico» senz’altro).

Vorrei infine poter esprimere la mia desolazione per quel che di «extralinguistico» [sic] traspare dal mio dettato: spero non fosse un’accusa di passatismo, ché davvero sarei tutto fuorché un «purista» ‘alla’ Puoti (e lei vede molto bene che il mio 'stile' è ‘carduccianamente’ barbaro).
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bubu7
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Intervento di bubu7 »

Ladim ha scritto: Gentile Bubu7, voglio ringraziarla per l’attenzione che sempre mi rivolge ...
Prego, caro Ladim. Parlare con lei è sempre un grande piacere.

Ladim ha scritto: Non era in questione la «forma» o il «contenuto» (anche se qui potrei intrattenerla lungamente sul senso di questo legame), ma il rapporto tra il parlante e la sua lingua. Con ciò, non penso alla reale appropriatezza degli anglismi (tra l’altro, sappiamo che l’uso di una parola spesso prescinde dall’originario e originale uso etc.); diversamente, a ‘come’ il parlante recepisce le parole che pronuncia: l’uso di una parola inglese (di là dal suo impiego corretto) è sentito, così mi sembra, sempre più adatto, preferibile (e il contesto di sopra non era quello di una conversazione tecnica o scientifica).
Certo. Ogni lingua naturale ha potenzialmente la possibilità di esprimere tutti i contenuti delle nostre esperienze. Anche quello che dice sulla propensione all'uso dell'anglicismo è vero. Ma da questa doppia costatazione non si può, a mio parere, arrivare alla conclusione (non che lei lo voglia far intendere, per carità!) che basti invitare la persona ad usare il traducente. La persona ci deve «arrivare» a questo risultato, non come esito di una distillazione alchemica ma come naturale prodotto della sua (migliorata) cultura.

Ladim ha scritto: Se poi lei ritiene che, confusamente, io voglia far passare sotto gamba l’aspetto culturale, allora temo che mi abbia frainteso – o sono io che ho frainteso lei ...
Nessuna delle due cose. Ho volutamente forzato l'interpretazione delle sue parole per presentare i primi passi di un cambiamento che ha rivoluzionato la lingua francese (indipendentemente da quale fosse la volontà della Scuola palatina).
Ladim ha scritto: ...l’italiano letterario, in confronto a quello di ‘oggi’, si sarebbe dovuto chiamare «classico» senz’altro.
Quello della classicità di una variante linguistica è un tema affascinante.
Io osservo solo che oggi la lingua italiana è viva e respira benissimo, cosa che non si poteva dire, a mio parere per l'italiano letterario dei nostri classici più antichi e anche di quelli più vicini a noi come un Manzoni. I primi non erano espressione né d'un'Italia né degl'italiani, il secondo riuscì a vedere l'Italia ma non gl'italiani (sto parlando per questi ultimi solo in senso linguistico, naturalmente).
Certo, la lingua di oggi è inquinata, piena di polveri sottili, ma quale lingua vera, anche di successo, non lo è o non lo è stata?
Torno ancora una volta alla lingua dei nostri antenati. Se il latino fosse stato solo quello che chiamiamo classico, frutto anche ideologico di una politica linguistica e sociale, quanto povera sarebbe stata quella lingua! E quanto sarebbero stati impossibili gl'intensi scambi colle altre varietà e colle altre lingue di cultura come il greco!

Proponiamo di andare avanti colle targhe alterne invece deve cambiare il nostro atteggiamento generale nei confronti dell'ambiente (culturale).

Ladim ha scritto: Vorrei infine poter esprimere la mia desolazione per quel che di «extralinguistico» [sic] traspare dal mio dettato: spero non fosse un’accusa di passatismo, ché davvero sarei tutto fuorché un «purista» ‘alla’ Puoti (e lei vede molto bene che il mio stile è ‘carduccianamente’ barbaro).
Nessun'accusa di passatismo ma neanche nessun'accusa tout court, la mia era solo un'osservazione. Il suo stile mi piace molto e, soprattutto, mi piace il fatto che sia così personale. :)
La lingua è un guado attraverso il fiume del tempo. Essa ci conduce alla dimora dei nostri antenati.
V. M. Illič-Svitič
fabbe
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Iscritto in data: mar, 26 apr 2005 20:57

Intervento di fabbe »

bubu7 ha scritto:Proponiamo di andare avanti colle targhe alterne invece deve cambiare il nostro atteggiamento generale nei confronti dell'ambiente (culturale).
Giusto. Le due cose comunque non si escludono a vicenda.
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