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bubu7
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Intervento di bubu7 »

Come ricordava, caro Infarinato, abbiamo affrontato più volte quest'argomento. Mi scuso quindi se la mia replica potrà apparire in parte ripetitiva. :)
Infarinato ha scritto: Sono sempre esistiti scrittori/scriventi toscani, in cui la distanza tra la lingua scritta (non necessariamente «letteraria», ma sicuramente «italiana») e quella parlata («toscana») era (e, seppur marginalmente, tuttora è) molto minore, se non (a seconda del registro) addirittura inesistente.
Ho qualche dubbio sul "sicuramente «italiana»". Sappiamo tutti che una varietà del toscano ha avuto nel passato un rapporto privilegiato coll'italiano ma definire italiana la lingua di scrittori/scriventi toscani che si avvicinano nello scritto alla lingua parlata toscana mi sembra improprio. Si tratterà di una varietà regionale come, ad esempio, quella romana.
A mio parere, inoltre, oggi mi sembra minore la distanza tra la lingua parlata in altre zone d'Italia e l'italiano standard rispetto alla distanza tra quest'ultimo e la lingua parlata in Toscana.
Infarinato ha scritto: [E]sistono anche altri criteri [quantificabili] quale la coerenza interna del sistema (la «classicità» d’una lingua, si sarebbe detto un tempo), e da sempre le lingue evolvono [anche] a séguito d’una serie di [spinte e] controspinte, che «contengono» [piú spesso naturalmente, ma talora anche (per dirla col Migliorini) «glottotecnicamente»] le deviazioni piú evidenti dalla «norma».
Questo è vero ma consideriamo anche due cose.
La norma può cambiare nel tempo; e le norme dell'italiano, nei vari ambiti, sono cambiate molte volte (spesso non in concomitanza o sotto l'influenza di cambiamenti nel dialetto toscano).
Non solo.
Esistono delle regole che guidano i cambiamenti (legate a pressioni endogene ed esogene).
L'italiano, per il suo relativo isolamento dalla lingua parlata, ha subito un fenomeno di deriva che l'ha allontanato dal percorso evolutivo su cui si sono incamminate altre lingue romanze che non hanno sofferto di questo isolamento. Diciamo quindi che solo ora l'italiano sta rimettendosi in rotta, avvicinandosi tipologicamente alle altre lingue della SAE. Per molto tempo la nostra lingua ha beneficiato meno di altre lingue europee delle spinte e controspinte nascenti dalla lingua parlata: solo oggi la situazione si sta sanando.
La lingua è un guado attraverso il fiume del tempo. Essa ci conduce alla dimora dei nostri antenati.
V. M. Illič-Svitič
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Infarinato
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Intervento di Infarinato »

bubu7 ha scritto:…ma definire italiana la lingua di scrittori/scriventi toscani che si avvicinano nello scritto alla lingua parlata toscana mi sembra improprio.
No, non mi riferivo in ispecial modo a scriventi che ricercano la mimesi con l’oralità. Semplicemente, mi riferivo a un parlato toscano di registro medio-alto, cioè a una varietà di toscano diafasicamente e diastraticamente medio-alta (e diacoricamente non troppo marcata).
bubu7 ha scritto:A mio parere, inoltre, oggi mi sembra minore la distanza tra la lingua parlata in altre zone d'Italia e l'italiano standard rispetto alla distanza tra quest'ultimo e la lingua parlata in Toscana.
Mi piacerebbe proprio sapere a quali varietà si riferisce, ché a me non ne vengono in mente punte che si discostino meno della toscana dall’attuale norma [scritta] sul piano [fono]morfologico e sintattico (ovviamente, trascuro tutte le eventuali particolarità fonetiche [non fonologiche] e mi riferisco sempre a varietà diastraticamente medio-alte): di differenze morfologiche, trasportate dai soggiacenti dialetti [toscani] (e quindi non propriamente pertinenti), mi viene in mente solo l’obbligatorietà del [clitico] soggetto in fiorentino (e solo in fiorentino) per la 2ª e la 5ª persona (in italiano c’è solo per la 2ª col congiuntivo presente e passato) e l’apocope sillabica (anche qui non pantoscana) degl’infiniti.

Il lessico, poi, non è meno distante di quello di altre varietà; anzi, direi che è (per ovvie ragioni) mediamente piú vicino…

Il fatto è che in Toscana (e, piú generalmente, nel resto dell’Italia [linguisticamente] centrale) si ha proprio quella lieve naturale (e quindi non solo innocua, ma anzi proficua) diglossia di cui si diceva sopra: i dialetti toscani sono per definizione (cioè, per ovvie ragioni storiche) i dialetti italiani piú vicini all’italiano normale (o standard), per cui il parlante toscano [che abbia un minimo d’istruzione] scivola facilmente, a seconda del registro richiesto dalla particolare situazione comunicativa, dall’italiano regionale al dialetto locale, e viceversa: in una parola (anzi, due), i dialetti toscani sono varietà diafasiche d’italiano regionale toscano. Il che può dare la falsa impressione che la lingua [italiana] parlata in altre regioni d’Italia, dove [la diglossia (quando c’è) è, sí, molto marcata e] un passaggio al dialetto sarebbe sicuramente molto piú evidente (e, a seconda dei casi, potrebbe gravemente compromettere la comunicazione), sia piú vicina all’italiano normale.
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bubu7
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Intervento di bubu7 »

Infarinato ha scritto: Mi piacerebbe proprio sapere a quali varietà si riferisce...
Stiamo mischiando un po' (almeno io) la lingua scritta e quella parlata, e questo mi rende difficile definire bene alcune questioni.
In quanto alla varietà, mi riferivo a quella romana (parlato medio-alto) e alla mia esperienza personale di permanenza decennale a Pisa e ventennale a Roma.
Mi risulta difficile individuare l'origine romana di un parlante medio-alto (soprattutto se tende all'alto) mentre è immediato il riconoscimento di un parlante toscano. Nel primo caso, invece, di solito riesco a individuare solo un'origine centrale (che però esclude la Toscana).
Per la lingua scritta, uno scrivente di cultura medio-alta che scrive in un registro alto, secondo me è difficilmente localizzabile come provenienza.
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V. M. Illič-Svitič
Ladim
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Intervento di Ladim »

In principio era il toscano... ed era una varietà di lingua in gran parte sovrapponibile a quella scritta (fatte salve le implicazioni diamesiche). Ma la sorte della nostra lingua è legata a filo doppio alla storia della nostra Letteratura (di là dalle evoluzioni endogene e di sussistenza, di autoconsumo espressivo etc.). Il fiorentino, senza gli autori (e, in certo modo, autori non toscani in particolare) che lo hanno reso celebre, molto probabilmente avrebbe conosciuto la medesima sorte – pur gloriosa – degli altri dialetti letterari (un dialetto, tutto sommato, comincia a diventare lingua quando il suo uso si estende oltre i confini originari). Dobbiamo rendere omaggio, quindi (quando è possibile), ai cari autori del nostro Cinquecento, Seicento, Settecento e, ovviamente, Ottocento, se il fiorentino è finalmente diventato il mezzo linguistico con cui articoliamo e strutturiamo i nostri pensieri (qui una problematica riconoscenza va anche al più 'recente' «italiano trasmesso» – ricordo Sanguineti quando batteva i pugni affermando che, vivaddio, oggi l'italiano è parlato dagl'italiani, e che il purismo, in una sua qualsiasi forma, è pur 'robetta' da poeti; ma era una provocazione, forse anche ironica: ché ognuno difende ciò cui si affeziona, nel bene e nel male, e anche l'amato e stimato Sanguneti avrebbe maturato una propria responsabilità, da poeta e da lessicografo, da amante della lingua...).

Quindi, la «colpa» è del genio di quelle tre persone coronate d'alloro prima, e di tutte quelle che, dopo, hanno nobilmente edificato il bel monumento della nostra lingua.

Oggi, diversamente, la colpa – perché si tratta pur di «colpa» (in accezione deteriore) – è dei nuovi utenti: i sessanta milioni circa che parlano superficialmente la loro lingua, perdendosi il più di ogni atto comunicativo (e forma e contenuto non sono mai stati così fusi insieme)... Ma vi è pure chi sostiene che i disordinati graffiti (notare bene: scopiazzature di uno stile di vita americano), gli stessi che sfregiano i nostri monumenti (espressione di un carattere individuale, e, per quel che ci riguarda, nazionale senz'altro [anche il gotico, da noi, è stato romanizzato]), siano in realtà un 'buon segno': indicherebbero il modo in cui i giovani di oggi vivono 'spontaneamente' la loro città: qualcuno è poi disposto a parlarne – immagino con ragione – come se si trattasse di Arte, e forse è proprio arte: un mondo culturale complesso che sicuramente merita attenzione...

Fortuna che non siamo eterni.
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bubu7
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Intervento di bubu7 »

La saluto, caro Ladim. :)
Ladim ha scritto: (qui una problematica riconoscenza va anche al più 'recente' «italiano trasmesso» – ricordo Sanguineti quando batteva i pugni affermando che, vivaddio, oggi l'italiano è parlato dagl'italiani, e che il purismo, in una sua qualsiasi forma, è pur 'robetta' da poeti; ma era una provocazione, forse anche ironica: ché ognuno difende ciò cui si affeziona, nel bene e nel male, e anche l'amato e stimato Sanguneti avrebbe maturato una propria responsabilità, da poeta e da lessicografo, da amante della lingua...).
Non vedo dove sarebbe la provocazione.
Ci sta dicendo che Sanguineti è, in realtà, un purista? Oppure che lo debba essere necessariamente un amatore della lingua?
Ladim ha scritto: Oggi, diversamente, la colpa – perché si tratta pur di «colpa» (in accezione deteriore) – è dei nuovi utenti: i sessanta milioni circa che parlano superficialmente la loro lingua, perdendosi il più di ogni atto comunicativo (e forma e contenuto non sono mai stati così fusi insieme)...
Che visione pessimistica! :?

Io direi che tutte le lingue vengono parlate superficialmente, quasi per definizione. Le parlano in questo modo la quasi totalità delle persone.
E con questa superficialità la lingua riesce a realizzare il più importante dei suoi compiti: permettere una comunicazione efficace a tutt'i livelli.

Poi vi è un piccolo drappello di letterati, studiosi e amatori della lingua...
Ultima modifica di bubu7 in data gio, 12 lug 2007 13:35, modificato 1 volta in totale.
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Intervento di Ladim »

Citavo, moderatamente celiando, «Sanguineti amat»... e poi pensavo che un barbarismo, nel suo caso (suo di Sanguineti), sarebbe ricercato e voluto, quindi significativo, vivaddio.

Sul valore dell'efficacia, dipende, gentile Bubu7, dipende... Le passo anche il 'pessimismo', che, per un pessimista, è in realtà sempre 'oggettivismo'... e io non vorrei (sgradevolmente) passare per «pessimista».
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bubu7
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Intervento di bubu7 »

Ladim ha scritto: Sul valore dell'efficacia, dipende, gentile Bubu7, dipende... Le passo anche il 'pessimismo', che, per un pessimista, è in realtà sempre 'oggettivismo'... e io non vorrei (sgradevolmente) passare per «pessimista».
La preferisco pessimista piuttosto che oggettivista. Mi sembra una posizione meno presuntuosa, più mobile, più elastica, che sa più di relativo, e quindi più consona al nostro essere uomini.
Per quanto mi riguarda, più del pessimismo può la mia sete di conoscenza che a volte mi spinge, per amor di contraddittorio, a sostenere posizioni più lontane dalle sue (o da quelle di altri) delle mie vere convinzioni.
La lingua è un guado attraverso il fiume del tempo. Essa ci conduce alla dimora dei nostri antenati.
V. M. Illič-Svitič
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