Ancora sul dittongamento

Spazio di discussione su questioni di carattere morfologico

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Bue
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Intervento di Bue »

Rohlfs ha scritto:sebbene in Alta Italia si trovi (cfr. in lombardo röśa) per lo più con sviluppo normale
Appunto pensando a questo io avevo rispolverato i miei ricordi di dialetto mantovano. Ma röśa non mi suona proprio (mentre röda si`), chiedero` a qualche madrelingua superstite.
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bubu7
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Intervento di bubu7 »

Ho dimenticato di far presente che, per il Rohlfs, quella s accentata di röśa rappresenta nient'altro che la s sonora. :)
La lingua è un guado attraverso il fiume del tempo. Essa ci conduce alla dimora dei nostri antenati.
V. M. Illič-Svitič
Bue
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Intervento di Bue »

Quello era evidente. Io mi riferivo alla vocale, naturalmente.
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bubu7
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Intervento di bubu7 »

Bue ha scritto:
bubu7 ha scritto:In un periodo della sua storia (secondo il Castellani già nel secolo VIII) nel dialetto toscano si è verificato il passaggio ò > uo
Se non ricordo male il VIII secolo è un limite superiore (quindi: "secondo il Castellani già concluso nel secolo VIII").
Già che ci sono chiarisco questa mia frase che ha provocato l'obiezione del nostro Bue.
Bisogna distinguere i tempi nei quali si è verificata la dittongazione nel latino volgare dai tempi della sua diffusione in territori limitrofi e dalle date di prima attestazione nella lingua volgare.
Le prime attestazioni della dittongazione nel latino volgare risalgono al II secolo e il cambiamento si può considerare concluso nel VI sec. (Durante - Dal latino all'italiano moderno, cap. II Alto medioevo) oppure nel VII sec. (Patota - Lineamenti di grammatica storica della lingua italiana, cap. III, par. 3.2).
Dell'VIII secolo sono invece le prime attestazioni in lingua volgare (Migliorini - Storia della lingua italiana, cap. II par. 11 Mutamenti fonologici).
La lingua è un guado attraverso il fiume del tempo. Essa ci conduce alla dimora dei nostri antenati.
V. M. Illič-Svitič
Ladim
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Intervento di Ladim »

Non avrei pensato a un prestito senz'altro, quanto a un esempio di ciò che Castellani chiamava, più o meno, «moda settentrionale»: un'imitazione della pronuncia settentrionale comunque non sistematica, che nel nostro caso avrebbe potuto contrastare il dittongamento, ma non il grado di apertura o il modo articolatorio della vocale latina. E visto quanto mi è piacevole conversare con voi, faccio un passo avanti e vi propongo d'immaginare un'ampia sincronia linguistica (più o meno penso a un periodo in cui il dittongamento spontaneo era ancora attivo, e quindi auspicabilmente suscettibile – tra V e VIII secolo) nella quale avremmo non due, ma tre forme concorrenti: un latino parlato conservativo ròsa(m) (con sibilante sorda); un primordiale toscano ruosa (ancora con sibilante sorda); un settentrionale röśa.

Il settentrionaleggiare toscano avrebbe modificato la continuazione latina, conservando comunque alcuni aspetti fondamentali dell'inventario fonetico latino-locale (e cioè il grado aperto della «ò»).
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bubu7
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Intervento di bubu7 »

Ladim ha scritto:...propendendo per la linea 'spontanea' e popolare, pensavo ai contatti commerciali tra Toscana e Italia settentrionale, durante i primi secoli del Medioevo.

Mi convinco sempre di più che rosa è parola popolare, ma toscano-settentrionaleggiante...
Ladim ha scritto: ...vi propongo d'immaginare un'ampia sincronia linguistica [...] nella quale avremmo non due, ma tre forme concorrenti: un latino parlato conservativo ròsa(m) (con sibilante sorda); un primordiale toscano ruosa (ancora con sibilante sorda); un settentrionale röśa.

Il settentrionaleggiare toscano avrebbe modificato la continuazione latina, conservando comunque alcuni aspetti fondamentali dell'inventario fonetico latino-locale (e cioè il grado aperto della «ò»).
Premessa: è ovvio, come diceva Bue, che la gente comune avrà sempre chiamato in qualche modo 'la rosa'.

Propongo quindi una visione diacronica per meglio immaginare quello che può essere accaduto.

All'inizio avevamo un latino parlato ròsa.

Poi iniziano i problemi.

La dittongazione toscana del termine ha preceduto l'arrivo della forma settentrionale? Abbiamo cioè una fase temporale con due forme: latina e toscana?

Se rispondiamo sì, allora si può dire col Rohlfs che "anche rosa non è una forma ereditaria diretta" ma la modificazione di una forma autoctona da parte di influenze settentrionali (la penetrazione, come diceva lei, potrebbe essere avvenuta tramite lo "strato" commerciale della popolazione).
Sottoproblema non marginale: è mai avvenuta, in toscano, la dittongazione di rosa? Non abbiamo alcuna evidenza di questo; anzi, il Rohlfs (§ 108) definisce "arbitrarie" (secondo le leggi fonetiche del dialetto toscano [torna l'incorniciamento?] e romanesco le poche attestazioni moderne di ruosa (Cortona, Viterbo e Orvieto). A questo proposito ricordo anche che il Rohlfs, sulla base dell'assenza della dittongazione nei dialetti toscani moderni, è incline a considerare la dittongazione in Toscana un fenomeno importato attraverso il ceto elevato e sempre osteggiato dai ceti bassi. Comunque si voglia valutare quest'ultima considerazione, il Rohlfs propende per la coesistenza diastratica delle forme dittongate con quelle prive di dittongo.

Se rispondiamo no (o meglio, se rispondiamo: non vi è stata alcuna dittongazione toscana del termine latino) si potrà parlare di una continuazione della parola latina volgare con successiva influenza settentrionale per l'addolcimento della s.

Resta la perplessità sul perché, abbracciando la tesi del Rohlfs sulla coesistenza diastratica di forme con e senza dittongo, questi non considera (come giustamente sostiene lei) la parola senza dittongo di semplice derivazione popolare diretta (ovviamente per quanto riguarda la resa della vocale).
La lingua è un guado attraverso il fiume del tempo. Essa ci conduce alla dimora dei nostri antenati.
V. M. Illič-Svitič
Bue
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Intervento di Bue »

Rohlfs ha scritto:sebbene in Alta Italia si trovi (cfr. in lombardo röśa) per lo più con sviluppo normale
Ho chiesto per ora a un mio collega di Bergamo. Anche lui mi conferma che nel dialetto cittadino si dice ròśa, ma asserisce che "in montagna dicono röśa". Il che sembrerebbe confermare l'esistenza della forma con vocale mista, successivamente "italianizzata" soprattutto nei dialetti cittadini (anche se rimane da spiegare perche' proprio la rosa abbia avuto questo trattamento speciale, sia al nord che al centro, rispetto a vocaboli altrettanto popolari come "ruota")
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Non so se possa servire questo brano del saggio Quelques remarques à propos de la diphtongaison toscane di Arrigo Castellani (in Saggi di linguistica e filologia italiana e romanza, Roma, Salerno editrice, 1980, tomo I, p. 143) (mancandomi alcuni diacritici uso l’accento grave):
Pour ò conservé, M. Giannini cite ròta, fòra, ròsa et nòve (en ajoutant, cette fois un « ecc. » qui se réfère, si je ne me trompe pas, aux mots avec un e final). Les deux derniers exemples sont à écarter (pas de diphtongaison dans NOVEM nove en toscan occidental; et rosa, on le sait, est un mot savant). Quant à ròta et à fòra, il s’agit sans doute de formes dues à l’influence des parlers toscans où l’on trouve actuellement ò à la place de uo.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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bubu7
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Intervento di bubu7 »

Marco1971 ha scritto:Non so se possa servire...
...et rosa, on le sait, est un mot savant...
Certo che serve, grazie.
Siamo venuti così a sapere che un profondo conoscitore dei primi secoli della nostra storia letteraria, come il Castellani, considerava rosa, per il toscano, una parola d'origine dotta.
La lingua è un guado attraverso il fiume del tempo. Essa ci conduce alla dimora dei nostri antenati.
V. M. Illič-Svitič
Bue
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Intervento di Bue »

Evidentemente per i montanari di bergamo no!
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Mi permetto di citare anche quest’altro interessante brano (sempre del Castellani), tratto da Ancora sul dittongamento italiano e romanzo (op. cit. sopra, pp. 169-170):
La coesistenza di forme non dittongate e forme dittongate che dovrebbe «Bände sprechen» consiste in questo: a Firenze e nella Toscana occidentale si hanno lei e nove, con vocale intatta, a Siena e Cortona liei e nuove (accanto al meno frequente nove; a Firenze iera, che è normale durante il sec. XIII, cede poi il posto a era, unica forma che compaia fin dagl’inizi nel resto di Toscana; nel senese dugentesco s’assiste alla sostituzione del tipo Biencivenne con Bencivenne (siei 2ª pers. del pres. Di ‘essere’ è solo moderno, e deve il dittongo a siete).

Non si tratta dunque d’una coesistenza all’interno dello stesso dialetto, tranne nel caso dei continuatori di NŎVE(M) a Siena. Che poi nel periodo in cui s’è sviluppato il dittongamento si siano avuti insieme, in una data comunità linguistica, è e , ò e , è cosa ovvia, ma non vedo quanto utile alla tesi dello Schürr.

Bene ed era si posson difficilmente considerare come «letzte, uneroberte Plätze», sia perché succedono a biene (nel tipo antroponimico Biencivenne) e iera, sia perché il loro uso è prevalentemente proclitico. Saranno da considerare, invece, e con ogni verosimiglianza, come forme atone generalizzatesi in posizione tonica (si confrontino il franc. mal e l’ant. Franc. ere), Nove ha probabilmente subito l’influsso del latino, a Siena però in minor misura che a Firenze e nella Toscana occidentale; è significativo che nel volgarizzamento del Costituto di Siena (1309-10) s’adoperi soltanto la forma non dittongata per designare i «Nove» magistrati che reggevano il Comune. Ci si può chiedere: perché nove senza dittongo e diece con dittongo? Perché, direi, ‘nove’ è meno diffuso, meno popolare di ‘dieci’: il latino giuridico, amministrativo (e anche mercantile) poteva far sentire il suo peso quando si trattava di pronunciare il primo numero, non il secondo.

Rimane lei, unico caso realmente difficile (ma alquanto scomodo per lo Schürr, data la presenza di -i). Premesso che qui siamo davvero nel campo delle ipotesi, si potrebbe pensare a una spiegazione del genere: il dittongamento s’è svolto in un periodo in cui la s finale dei monosillabi si stava trasformando in -i attraverso una fase i [col semicerchio sotto, che non trovo] (ragion per cui *SĔS, SĔX hanno dato sei invece di siei, e PŎST è continuato in parte della Toscana da poi invece di puoi); e non è escluso che proprio in tale periodo, decisivo per le sorti delle vocali toniche, le forme noi, voi [col semicerchio sotto] (con una finale ancora nettamente consonantica) abbiano determinato il passaggio a iod della -i di lui, lei, colla conseguenza che la e di lei è divenuta temporaneamente breve e quindi s’è conservata intatta.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Ladim
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Intervento di Ladim »

A questo punto pare evidente l'inadeguatezza della mia piccioletta barca; e tuttavia quell'impersonale del Castellani (il «si sa» nel testo francese) non sembrerebbe così pacifico – Cortelazzo, nel suo DELI, tra l'altro, mi pare che non parli di «voce dotta», e così nemmeno il Sabatini-Coletti; senza contare che sarebbe improprio definire latinismo ciò che proverrebbe da una fase esclusivamente popolare della nostra lingua – i cultismi incominciano a fioccare dal basso Medioevo, e cioè con la diffusione della scrittura volgare (la scripta) tra i letterati (coloro che sapevano il latino: specie notai e, diciamo così, poeti: le esigenze amministrative e sociali della vita comunale, 'si sa', hanno segnato gli albori della nostra lingua – caso a sé l'illustre esperienza federiciana nella Sicilia del XIII secolo): dunque, un latinismo, per attecchire, richiederebbe una certa dimestichezza con la tradizione scritta, nel nostro caso volgare, anche da parte dei 'semplici lettori' [coloro che diffondevano e trasmettevano alle generazioni seguenti le innovazioni non spontanee]: qui è necessaria una prima fase in cui vi sia una qualche concorrenza libresca tra due forme, popolare e culta (allotropia) – e questo non mi pare sia il caso della nostra «rosa» (certo, bisognerebbe fare quello che non posso, e cioè compulsare i testi pratici delle Origini etc.). E allora l'etichetta «mot savant» indicherebbe ancora il modo in cui una parola è divenuta italiana: attraverso la trafila scritta.

Abbiamo ragione di credere che rosa sia quindi divenuta parola italiana durante il periodo del fiorentino scritto (e non prima, pur non lasciando tracce vergate di allotropi popolareggianti – un po' come dire che i parlanti toscani dell'era di mezzo emendavano il loro spontaneo eloquio direttamente attingendo alla grammatica del latino: quanto mi sembra più liscia l'ipotesi di un'influenza sociale tra due lingue contemporanee e d'uso popolare!)?
Bue
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Intervento di Bue »

Comunque io avrei detto motto savante... :mrgreen:
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bubu7
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Intervento di bubu7 »

Ladim ha scritto: Cortelazzo, nel suo DELI, tra l'altro, mi pare che non parli di «voce dotta»...
In effetti il DELI è un po' "abbottonato" sull'etimologia della parola. In questo fine settimana ne ho parlato cogli altri miei dizionari etimologici. Il DEI mi ha fatto un sorrisino: "Oggi il DELI fa la primadonna, e molto spesso a ragione, ma non sempre le sue informazioni sono soddisfacenti. La gente si rassegna e anche tu hai aspettato tutto questo tempo prima di chiederci un parere...".
Ho incassato il colpo e, guardandomi bene dal replicare, ho continuato ad ascoltare le parole del DEI:

"Devi sapere che nell'Italia settentrionale abbiamo röśa (ligure, piemontese, lombardo, emiliano) e riosa, ruośa (nel Veneto), come nel veglioto (ruosa), con continuatori popolari del latino rosa, dove il mantenimento di -s- (invece di -r-) potrebbe indicare una recezione recente dall'ambiente mediterraneo, inseparabile dal greco rhódon. La voce è passata anche al celtico insulare (per esempio irlandese rós) e all'alto tedesco (anglosassone róse, antico alto tedesco rosa).
Nel neolatino il nome del fiore è diffuso in forma originariamente non popolare (francese rose, provenzale, catalano, spagnolo, portoghese rosa); la coltivazione della rosa ricomincia infatti colla civiltà carolingica."
La lingua è un guado attraverso il fiume del tempo. Essa ci conduce alla dimora dei nostri antenati.
V. M. Illič-Svitič
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Incarcato
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Ma, mettendo d'accordo Ladim e Castellani, non è possibile che rosa sia entrato come cultismo nel toscano (fine XIII sec.) perché ereditato dal siciliano, il cui vocalismo tonico prevedeva ŏ>ɔ, soppiantando una forma dittongata popolare non attestata?
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