Indicativo o congiuntivo?

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Fabio48
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Indicativo o congiuntivo?

Intervento di Fabio48 »

Vi faccio un copia/incolla di parte di una risposta di Beppe Severgnini nel suo "Italians" di stamani: ma è proprio così?

Ma quando sbaglio (e accade spesso) lo ammetto. Non posso però ammettere gli errori che non ho fatto. «Penso che Silvia è un'ottima scelta» è corretto, ed equivale a «Sono certo che Silvia è un'ottima scelta». «Sono certo che Silvia sia un'ottima scelta» vale invece «Penso che Silvia sia un'ottima scelta»: Non lo sente, il dubbio? Non capisce che la scelta tra congiuntivo o indicativo cambia il significato del verbo? Non crede a me, Paolo? Creda alla Crusca e a Serianni.

Vi sarei grato se poteste darmi una risposta.

Un cordiale saluto a tutti.
...un pellegrino dagli occhi grifagni
il qual sorride a non so che Gentucca.
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Fabio48
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Intervento di Fabio48 »

Scusatemi ancora, era nato tutto da qui (copia/incolla):

Caro Beppe,
come spieghi, dal punto di vista grammaticale, la tua risposta «Penso che la tua è una lettera interessante» («Cina, non è solo una minaccia», 14 giugno)? Mi hai un po' delusa, eri tu quello che diceva che il congiuntivo era sexy, o sbaglio? Per favore dimmi che è stata solo una svista. Già ci sono i nostri politici che sanno solo iniziare i loro discorsi con «penso che è», «credo che è», e il congiuntivo non sanno cosa sia. Beppe non ti stiamo perdendo, vero?

Cecilia Bossi, cecilia.bossi@virgilio.it



Molte altre lettere sull'argomento - ma ho ragione io, stavolta!

Ancora saluti.
...un pellegrino dagli occhi grifagni
il qual sorride a non so che Gentucca.
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Incarcato
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Intervento di Incarcato »

Ecco qui sotto la risposta della Crusca (grassetto mio).
[…] Infine, alcuni verbi possono avere l’indicativo o il congiuntivo, con sfumature diverse di significato (su cui cfr. SERIANNI 1989: XIV 51).
ammettere, ind. ‘riconoscere’: ammisi davanti al professore che non avevo studiato bene; cong. ‘supporre, permettere’: ammettendo che tu abbia ragione, cosa dovrei fare?;
badare, ind. ‘osservare’: cercò di non badare all’effetto che gli faceva quella strana voce; cong. ‘aver cura’: mi consigliava di badare che non cadessi;
capire, comprendere, ind. ‘rendersi conto’: non vuole capire che io non sono un suo dipendente; cong. ‘trovare naturale’: capisco che tu voglia andartene;
considerare, ind. ‘tener conto’: non considerava che nessuno voleva seguirlo; cong. ‘supporre’: arrivò a considerare che non ci fossero altre possibilità;
pensare, ind. ‘essere convinto’: penso anch’io che tu sei stanco; cong. ‘supporre’: penso che tu sia stanco. […]
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Fabio48
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Intervento di Fabio48 »

Capito.
Grazie mille, Incarcato.

Saluti.
...un pellegrino dagli occhi grifagni
il qual sorride a non so che Gentucca.
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Riporto, per completezza, parte della trattazione della GGIC (vol. II, VIII.3.1.1.1.3., pp. 434-435):
Il verbo centrale di questo gruppo è credere, che regge in prevalenza il congiuntivo ma a cui oggi, nella lingua d’uso non sorvegliata, si accompagna assai di frequente l’indicativo:

(74 a) Molti credono che la Borsa abbia toccato il suo tetto.
(74 b) «Credo che ora è possibile difendermi da tutte le calunnie» («Corriere della Sera», 31/7/1988)

Il congiuntivo può essere sostituito anche dal futuro senza che con ciò si produca un’essenziale modificazione stilistica o di contenuto. Questa sostituzione ha luogo soprattutto se ciò che accade nella frase dipendente è univocamente indicato come posteriore:

(75 a) Mi dispiace, ma credo che non potrai vedere i nuovi arrivati.
(75 b) Credo che andrò spesso da loro.

In caso di funzione corrispondente il predicato della frase subordinata può comparire anche al condizionale:

(76) Marco ha avuto un buon voto, e credo che Massimo meriterebbe addirittura piú di lui.

Se il parlante e la persona denotata dal SOGGETTO della predicazione non sono identici – e questo, tranne che per la I pers. sing. pres. credo, è sempre il caso – ne risulta per il primo la possibilità di segnalare, mediante la scelta del modo, se egli condivida o meno la credenza della seconda. Tuttavia in una frase come (74 a) il congiuntivo non è necessariamente indizio che il parlante ritenga ingiustificata la credenza della persona denotata dal SOGGETTO della predicazione e perciò la frase dipendente falsa. D’altra parte si può segnalare con l’indicativo che si è convinti della fattualità del contenuto della frase dipendente. Ciò vale anche nel caso di identità tra persona denotata dal SOGGETTO della predicazione e parlante, se la frase dipendente deve essere comunicata come ferma convinzione di questo e in tal modo la funzione comunicativa della subordinata si avvicina a quella di un’asserzione solo leggermente indebolita. La relativa autonomia della frase dipendente che si è venuta cosí a creare permette la scelta dell’indicativo, tanto piú in caso di identità referenziale dei soggetti nelle frasi principale e dipendente:

(77 a) Credo che ho dimenticato gli occhiali proprio lí.
(77 b) «Credo che mi annoiavo e anelavo il momento che la giornata riprendesse» (C. Pavese, Storia segreta, in Racconti, Torino, Einaudi, 1960, p. 485)

Credo che può essere sostituito in questi casi da un avverbio di frase come probabilmente. All’interno di tale contesto va posta la frase Credo che Dio esiste, dove il credo non è nemmeno piú interpretabile come indebolimento dell’enunciato della frase dipendente.

Con l’indicativo si può però anche comunicare in quanto tale, citare quasi, una ferma convinzione di altre persone:

(78) C’è gente che crede che la libertà e l’ordine non sono compatibili.

È obbligatorio l’indicativo dopo l’imperativo ed espressioni corrispondenti:

(79 a) Creda che è / *sia una grande sofferenza per noi assistere a questa situazione senza poter fare niente.
(79 b) Creda che sono / *io sia veramente mortificato.

Qui si tratta in primo luogo della comunicazione del contenuto della frase dipendente come fatto, e la frase principale all’imperativo ha esclusivamente il compito di sottolinearne la credibilità [...]. Se in (79) mancasse creda che, il senso della frase non ne verrebbe interessato in modo essenziale.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Incarcato
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Intervento di Incarcato »

Grazie delle precisazioni, Marco.

Il mio parere personale, tuttavia, è che l'uso di pensare con l'indicativo, nella maggior parte dei casi, non sia molto elegante.
Non c'è dubbio, inoltre, che in costruzioni di questo tipo il congiuntivo ha subíto un'erosione a favore dell'indicativo, pur legittimo.
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Di nulla. Ecco anche la trattazione di pensare (pp. 436-437):
Riguardo all’uso del modo, il verbo pensare è ampiamente paragonabile a credere. Strettamente imparentato con questo dal punto di vista semantico, esso regge di norma, soprattutto nelle frasi negative, interrogative e ipotetiche, il congiuntivo:

(85 a) Qualcuno pensa che siano probabili nuove elezioni.
(85 b) Penso che il risultato sia buono.
(85 c) Non si pensa mai che succedano cose di questo genere.
(85 d) Pensi che io non abbia mai giocato al pallone?

Il congiuntivo, nel caso che si metta l’accento sulla posteriorità, può essere sostituito anche da un futuro o da un condizionale:

(86 a) Penso che il processo della chiarificazione richiederà tempo.
(86 b) Penso che una bella vacanza ci permetterebbe di riprenderci.

Nella lingua informale, e non solo in questa, si trova però sempre piú l’indicativo:

(87) «...sebbene io pensi che si vive per scrivere e si scrive per vivere» («Corriere della Sera», 31/7/1987).

Dopo pensare all’imperativo va di norma l’indicativo (cfr. (79)):

(88) Ma pensi che tutti si sono schierati contro di noi.

L’indicativo si trova anche nel quadro di un registro stilistico piú elevato, se pensare assume la gradazione di significato che lo avvicina a giudicare:

(89) Pensò che, per parlargli schietto, era meglio farlo a quattr’occhi.

A differenza di credere, pensare che può avere anche un altro significato, che viene generalmente segnalato proprio dall’uso dell’indicativo. In tal caso la subordinata ha significato fattivo e pensare che può essere parafrasato con pensare al fatto che / riflettere sul fatto che:

(90) Pensai che ero vivo, pur dopo tante sventure, e che questo era l’importante.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Freelancer
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Intervento di Freelancer »

Anch'io, come Incarcato, trovo poco elegante l'uso dell'indicativo con pensare; checché ne dica Serianni, pensare non ha la sfumatura essere certo di, bensì ha sempre - nel caso di cui parliamo - una sfumatura dubitativa. Si leggano in un dizionario i vari significati di pensare; non credo si troverà essere convinto. Come spiega ad esempio il Devoto-Oli:
Il contenuto mentale può identificarsi con quanto rappresenta motivo di considerazione, intenzione, opinione (non pensavo di farti dispiacere; penso che questa sia la cosa migliore).
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

D’accordo sulla poca eleganza nella stragrande maggioranza dei casi; tuttavia, si legga questa definizione del Battaglia (sott. mia):
Pensare 6. Avere un’opinione o una convinzione, ritenere, giudicare, credere, opinare (e, in partic., dare un’interpretazione determinata in merito a precisi fatti o circostanze o, anche, circa il comportamento di altri, i motivi che lo determinano). – In partic.: avanzare, sostenere un’ipotesi scientifica, filosofica, ecc. – Anche: propendere per una soluzione, per un’alternativa piuttosto che per un’altra; optare.
Esempi (sott. mie):

Io mi penso che furo altri uomini callidi e vezzati i quali avennero a trattare le picciole controversie delle private persone. (Latini, Rettor., 29-9)

Vegeto e sano aveva sempre pensato, come i suoi tre figli, che tanto ci si può prendere cura di un uomo quanto utile può rendere. (Beltramelli, III-529)

― Perché ridete, voi? ― gli chiese Rùtolo, pallidissimo, fuori di sé, fissandolo di sotto ai sopraccigli corrugati.
― Mi pare ― rispose lo Sperelli, senza turbarsi ― che voi mi parliate in un tono assai vivo, caro marchese.
― Ebbene?
― Pensate del mio riso quel che più vi piace.
― Penso che è sciocco.

(D’Annunzio, Il Piacere, Libro 1,5)
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Detto e citato tutto ciò, voglio comunque raccomandare a chi non è scrittore di attenersi, almeno nel registro formale, al congiuntivo con i verbi credere e pensare (lasciando a quest’ultimo verbo l’indicativo nel senso di «riflettere sul fatto che» e per credere nel caso di professione di fede).
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Federico
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Intervento di Federico »

Non capisco perché il contenuto mentale (ciò che si pensa, o idea) non dovrebbe poter essere una convinzione o una certezza. Mi sembra assurdo.
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bubu7
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Intervento di bubu7 »

Secondo me, in questo caso, è meglio non dare prescrizioni rigide.
Possiamo evidenziare almeno quattro aspetti che possono concorrere o contrastarsi tra loro.

La variazione di registro formale > informale.

L'erosione del congiuntivo da parte dell'indicativo per indicare la stessa sfumatura di significato.

La diversa sfumatura di significato che assumono le due frasi all'indicativo (maggiore certezza) o al congiuntivo (più dubitativo) mantenendo comunque un margine residuo d'incertezza legato alla semantica del verbo.

Infine il fatto che lo stesso verbo, in alcune sue accezioni, può variare il margine d'incertezza legato al suo significato.

Sarà la somma algebrica di questi aspetti a determinare il modo verbale da preferirsi.
La lingua è un guado attraverso il fiume del tempo. Essa ci conduce alla dimora dei nostri antenati.
V. M. Illič-Svitič
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Una raccomandazione non è una prescrizione.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Avatara utente
bubu7
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Intervento di bubu7 »

Marco1971 ha scritto:Una raccomandazione non è una prescrizione.
Certo, caro Marco.
Ma io non stavo criticando le sue indicazioni; cercavo solo di fare un'analisi della questione.
Se però proprio mi ci tira :) posso aggiungere che non è consigliabile neanche dare un'unica raccomandazione valida per tutt'i casi.
Lei ha giustamente ricordato il registro formale: in altri contesti, come cercavo di spiegare, può essere raccomandabile usare l'indicativo.
La lingua è un guado attraverso il fiume del tempo. Essa ci conduce alla dimora dei nostri antenati.
V. M. Illič-Svitič
Ladim
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Intervento di Ladim »

La riflessione vorrebbe, comunque, una presa di coscienza. Se l'uso non è consapevole, e non si è in grado di valutare la valenza semantica di un verbo, sarebbe bene ascoltare le raccomandazioni – se estendiamo spontaneamente l'uso dell'indicativo, questo avviene, io credo, non per la variabile sfumatura 'opinante' del verbo reggente; ma per corrività, per la stessa estensione d'uso, per un'orecchiabilità diffusa etc. Per chi è consapevole, quindi, ben venga l'uso consapevole di un indicativo anche poco elegante; ma per chi si esprime in modo dimesso e vuole migliorare il proprio eloquio, sarebbe ancora consigliabile 'pensare' al congiuntivo (e perdoniamo pure chi sbaglia, come il giornalista: che, a quanto pare, sbaglia nel difendersi, e non nell'uso dell'indicativo...).
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