Galileo, la scienza “nuova” e chiara

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Ferdinand Bardamu
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Galileo, la scienza “nuova” e chiara

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Articolo che rende omaggio a Galileo e al suo sapiente e lungimirante uso della lingua italiana.

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Cinquecento anni addietro, anno del Signore 1610, l’accademico, scienziato, letterato Galileo Galilei (www.treccani.it) lascia Padova e il suo prestigioso ateneo – nel quale ha insegnato scienze matematiche per 18 anni – e se ne torna in patria, in Toscana, sotto la signoria dei Medici. Dal punto di vista simbolico, è una data importante anche per la storia della nostra lingua. Scrive Bruno Migliorini nella Cronologia della lingua italiana (Le Monnier, Firenze 1975): «Galileo Galilei (1564-1642) si trasferisce da Padova a Firenze. Da allora si manifesta la sua decisa preferenza nell’uso dell’italiano per la trattazione di problemi scientifici (1611, lettera a mons. Dini in difesa dei pianeti medicei; 1612, Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua)».
Leggendo date e cronologia di vita e opere galileiane viene qualche dubbio. Perché proprio nel 1610 Galileo pubblica in latino (e non in volgare) il Sidereus Nuncius (per un esempio di scrittura galileiana in latino: http://www.bncf.firenze.sbn.it/progetti ... index.html). Non una robetta da diporto: siamo di fronte a una brillante e argomentata trattazione delle sue scoperte in campo astronomico, al cospetto di una platea europea di scienziati agguerrita e in fermento, intenta a trarre dal progresso tecnologico strumenti di indagine sempre più sofisticati: la natura si svela ora, a ogni osservazione obiettiva, diversa da quella tramandata dalla scienza antica, aristotelica, tolemaica, rispettosa del dettato delle sacre scritture. Il fervore delle indagini, però, acuisce il problema dei problemi: il rapporto con le auctoritates scientifiche, spesso cresciute tra i ranghi della Chiesa, e, soprattutto, il faccia a faccia con la gerarchia ecclesiastica e il suo braccio inquisitorio. Il Seicento è il secolo in cui si profila con nettezza il processo di autonomizzazione della scienza dalla fede. Insomma, entusiasmi ma anche lacrime e sangue.

Il cannone e le macchie

La faccenda delle scelte linguistiche si complica, ai nostri occhi, se pensiamo che le scoperte galileiane spiegate in latino (sulle fasi di Venere, sullo spazio intorno a Giove – che Galileo vede popolato di quattro satelliti, chiamati poi medicei, in onore di Cosimo II, dedicatario del Sidereus) sono state fatte proprio tramite uno strumento ottico innovativo, usato al meglio da Galileo e da lui denominato di volta in volta – italianissimamente – cannone o occhiale (si chiamerà poi cannocchiale, per meritodi un suo sodale, Giuseppe Biancani). Ed è sempre Galileo a definire in volgare macchie solari uno dei fenomeni trattati nel Sidereus, rivendicandone polemicamente, nel 1612, la scoperta e la fenomenologia nella Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari, scritta in italiano. Ma già quando aveva appena 22 anni aveva scritto in italiano il trattatello intitolato La bilancetta. Insomma: latino o italiano? E, soprattutto: in che cosa starebbe la rivoluzionaria grandezza dell’uomo che «apre l’italiano alla scienza» (Vittorio Coletti)?

L’italiano col compasso

Va chiarito che in Galileo è sempre stata presente la convinzione che la lingua toscana fosse in grado di rappresentare le ragioni e i contenuti della scienza. Ciò detto, la scelta decisa per l’italiano, dopo il Sidereus, «acquista un rilievo particolare» (Claudio Marazzini) proprio perché non erano mancati, già a partire dalla seconda metà del Cinquecento, scritti in volgare di altri scienziati. Sciogliamo l’apparente paradosso. Intanto, v’è una peculiarità territoriale e culturale nell’«opera di rilancio del volgare degli ambienti medicei» (Leonardo Rossi) che porta tra Cinquecento e Seicento i vari Bartoli, Danti, Segni a tradurre in volgare antichi trattati di matematica, filosofia, architettura. Ma siamo nell’ambito di un genere specifico. I trattati toscanizzati sono un filone particolare, umanistico-antiquario, che ridondano a vanto dell’ambizioso mecenatismo mediceo.
Le altre opere scientifiche contemporanee di prima mano scritte in volgare sono, in verità, opere di tecnica e tecnologia, dunque di scienza applicata (considerate di rango inferiore rispetto ai testi scientifici teorici “puri”).
In questo contesto, fino al Sidereus Galileo si comporta come gli scienziati coevi, adoperando il volgare per gli (ingegnosi) scritti di scienza applicata (Le Mechaniche, Le operazioni del compasso geometrico e militare). Nel Sidereus, diciamo così, si lancia sulla “ribalta” internazionale e non può che farlo scrivendo in latino, cioè nella lingua dell’ecumene dotto e accademico. Egli è sicuro, in questo modo, di propagare le esplosive scoperte astronomiche che, nei fatti, introducono nella storia del metodo scientifico i princìpi della “scienza nuova”. La scienza di Galileo è nuova perché, per la prima volta, la matematica diventa strumento di interpretazione della realtà naturale. Il metodo galileiano è una sintesi dinamica di ragionamento matematico e sperimentazione concreta.

Bilancia contro bilancia

Dopo il Sidereus, Galileo è più che mai conosciuto, è pronto all’inevitabile pugna, è più che mai schierato: con Copernico, innanzi tutto, anche se, spesso, dissimula onestamente e tenta di rassicurare le gerarchie ecclesiastiche, da fedele cattolico romano quale si professa, attento a difendersi, in questo caso, ripiegando. Quando deve scendere in campo per difendere e contrattaccare apertamente, nell’agone del dibattito scientifico, come fa nel Saggiatore (1623 http://www.liberliber.it/galilei/il_saggiatore/.htm), Galileo sceglie il volgare (ma non il volgare plebeistico, per esempio, di un Tartaglia, celebre e inquieto matematico). Cioè egli colloca l’italiano al livello alto della scrittura scientifica. Nel Saggiatore, la scelta dell’italiano è anche scelta polemica contro il latino inteso come lingua della chiusa casta di scolastici e accademici. Lo conferma la sua struttura: ai passi in latino estrapolati dall’opera dell’avversario che lo aveva criticato (Lotharius Sarsius, alias padre Orazio Grassi), Galileo fa seguire le sue acuminate repliche, talvolta ironiche e beffarde. Galileo si era scaldato il calamo postillando la copia in suo possesso della Libra astronomica ac philosophica del Grassi, glossando in italiano i passi del testo da lui ritenuti cruciali, anche con commenti come «pezzo d’asinaccio» o «tu sei un solennissimo bue». La battaglia tra la bilancia di precisione degli orafi (il saggiatore) e la grossolana bilancia da mercato (libra) si conclude con la netta vittoria della prima, conseguita prima di tutto sul piano della chiarezza espositiva, veicolo ritenuto fondamentale da Galileo per una trattazione scientifica che sia «non soltanto disquisizione tecnica, ma anche dibattito filosofico di interesse generale, da mettere a disposizione di tutti gli uomini d’ingegno vivace e curiosi di sapere molte cose» (Leonardo Rossi).

«Parlare oscuramente»

Persona di spessa cultura classica, accademico della Crusca, al Tasso, perso, secondo lui, in artificiosi giochi fonici e metrici che gravano sulla trasparenza semantica («parlare oscuramente lo sa fare ognuno, ma chiaro pochissimi»), egli preferisce l’arioso (e toscanizzante) Ariosto.
La scelta di Galileo a favore dell’italiano – bisogna aggiungere – è coraggiosa, perché egli si rende perfettamente conto «del pericolo di affievolire i contatti con i dotti degli altri paesi»: per tutta la sua vita «editori e librai stranieri continueranno a chiedere traduzioni in latino dei suoi scritti» (Bruno Migliorini). Galileo però ha deciso. Non rinuncia al suo uditorio e gli si rivolge con grande consapevolezza sociolinguistica in un italiano elegante, mai affettato, «perfettamente accoppiato alla chiarezza terminologica e sintattica», senza ricusare, all’occorrenza, di «mostrare in alcuni suoi scritti alcune ‘macchie’ di lingua toscana viva e parlata, così come non rinunciò al sarcasmo, alla boutade scherzosa, al riso caricaturale, e anche […] alle frasi idiomatiche e al paradosso» (Claudio Marazzini), nonché al gusto per l’apologo esplicativo. E nei suoi dialoghi, massime il capolavoro del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632), Galileo «fonde il narrativo e l’episodico» (Maria Luisa Altieri Biagi), senza che si perda la sensazione di una decorosa nobiltà del dettato.

Terminologia della fisica

Una difficoltà che Galileo si trova a dover affrontare è «legata alla inadeguatezza delle risorse lessicali, alla mancanza di una terminologia tecnica opportunamente specializzata e accreditata». Qui si tocca con mano la «sua fiducia nelle grandissime potenzialità del volgare [che] lo induce a riutilizzare parole della lingua corrente, conferendo loro un significato tecnico» (Raffaella Setti). Pur conscio della sostanziale convenzionalità delle definizioni, Galileo ritiene che si possa comunicare in modo non ambiguo una volta che in un contesto specifico si attribuisca un determinato significato a una parola. Ciò non toglie, anzi, implica che Galileo si muova sperimentando nel tempo successive approssimazioni definitorie, con l’intenzione e il risultato di tendere all’univocità del significato – quell’univocità che sola rende possibile la formazione di un lessico specialistico. Ciò accade nella terminologia della fisica classica, per la quale il contributo galileiano è fondativo. Anziché incrementare le formazioni dotte di conio greco-latino (telescopio per cannocchiale non è invenzione galileiana; a idrostammo Galileo preferisce bilancetta), Galileo sceglie, tra quelle già esistenti, le «parole capaci di veicolare immediatamente un’immagine, riconducibile alla sfera quotidiana, che contenga in sé le tracce utili a guidare verso la comprensione del significato tecnico. E così parole come bilancetta, momento, alone, impeto, forza, candore, macchia, pendolo, titubazione sono tratte dalla lingua comune e inserite in contesti che ne determinano una progressiva tecnicizzazione» (Raffaella Setti).
Il senso dell’operazione galileiana è percettibile nella lingua della fisica moderna, che utilizza – ci ricorda Setti – termini italianissimi come forza, lavoro, resistenza, risultante, rivoluzione.
Il grande lascito galileiano, anche in fatto di lingua, ha oltrepassato i secoli e scavalcato la condanna del Sant’Uffizio inflitta a Galileo nel 1633: dichiarazione di erroneità della teoria copernicana, abiura, obbligo di recita settimanale dei salmi penitenziali, condanna al carcere – commutata in ritiro al paese natale (Arcetri, vicino Firenze). Intanto, tutte le copie del Dialogo sopra i due massimi sistemi venivano distrutte.

Silverio Novelli
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Marco1971
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Iscritto in data: gio, 04 nov 2004 12:37

Intervento di Marco1971 »

Grazie, caro Ferdinand, per questo bell’articolo. Galileo… che grand’uomo! Temo purtroppo che se anche sorgesse oggi in Italia qualche grande scienziato che facesse qualche grande scoperta, a questa non darebbe un nome italiano... :(
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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