Cultura di massa e tralignamento della lingua

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Ferdinand Bardamu
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Cultura di massa e tralignamento della lingua

Intervento di Ferdinand Bardamu »

Prendendo spunto dal filone di Marco sull'utilità della Crusca, vorrei offrirvi alcune modeste riflessioni sull'influenza pesante e persistente della cultura di massa sulla lingua e sulla sua eccessiva permeabilità ai forestierismi. Non toccherò la questione annosa dell'anomalia italiana, ossia dell'insuperata polemica sull'Unità nazionale e sulla lingua comune, polemica che molti oggigiorno, a vario titolo, rinfocolano.

Mi rifaccio, invece, ai concetti di Masscult (d'ora in poi, semplicemente, ‹cultura di massa›) e di Midcult (‹cultura media›) descritti nel saggio Masscult e Midcult del critico letterario e sociologo americano Dwight MacDonald (cfr. Dwight MacDonald, Controamerica, Rizzoli Editore 1969, pp. 19-83).

In breve, per MacDonald la cultura di massa e la cultura media occupano oggi – egli scrive nei primi anni Sessanta, ma la sua analisi vale a fortiori ancora ai giorni nostri – tutto lo spazio dell'offerta culturale (narrativa, saggistica, cinema, musica, arti figurative). La cultura alta o scompare, assorbita dall'orrenda chimera della cultura media (cioè la cultura alta svenduta al mercato o la cultura di massa che cerca di nobilitarsi), o è confinata a un'eletta di pochissimi cólti, capaci d'apprezzare le finezze e le peculiarità tecniche d'un'arte finalmente libera dal giogo del mercato e della condiscendenza verso i gusti della massa.

Al momento attuale, possiamo dire che quella di MacDonald è un'analisi superata dalle circostanze e addirittura ottimista, se raffrontata al nostro stato. Si assiste oggi a un inarrestabile smottamento culturale che trascina tutto verso il basso. Una parola chiave di questo fenomeno è sdoganamento: si contrabbandano entro i calpesti steccati di una cultura sempre piú vilipesa le opere piú becere e illeggibili, inguardabili, inascoltabili.

La proposta che l'autore fa per arginare la degenerazione delle arti è esclusivista e, apparentemente, reazionaria:

[L]'unico pubblico che lo scrittore o l'artista o il compositore o il filosofo, o il critico o l'architetto dovrebbero tenere in considerazione deve essere quello dei propri pari. La minoranza informata e interessata che Stendhal chiamava «Noialtri pochi felici». Lasciate che la maggioranza stia a origliare, se proprio vuole, ma ignoratene con fermezza i gusti. (p. 82)

Se è utopia pensare di elevare la massa cosicché possa godere delle gioie della cultura alta cosí com'è, senza semplificazioni ad usum Delphini (occorrerebbe uno sforzo che la politica non è in grado d'assicurare, anzi, la direzione ch'essa sta prendendo è l'opposta), non si può assistere indifferenti allo scempio senza fine della cultura tutta e, nel caso che ci riguarda, della nostra nobile lingua. Uno scempio che è antidemocratico. A mio avviso, infatti il massiccio e indiscriminato travasamento di parole, locuzioni, costrutti nella prosa giornalistica e letteraria non è indice di democratizzazione, ma, al contrario, di ipocrita paternalismo.

Lo svecchiamento ormai consolidato dello stile di giornalisti e scrittori – svecchiamento che va di pari passo con un pensiero parimenti «giovane» e quindi ingenuo, superficiale, leggero – oltre a mantenere le masse in uno «stato di minorità», per prendere in prestito un termine kantiano, provoca una degenerazione forse irreversibile della lingua.

La proposta di MacDonald è quindi condivisibile. Dobbiamo adoperare una lingua pura e rispettosa della tradizione, anche a costo, talvolta, di rendere difficile la comprensione immediata per la maggioranza dei parlanti. Non è un compito facile: agiamo, per usare una metafora forse troppo ardita, sicut agnos inter lupos, come agnelli fra i lupi.

E il compito è cosí arduo perché gli scrittori oggi volgono lo sguardo solamente al pubblico («immane nulla» per Kierkegaard). Il nostro nemico è l'uso medio dilagante in qualsiasi campo, dalle chiacchiere al caffè (dove starebbe benissimo) ai discorsi istituzionali dei politici. Stiamo intraprendendo una crociata – come dice Marco – ben sapendo che gl'intellettuali e i potenti, tranne rare eccezioni, non ci sono favorevoli, che le istituzioni preposte (la Crusca per prima) sono impotenti e che la Cultura di massa è ormai un imbattibile leviatano.
Ultima modifica di Ferdinand Bardamu in data mar, 10 apr 2012 14:36, modificato 1 volta in totale.
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Decimo
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Re: Cultura di massa e tralignamento della lingua

Intervento di Decimo »

Per prima cosa, gentile Ferdinand, la ringrazio di averci offerto le sue interessanti considerazioni, garantendole al pubblico confronto. Tuttavia, intendo qui di séguito sostenere —nei limiti del possibile— la tesi opposta, ossia che la cultura non è oggi soggetta a declino (o —meglio— non piú di quanto non sia stata fin dalla sua nascita).

Prendo atto di una percezione diffusa, mai estinta, del «tralignamento» culturale. Qualche esempio sparso: nel settimo sonetto del Canzoniere, in cui Petrarca incoraggia l’amico a non desistere dalla sua opera, si riconosce amaramente che i vizi hanno bandito «del mondo ogni vertú» e che la «turba» volgare «al vil guadagno intesa» mortifica le arti e le scienze; Schopenhauer, additando la Crusca come mirabile modello di preservazione linguistica, denunciava già a suo tempo la decadenza inarrestabile della lingua tedesca; Nietzsche, come noto, poneva l’inizio della morte della filosofia in Platone. La cultura, insomma, pare che nasca decadendo, macchiata di un peccato originale inespiabile. A ragione di ciò, v’ha l’assenza di una visione dialettica degli sviluppi culturali e l’incapacità di coglierne il mutamento e riconoscerne i caratteri nella contemporaneità. Abbiamo esempi storici illustri e indolori di prestigiose gallerie francesi che rifiutano di esporre le prime opere impressionistiche, di dottissimi critici che scartano con sdegno l’arte emergente di un Munch o di un Brahms, dei puristi trecentisti, ma anche della triste gogna dell’entartete Kunst o delle pressioni sovietiche per un’arte «impegnata».

L’equazione secondo la quale la cultura alta si svilisce o addirittura scompare quando «svenduta al mercato» è quella che meno condivido. Anche qui non mancherebbero gli eroi: il misantropo Eraclito che depone emblematicamente il suo libro nel tempio, o ancora Nietzsche, degno successore del primo, che afferma che «i libri per tutti sono sempre maleodoranti», ai quali «l’odore della piccola gente resta attaccato». Fermo restando che nell’attuale società capitalistica la mercificazione —nel caso specifico, l’industria editoriale— garantisce la sopravvivenza della cultura scritta, attraverso nuove traduzioni, nuove edizioni, ecc., ribadisco che credere che l’eletta («quella vera») corrisponda al rifiuto della cultura mercificata comporta l’automatico seppellimento dei grandi classici, che l’editoria —piccola e grande— non ha mai scordati, e implicherebbe anche le allergie piú grottesche: è il paradosso, che vi racconto come personale aneddoto, d’una mia collega che ha liquidato Nietzsche definendolo «troppo commerciale».

L’inadeguatezza del pubblico non elimina gli artisti, ma al piú ne seleziona alla fama (in vita) quelli che meglio comprende, e, a dire il vero, perlopiú guidato dal giudizio dei critici. Steve Reich e Arvo Pärt sono ad esempio nomi che diranno poco ai piú, ma esistono. E i pediodici scientifici, gli annali accademici (che per definizione non tengono in alcun conto il pubblico non specialistico), riempiono le biblioteche come mai prima.

E il decadimento linguistico? Si supera solo dialetticamente. L’aderenza alla «tradizione» mette già in una condizione di deficienza. Qui sta la debolezza dei dizionari normativi, se pensati come agenti di sensibilizzazione: la presunzione di cristallizzare —d’inceppare— l’evoluzione linguistica in una fase «aurea» non trova estimatori su larga scala. Non solo: anche l’insinuamento di valori legittimanti (il prestigio nazionale, la resistenza all’imbarbarimento, l’unità nazionale, l’ineffabile amore per la lingua, ecc.) è un punto debole nella campagna di sensibilizzazione che ha corpo in Cruscate, e non può esercitare alcuna attrattiva presso gli accademici o presso la classe cólta in senso lato, se non tutt’al piú in una porzione ideologizzata di essa (che però sarebbe la prima —ho ragione di credere— a non far seguire l’azione al plauso). L’uomo cólto viene sensibilizzato piú dall’argomentazione solida che dall’impressione patetica: la «Tradizione» con la t maiuscola è un valore che non eccita piú la riverenza. La trasparenza comunicativa (ch’è un principio avalutativo), invece, è a mio avviso proprio il cavallo su cui puntare.
V’ha grand’uopo, a dirlavi con ischiettezza, di restaurar l’Erario nostro, già per somma inopia o sia di voci scelte dal buon Secolo, o sia d’altre voci di novello trovato.
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Se il sommo valore è la trasparenza della comunicazione, possiamo anche chiudere le porte eburnee di questo inutile «tempio».
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Intervento di Decimo »

Alla trasparenza comunicativa s’aggiunga il principio della coerenza strutturale.

Le rispondo brevemente, caro Marco: è proprio il «valore», ch’è opinabile e non condivisibile universalmente, che vorrei scongiurare. La nostra credibilità dipende proprio dalla avalutatività delle nostre conclusioni sulla lingua italiana.
V’ha grand’uopo, a dirlavi con ischiettezza, di restaurar l’Erario nostro, già per somma inopia o sia di voci scelte dal buon Secolo, o sia d’altre voci di novello trovato.
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

La nostra credibilità per chi? Cosa c’è da difendere? Non capisco il suo discorso.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Nel frattempo, io vorrei dimostrare come i soli due princípi di trasparenza comunicativa e coerenza strutturale non siano sufficienti a garantire la grammaticalità degli enunciati.

Ecco un concetto semplice, trasparente e strutturalmente coerente, in quattro formulazioni possibili, di cui nessuna è accettabile:

(1) Giovanni chiudere la finestra.
(2) Giovanni la finestra chiudere.
(3) La finestra Giovanni chiudere.
(4) Chiudere Giovanni la finestra.

Tutt’e quattro queste frasi sono riconducibili a Giovanni chiude (o ha chiuso, ecc.) la finestra. Perché, allora, queste quattro formulazioni sono inaccettabili? Perché contrastano con la storia della lingua (non dico tradizione, visto che, come valore, è diventata una parola sporca), che c’insegna che il verbo concorda col soggetto e ha una flessione particolare (non possiamo dire Giovanni chiudu/chiud/chiu la finestra), e che le parole nella frase non marcata seguono un ordine particolare. Tutte queste frasi, senza una storia, senza un confronto con essa, sarebbero perfettamente grammaticali.

Insomma, l’assenza di valori – qui rappresentati da un lungo passato in cui la lingua è stata anche strumento di creazione artistica –, il trincerarsi dietro l’«avalutatività», il negare l’importanza d’un patrimonio comune per amor d’astrazione, che cos’è e a che cosa serve? È questa la domanda che rivolgo, non solo a Decimo, ma a tutta la piazza.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Ferdinand Bardamu
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Intervento di Ferdinand Bardamu »

La ringrazio, caro Decimo, del suo intervento coltissimo e brillante. Le mie armi dialettiche e il mio bagaglio culturale sono inadeguati a riguardo dei suoi; cionnonostante, vorrei muoverle alcune obiezioni.

La sua nozione di «avalutatività» mi sembra un po' ingenua. Mi ricorda la separazione fra giudizi di valore e giudizi di fatto di weberiana memoria. Non credo si possa prescindere da un particolare punto di vista nell'esaminare un oggetto, né l'astrazione può mai compiersi del tutto.

Inoltre, nel suo intervento precedente, lei ignora (deliberatamente?) il concetto socio-politico di massa e le trasformazioni operate dalla comparsa di questo nuovo soggetto nella storia dell'uomo.

La pervasività della Cultura di massa e la sua influenza sulla lingua, su tutte le lingue, era ciò che mi premeva di dimostrare. Non credo vi sia un fenomeno simile a questo nella storia e le generiche lamentazioni sulla degenerazione della cultura pronunciate in passato e da lei citate non erano rivolte allo stesso oggetto, la Cultura di massa appunto. Ma è di tutta evidenza che le mie deboli e traballanti capacità dialettiche non sono state all'altezza della bisogna.
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Decimo
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Intervento di Decimo »

Caro Ferdinand, la ringrazio delle costruttive obiezioni. Chiedo scusa da súbito se le mie asserzioni paiono troppo categoriche, ma ho preferito non infarcire i periodi dei vari «a mio avviso» e «secondo me».

La mia nozione di «avalutatività» è invero banale: assenza di valori e di valorizzazioni. La tradizione, per esempio, è con ogni evidenza un momento dialettico fondamentale, ma se se ne fa un feticcio si rischia l’esposizione a facili critiche. E ciò che c’è da difendere —la «posta in gioco», rispondendo al caro Marco— è la sopravvivenza della lingua italiana.

A proposito della cultura della massa, caro Ferdinand, ammetto di non essere stato esplicito: in qualche passo, parlando piú genericamente di «inadeguatezza del pubblico», ho cercato di mostrarne la relativa trascurabilità. Chi fa il prepotente ingresso nella storia non è la «massa» —a meno che non se ne postuli l’emersione improvvisa dal sottosuolo—, ma, dopo una lunga gestazione, il capitale. L’allargamento del bacino elettorale (il suffragio universale, che è piuttosto «legittimazione universale») e l’alfabetizzazione (diffusione di una lingua ufficializzata come soluzione naturale all’esigenza pratica della formazione dei mercati territoriali [o «nazionali»], i primi a formarsi storicamente, fra cannoni e trincee), che preluderebbero alla «rebelión de las masas», sono elementi costanti della «socialdemocratizzazione» ascendente, che —insieme con lo stato sociale— accrescono al contempo il numero della manodopera qualificata (necessaria al prodotto) e dei consumatori (necessari al profitto). La cultura «per la massa», che —mi par di capire— sarebbe qualcosa come la cultura per i «semi-analfabeti», non è che un prodotto che si vende bene e rende bene, ma non diventa certo esclusivo. Il capitale non ha scrupoli morali: il mercato delle arti plastiche contemporanee lo dimostra abbondantemente. Richiamo in tal proposito l’interessante provocazione di Alessandro Baricco, che —in Italia— propone[va] di togliere i finanziamenti pubblici al teatro e reinvestirli piuttosto nella scuola, per produrre i «consumatori» del «prodotto-teatro» e far da volano per una presenza viepiú massiccia del privato (e dei suoi capitali), attratto dal lucro. All’incremento dell’accessibilità —spettacoli teatrali a prezzi stracciatissimi— non è seguita infatti negli ultimi decenni la corrispondente formazione materiale di un pubblico.

Tornando alla lingua. La canonizzazione linguistica è l’introduzione del momento di stabilità in una fase «strutturale» di mutamento: le lingue sono naturaliter soggette a rapidi sviluppi, e ovviamente parlate dagli uomini (i sistemi idiomatici «di cultura» provengono da ultimo proprio dai parlari di comunità popolari: le masse, insomma, non erano mute prima che la Rivoluzione francese le consacrasse a protagoniste storiche rilevanti). Dunque, se si perde la prospettiva dialettica, si rischia la cristallizzazione gradualmente improduttiva della lingua e il suo progressivo perire dall’uso (e.g., il latino classico). La «coerenza strutturale» di cui parlavo prima è proprio la coerenza dialettica delle strutture profonde dell’idioma, ovverosia la grammatica diacronica, come fondamento della coscienza linguistica che sottende a scelte (lessicali, sintattiche) consapevoli.

E la «trasparenza analitica» del traducente italiano rispetto all’esotismo (e.g., «compattazione» per hashing, di cui si è discusso in questa piazza di recente) è l’argomento a cui i miei amici «non umanisti» sono piú sensibili. (E di qui la mia forte tentazione induttiva.)

P.S. Ci sarebbe poi da aggiungere che il folclore —che sarebbe la cultura della massa analfabeta— è alla base, per esempio, delle suggestioni polacche di Chopin, che da esso ha saputo trarre sintesi mirifiche con la tradizione (è una delle caratteristiche peculiari del romanticismo latiore sensu).
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Decimo ha scritto:Dunque, se si perde la prospettiva dialettica, si rischia la cristallizzazione gradualmente improduttiva della lingua e il suo progressivo perire dall’uso (e.g., il latino classico). La «coerenza strutturale» di cui parlavo prima è proprio la coerenza dialettica delle strutture profonde dell’idioma, ovverosia la grammatica diacronica, come fondamento della coscienza linguistica che sottende a scelte (lessicali, sintattiche) consapevoli.
Rispondo solo su questo, per non cadere in un gioco ipocrita.

Dialettica, dialettica, dialettica. Lo ripetiamo ancora? O vogliamo riprendere l’ancor piú trito dinamica, dinamica, dinamica? O forse, per essere piú progressisti, dovremmo dire ginestra, ginestra, ginestra.

Andiamo avanti: che cosa significa coerenza dialettica delle strutture profonde dell’idioma? La coerenza o è o non è; o può davvero essere «dialettica», la coerenza?

Cristallizzazione gradualmente improduttiva della lingua: l’esatto contrario di ciò che una lingua viva è: cristallizzazione per secoli di esistenza, che finalmente diventa nota e familiare, e codice condiviso in cui la gente si riconosce!

Ma finché c’è dialettica – e non c’è dialogo –, c’è anche ragione di scrivere, sulle porte eburnee: «Si dice, e non si dice.»

P.S. «...come fondamento della coscienza linguistica che sottende a scelte...». Quest’uso di sottendere, che è transitivo, con la preposizione ‘a’, è considerato scorretto. («Essere sotteso a» è altra cosa.)
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
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Ferdinand Bardamu
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Intervento di Ferdinand Bardamu »

La Cultura di massa, come la intendo io e come la intende MacDonald, è una cultura per quelli che – impropriamente – egli chiama ignoscentes, opposti ai cognoscentes. Insomma, una cultura per non specialisti, che, al contrario della Cultura alta, non richiede al fruitore la conoscenza e la condivisione di alcune regole e riferimenti.

Non «cultura per semianalfabeti», quindi, ma cultura annacquata, banalizzata, confezionata per il consumo da parte di una massa – ossia (semplifico, non me ne voglia) da un insieme indistinto e incoerente di persone.

La ringrazio per la sua ricostruzione puntuale della nascita del concetto di massa. Siamo d'accordo che la massa non sia spuntata d'improvviso ex nihilo (e, sottolineandolo, probabilmente fa torto alla mia pur scarsa intelligenza) e ciò mi conforta. Ma non riesco a spostare il discorso (è forse una mia manchevolezza, se prendo un abbaglio la prego di correggermi) sul piano che davvero m'interessa: la presenza prepotente di un modello culturale massificato e la sua influenza sulla lingua.

Lasciamo stare per un momento «la dialettica». Abbiamo capito che lei considera imprescindibile una visione di sviluppo prospettico della lingua; e qui siamo d'accordo: l'italiano di Dante non è il mio italiano e chi s'ostinasse a scrivere seriamente come Boccaccio sarebbe preso per matto. Abbiamo detto un'ovvietà e andiamo avanti. Non mi pare si possa negare, però, che l'ingresso di un gran numero di non specialisti nel mercato della cultura abbia apportato rivoluzioni nel codice. La lingua italiana ha subíto mutamenti tanto rapidi negli ultimi quattro decenni quanto mai lo sono stati nella sua secolare storia. E sono mutamenti tanto forti che è difficile opporvisi. Questo è il nòcciolo del mio ragionamento. Attendo e accetto confutazioni argomentate; come le sue, ma in tema.

Lei, mi par di capire, dice che la resistenza è inutile. Bene. Allora gran parte dei suoi interventi, anzi, la stessa sua presenza in questo fòro, diventa incomprensibile. Se siamo, insomma, un circolo autoreferenziale, come forse lei pensa, mi chiedo perché lei continui a partecipare alle discussioni sui traducenti. È un divertissement? Un passatempo per scacciar la noia?

P.S. Mi rendo conto che mi sto imbarcando in una «singolar tenzone» per la quale ho solo armi spuntate e un bagaglio di cartone di conoscenze e nozioni. Che ci posso fare? Son fatto cosí. Le batoste, in questo caso, mi servono per iscontrarmi contro i miei limiti e superarli.
Ultima modifica di Ferdinand Bardamu in data mar, 10 apr 2012 14:42, modificato 1 volta in totale.
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Decimo
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Intervento di Decimo »

Non avendo letto il libro di MacDonald, riconosco che il mio giudizio avrà un inevitabile carattere di parzialità. Tuttavia, per come è stata presentata, l’idea che l’autore individua come dato di fatto, cioè la tendenza alla scomparsa della cultura alta o al suo patologico declino, non regge alla prova «empirica», cosicché la sua esortazione «ai pari» è in realtà riducibile a una descrizione dello statu quo. La cultura di massa con la cultura media occuperà di certo una fetta assai importante del mercato, ma non esaurisce in sé l’«offerta culturale». A mio avviso —lo ripeto—, la cultura per la massa non infetta la cultura alta, non la induce alla decadenza; tutt’al piú può esser funzionale —semmai— come bagaglio di situazioni, di stilemi, di codici, cui i romanzieri e i sociologi possono attingere. Il dibattito e la ricerca scientifica cede alla tentazione di corrompersi a contatto con un pubblico impreparato? Ovviamente no: restano appannaggio degli accademici. E come reagiscono oggi questi ultimi quando il loro settore specifico (dalla fisica teorica alle scienze sociali) è oggetto di cattiva divulgazione (per esempio quando è funzionalizzato all’ideologia)? Vi racconto un aneddoto recente: il disagio, l’imbarazzo e la perplessità di studenti, ricercatori e professori del dipartimento di storia a Pisa, i giorni immediatamente seguenti la comparsata di Benigni a Sanremo, si tagliava col coltello; è culminata poi nell’articolo del professor Banti apparso ne il manifesto. O pensiamo alle arti: la pittura e la scultura contemporanee sono ciò che di piú lontano si possa immaginare dalla sensibilità estetica della massa. Eppure sappiamo a quanto vengono battuti all’asta certi capolavori. E l’architettura contemporanea? Offenderà il senso comune, ma ciò non ha impedito il successo, per fare un esempio «estremo», dello studio cinese MAD. Né dei rinomatissimi Frank Gehry o Daniel Libeskind. E la musica cólta contemporanea? Mai scoraggiata dalle sale vuote [o svuotate]. Ascoltate Harrison Britwistle: parte del pubblico di Last Night of the Proms del ’95 si dice ancora traumatizzato —come ricorda il critico Alex Ross— da composizioni violente come Panic. E la filosofia? Basterà un esempio: Giorgio Agamben. La saggistica? Flavio Ermini (anche per la qualità della sua prosa). Il romanzo? Umberto Eco. La poesia? Mi sbilancio tantissimo e cito il poco noto Sergio La Chiusa. Ho scelto di portare degli esempi reali di artisti viventi —e mi perdonerete se non ho preso casi particolarmente rappresentativi— proprio per contraddire, forte dell’evidenza dei fatti, l’oracolo infausto di quarant’anni fa di MacDonald.

Detto ciò, passo alla questione interessantissima —sollevata da Ferdinand— sull’analoga influenza negativa che la lingua del popolino —il cui spettrò di parlanti si è geograficamente e demograficamente allargato coll’alfabetizzazione di massa— esercita sulla lingua cólta. Rispondo però prima a Marco: l’allergia da abuso non giustifica il bando di tecnicismi utili a rendere meno ambigua un’argomentazione. Se fosse necessario, sono disposto a ripetere l’aggettivo «dialettico» —che uso consapevolmente— ad nauseam. Cosí come —riprendendo una nota della traduttrice Tiziana Ripepi— non comincerei a scrivere «frutto oblungo giallo» per variare da «banana». La coerenza dialettica della grammatica, poi, (intesa nel suo svolgimento storico) è per l’appunto la sua coerenza progressiva, «da sedimentazione» se vogliamo, poiché le innovazioni nell’uso cólto sono un dato di fatto e la loro introduzione è graduale. Ho poi esemplificato chiaramente la cristallizzazione improduttiva: il latino, che —salvo le buffe liste emanate dal Vaticano— non saprebbe oggi descrivere la realtà che ci circonda; o ancora —aggiungo— il Vocabolario della Crusca, per il quale gl’illuministi lombardi avevano ben ragione di lamentare che fosse lemmatizzato «ambrosia» e non «caffè». E il suo approccio finalistico, gentile Marco, che concepisce addirittura la lingua naturale come «cristallizzazione progressiva», è —secondo me— fantascientifico. Infine, se mi si scrive che «finché c’è dialettica, c’è ragione di scrivere: ‹Si dice o non si dice›» io ho seri motivi di gridare al paradosso e di passare oltre. Non è spocchia la mia: i controinterventi ben argomentati sono ciò che mi fanno piú felice, perché migliorano la discussione. Non però il giochetto retorico.

Ora, l’atteggiamento dialettico non va invocato solo per lo studio freddo della storia della lingua, bensí per fornire l’unico strumento di prescrizione possibile, poiché —in ultima analisi— è descrittivo dell’uso cólto. La permeabilità del quale ai registri piú bassi è cauta naturaliter. Tacciare d’ineleganza la prosa raffinatissima del filologo classico Filippo Maria Pontani (padre) a causa della sporadica presenza della costruzione sintattica «lo si» è un’assurdità. E non si può far lo stesso con Luciano Canfora per i suoi «e non», il cui uso è accettabile proprio perché penetrato nella prosa accademica, ed è il risultato —se mal non fraintendo le parole d’Infarinato— di una pacifica tendenza dell’italiano all’ellissi.

Come correggere nell’uso cólto la disseminazione di forestierismi? Io credo che la risposta stia proprio nella dimostrazione della preferibilità della trasparenza analitica. Perché l’esotismo, in sé, non snatura la lingua italiana in quanto lingua italiana —o almeno, non è questo il punto centrale—, bensí la snatura in quanto lingua, in quanto veicolo comunicativo.
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Intervento di Ferdinand Bardamu »

Decimo ha scritto:Non avendo letto il libro di MacDonald […] Ho scelto di portare degli esempi reali di artisti viventi —e mi perdonerete se non ho preso casi particolarmente rappresentativi— proprio per contraddire, forte dell’evidenza dei fatti, l’oracolo infausto di quarant’anni fa di MacDonald.
Noto una palese contraddizione «di metodo» nei due passaggi che riporto sopra. Non si fidi del magro sunto che ho fatto io del pensiero di MacDonald. Si disseti sempre alla fonte.

Voglio tuttavia fare alcune precisazioni sul pensiero del filosofo americano. Prima di cominciare, la invito, se avrà voglia e tempo, a procurarsi in biblioteca Controamerica (purtroppo è fuori catalogo da parecchio). Trova i riferimenti all'editore e all'anno di pubblicazione in Italia nel mio primo intervento. In questo modo, potremo scendere sullo stesso campo da gioco; altrimenti, si rischia di correre su binari paralleli e d'incorrere nelle contraddizioni di cui sopra.

Nell'aprire questo filone, ho sunteggiato – troppo e male – le teorie di Masscult e Midcult. Ma soprattutto ho colpevolmente omesso lo scopo dell'opera di MacDonald, che non è pronunciare la solita geremiade sulla decadenza dei tempi, ma condurre un esame rigoroso della nuova cultura per non specialisti che dominava e domina tuttora il mercato editoriale e culturale lato sensu.

Non si può negare, credo, che, mentre «una volta» (piú precisamente, prima della rivoluzione industriale) la «cattiva cultura» in senso stretto (per fare qualche esempio contemporaneo e italiano: Saviano e Moccia per la letteratura; Giovanni Veronesi e Gabriele Muccino per il cinema; Giovanni Allevi per la musica; Benigni per lo spettacolo televisivo [1]) non esisteva, giacché le opere, per quanto poco riuscite rispetto a quelle dei grandi geni, rispettavano comunque delle regole, che erano condivise anche dal pubblico; oggi possono godere della «buona cultura» solo «pochi felici». Lo conferma lei stesso dicendo «Steve Reich e Arvo Pärt sono ad esempio nomi che diranno poco ai piú».

Ora, quel che preme a MacDonald non è scavare una trincea e prepararsi a resistere fino all'ultimo a difesa di Proust e Joyce. Non afferma che la cultura alta sia in pericolo: essa troverà sempre estimatori, ancorché il loro numero sia oggi esiguo, e non morrà. Vuole invece dimostrare come la produzione editoriale (e culturale nel senso piú ampio) che occupa la gran parte del mercato sia di fattura talmente misera (anche quando cerca di nobilitarsi pasticciando con temi universali) da essere – cito a memoria – «non arte, anzi addirittura anti-arte». La reazione di chiunque abbia a cuore la cultura alta dovrebbe dunque essere quella di MacDonald: ignorare i gusti della massa a dispetto della schiacciante maggioranza che essa rappresenta.

Ammetto, in chiusa, di avere – forse indebitamente – collegato il concetto di cultura di massa con quello della lingua di cui qui si dibatte. Indubbiamente, però, il Masscult ha un'influenza non trascurabile nell'accelerare o pilotare il mutamento linguistico, nell'accettazione di certi costrutti e cert'altri vocaboli, talvolta addirittura nel costruire l'unità linguistica. Basti pensare al ruolo della televisione di Stato in Italia.


[1] MacDonald, cosí come, in Italia, Pasolini, ha una opinione assai bassa della tivvú: per lui niente di buono può mai venire da essa.
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Decimo ha scritto:E il suo approccio finalistico, gentile Marco, che concepisce addirittura la lingua naturale come «cristallizzazione progressiva», è —secondo me— fantascientifico. Infine, se mi si scrive che «finché c’è dialettica, c’è ragione di scrivere: ‹Si dice o non si dice›» io ho seri motivi di gridare al paradosso e di passare oltre.
Io non ho scritto Si dice o non si dice, ho scritto Si dice, e non si dice, che non è affatto la stessa cosa. Ma «passiamo oltre».

Che poi, per motivi imprecisati, si voglia tacciare di fantascienza quel che dico (e quel che faccio), è cosa comprensibile. Tuttavia, il mio, piú che finalistico, sarebbe un approccio concreto, lontano anni luce da certe elucubrazioni filosofiche; un metodo che si può anche non condividere, ma che poggia su quello che di meno ricusabile e impressionistico si possa concepire: le manifestazioni reali della lingua analizzate attraverso il filtro storico dell’evoluzione linguistica; il vaglio analitico e ragionato dei diversi usi; il confronto, infine, tra passato e presente, nelle sue continuità e discontinuità, nel pulsare – puerile e puro – delle umane voci.
Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro.
Bue
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Intervento di Bue »

Ferdinand Bardamu ha scritto: probabilmente fa torto alla mia pur scarsa intelligenza
Ferdinand Bardamu ha scritto: mi servono per iscontrarmi contro i miei limiti
Provocazione: perché non pur iscarsa? :mrgreen:
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Ferdinand Bardamu
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Intervento di Ferdinand Bardamu »

Ha ragione. :D

Il fatto è che non rispetto la buona norma di aggiungere la «i» prostetica sempre e comunque. Nel caso in questione, forse sarebbe stato meglio scrivere «pure scarsa», però.
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