«Piè» o «pie’»?

Spazio di discussione su questioni di fonetica, fonologia e ortoepia

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«Piè» o «pie’»?

Intervento di Incarcato »

Riporto qui un mio intervento che ho tentato di far apparire inutilmente sul Forum dell'Accademia, in cui rispondevo a bubu7 che chiedeva perché mo' presenti il raddoppiamento fonosintattico ma po' no.

Sfruttando il tema del raddoppiamento fonosintattico, portavo l'attenzione su quella che per me (e non per me solo, come vedrà chi vorrà leggere) è un'eccezione bella e buona: mi riferisco alla scrittura piè che è generalmente consigliata dai grammatici in luogo di pie'.

«La questione del raddoppiamento fonosintattico è alquanto spinosa. Parto un po' da lontano. In un suo intervento, apparso su Lingua Nostra nel 1969, Alfonso Leone si chiedeva perché le grammatiche, tra le quali mi pare rientri, oggi, anche quella del Serianni (sebbene allora non fosse ancora stata pubblicata), suggeriscono di scrivere po' coll'apostrofo ma pie' coll'accento (piè). Egli stigmatizzava quest'uso e lo tacciava (dal mio punto di vista, a ragione) come un'incoerenza. Infattti, dato che tutti i monosillabi bivocalici (può, piú, già) tendono a presentarsi come forme accentate, su questa scia molti grammatici suggerirono e suggeriscono la scrizione piè in luogo di pie'. A prova di ciò s'adduce l'evidenza che tutte le parole appartenenti alla suddetta classe (oltre a tutte le parole accentate in genere) mostrano il raddoppiamneto fonosintattico: ma pie' non sempre (per esempio, Piedimonte no; e ce ne sono altri, che al momento non mi sovvengono). Infatti, ci sono delle forme che oscillano e delle quali si può dire che il raddopiamneto fonosintattico non sia "regola" della lingua. Po' rientra nel loro novero. Già il Leone sosteneva che su po' - a quanto ne sapeva lui - c'erano differenze tra un'area e l'altra. Questo però non vuol dire che le parole apocopate non abbiano il raddopppiamento: infatti mo' ce l'ha, e anche ca' e fra'. Quindi non ha senso chiedersi perché tra due forme apostrofate (po' e mo') una abbia il raddoppiamento ed un'altra no. Infatti, l'apostrofo non indica nulla piú dell'apocope, che non ha nulla che vedere col raddoppiamento fonosintattico. Per questo la risposta alla sua domanda è che po' è un'eccezione punto e basta, non c'è altro perché: la lingua ha delle regole, ma non si lascia mai imbrigliare del tutto da esse. Quello che un grammatico dovrebbe fare è non tanto di eliminare le eccezioni, quanto di normalizzarle nell'ambito della lingua stessa. Per questo sarebbe meglio, e qui torno alla proposta del Leone, lasciare l'accento sui polisillabi tronchi, dove la consapevolezza dell'apocope orami non è piú (virtú<virtude, città<cittade etc.), mentre si lascia l'apostrofo in tutte quelle parole in cui tale consapevolezza ancora sussiste ed è ben viva. Sono convinto che tutti coloro che conoscono bene l'italiano avvertono che po' viene da poco, mo' da modo, fe' da fede... e pie' da piede. Nonostante non abbia detto tutto, spero di non essere stato intorto: prolisso di certo. »
Bue
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Intervento di Bue »

E che ne è del mio azzardo di spiegazione per l'eccezione po' come dovuta alla "debolezza" nel parlato toscano della consonante seguente, la c intervocalica? Cosa che non si verifica in pie', ca', mo' etc., ma si verifica quando a essere "apocopata" è una vocale (du' per due, ha' per hai....)
E' proprio una fesseria?
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Piè o pie'?

Intervento di Incarcato »

Purtoppo io non ho presente il suo intervento e da quello che ho letto non ho sufficienti elementi per provare a dare un giudizio: tuttavia la sua spiegazione sembrerebbe plausibile, ma risolverebbe solo il caso del toscano, lasciando il problema per le altre aree dell'Italia. Quello che a me sta a cuore è sapere se anche per altri pie' è una grafia del tutto legittima, oppure se credono che si debba seguire le grammatiche e scrivere piè.
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Apocope: ageminante per natura, cogeminante per analogia

Intervento di Infarinato »

Qualche tempo fa mi sforzavo di riassumere la moderna grafematica d’apocope (o troncamento), aferesi ed elisione.

Sulla base di quanto ivi ricordato, sincronicamente, l’opzione piè sembrerebbe essere quella piú raccomandabile: qualora non risultasse chiaro dal succitato intervento, piè (a) non prende l’apostrofo perché cogeminante, e (b) prende in piú l’accento perché è una parola tronca che potrebbe altrimenti confondersi col femminile plurale di pio (…uso l’aggettivo «tronco» [od «ossitono»] nel senso tradizionale di parola [potenzialmente polisillabica] accentata sull’ultima vocale -dal punto di vista fonetico, piè /'pjE*/ e pie /'pie/ sono, ovviamente, due parole ultimali monosillabiche, ancorché il loro nucleo sillabico sia diverso e di differente durata).

Se la lettera j fosse nell’uso corrente, allora uno potrebbe tranquillamente scrivere pje, ma -ancora una volta- non pje’, che suggerirebbe ageminazione, e pjè sarebbe ancora meglio ché non lascerebbe dubbi sul potere cogeminante del vocabolo (oltre a chiarire il timbro della e).

C’è una buona ragione per cui le apocopi sono, di norma, ageminanti (…qui e nel prosieguo mi riferisco esclusivamente all’italiano [corrente] neutro di base fiorentina: se si cominciano a includere [altre] varietà regionali [o l’italiano antico], si perde fatalmente la «coerenza interna» del «sistema»).

La cogeminazione è un fenomeno che s’è originato nel passaggio dal latino [tardo occidentale centro-italico] all’italiano, allorché tutte le sequenze CC si sono assimilate, sia all’interno di parola (purché non includessero /n r l s/) che tra parole (indiscriminatamente: a me /am'me/ da ad me esattamente come ammetto da admitto), e che si è poi esteso per analogia.

L’apocope [dei vocaboli italiani] è, invece, un fenomeno tutto italiano e, in quanto tale, non presenta -almeno non intrinsecamente- questo tipo di «sandhi». Le apocopi, quindi, nascono ageminanti e rimangono tali finché il troncamento è chiaramente avvertito dai parlanti, sussistono «ostruzioni fonologiche» e/o un fenomeno analogico non sopravviene attribuendo loro un poter cogeminante ad esse originariamente estraneo.

È questo il caso di mo’ in «a mo’ di», espressione cristallizzata in cui «mo’» non è piú avvertito (dal parlante medio) come apocope di modo, tant’è vero che –in italiano corrente- non si potrebbe sostituire «a mo’ di» con «a modo di», ma bisognerebbe ricorrere a costrutti quali «a guisa di», «in funzione di», «come/quasi [un]», etc… mentre è possibilissimo –sebbene risulti un po’ piú aulico/burocratico- sostituire «un poco [di]» a «un po’ [di]».

Ecco, quindi, che mo’, in assenza anche d’ostruzioni fonologiche (…si pensi, invece, cos’accadrebbe se, in toscano [fiorentino, centrale], l’ha’ (dai hai), in cui il troncamento è comunque ben avvertito da tutti i parlanti, acquisisse un potere cogeminante: «ha’ fatto» /a'fatto/ si pronuncerebbe come «ha fatto» /af'fatto/, e qui la possibilità di confusione non sarebbe meramente teorica come quella con gli omofoni «a fatto/affatto»), viene attratto nel caso dei monosillabi uscenti in /O/, che, come quelli in /-E/ ed esclusi, appunto, quelli derivanti da troncamenti ancora ben avvertiti, sono tutti cogeminanti (…e questo perché i rimanenti monosillabi ageminanti uscenti in e e o sono tutti clitici, e quindi hanno [-e, -o], non [-E, -O]).

Per motivi analoghi, piè è «diventato» cogeminante –è vero che il troncamento è ancora ben avvertito qui, ma, a parte il fatto che può bastare una sola delle condizioni sopraelencate per instaurare la cogeminazione, piè appartiene ormai a un registro aulico, ed è quindi ovvio che sia stato attratto nel caso della maggioranza dei monosillabi uscenti in /-E/, che sono –appunto- cogeminanti.

Un altro esempio d’apocopi cogeminanti (importante perché massiccio e [anche] toscano) è dato dagl’infiniti troncati che si sentono in Toscana tranne che a Firenze e Prato (andà, mangià, etc.), facilmente attratti nel caso dei polisillabi ossitoni [uscenti in vocale], che sono tutti cogeminanti.

P.S. La pronuncia prevalente/raccomandata di ca’ (< casa) è –per ora- sempre /ka/, non /ka*/.
Avatara utente
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Piè o pie'?

Intervento di Incarcato »

Ci sono alcuni punti della sua risposta che non ho ben capito. Li elenco.

Primo: quando dice che la cogeminazione è l'assimilazione di una sequenza CC, cosa intende per CC? Consonante-consonante forse?

Secondo: non capisco su quale base dice che pie' è cogeminante, forse a causa della simbologia per me astrusa (che differenza c'è tra /e/ ed /E/?).

Terzo: nell'intervento cui rinvia dice che si dovrebbe segnare coll'apostrofo l'apocope «di un’intera sillaba («po’» < «poco», «vo’» < «voglio», «di’» < «*dici») _se_ il risultato del troncamento esce in vocale _e_ questa _non_ richiede il rafforzamento sintattico (e.g., «un po’ di pane» /um ,pO di'pane/)».
Stando solo a questo non potrei sapere se scrivere pie' o piè perchè, come appuntavava il Leone, nel verso dantesco c'è il raddoppiamento fonosintattico, ma in ‘Piedimonte’ no.
Inoltre, Lei suggerisce un legame necessario tra mancanza del raddoppiamento fonosinstattico e uso dell'apostrofo per segnalare l'apocope. Così facendo la sua teoria abbraccia la tendenza dell'italiano ad accentare i monosillabi con due vocali (piè, può, già, piú), che manifestano tutti il raddoppiamento fonosintattico.
Però il Leone, mi rifaccio ancora alla sua autorità, sosteneva che «il raddoppiamneto fonosintattico era presente anche in parole come là, dà, in, da, a, sopra, indipendentemente dall’accento. Insomma, — concludeva — escludere il segno dell’apocope perché avviene raddoppiamento fonosintattico persuade poco.»
Avatara utente
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Risposte

Intervento di Infarinato »

Cerco di spiegarmi meglio.
  1. Sí.
  2. Piè è cogeminante sia nella pronuncia «tradizionale» [toscana/fiorentina] della lingua italiana [DOP, DiPI] che in quella cosiddetta «moderna» [DiPI]. Come ho detto, considero le cose da un punto di vista sincronico: cioè, mi limito -ai fini della grafia- a considerare la pronuncia attuale di piè, indipendentemente dalla sua evoluzione. Non solo, ma mi restringo, appunto, all’italiano neutro, senza prendere in considerazione le varianti regionali: la cogeminazione -è vero- è un fenomeno comune a tutto il Centro-Sud, ma le modalità sono diverse da zona a zona [MaPI], e in Campania (Piedimonte Matese) e Sicilia (Piedimonte Etneo) è ben possibile che piè sia ageminante, tanto piú che c’è sempre lo spettro d’un’infelice univerbazione influenzata dalla grafia, come in piduista, che dovrebbe essere piuttosto pidduista (da P2 /pid'due/), e infatti il Canepàri «ammette» anche la pronuncia /pjEddi'monte/ per Piedimonte [DiPI]. (Siccome la codifica di queste pagine è «Latin1», non posso usare l’alfabeto fonetico internazionale, per cui ricorro al SAMPA, discostandomene solo per quanto riguarda l’accento primario, che indico con «'» anziché «"»: in sostanza, /E/ è la «e aperta», /e/ quella «chiusa», /O/ è la «o aperta» e /o/ quella «chiusa».)
  3. Diciamo piuttosto che la stragrande maggioranza delle parole che recano l’apostrofo sono ageminanti (ricordo che anche po’ è sempre ageminante in italiano neutro), e la totalità delle parole uscenti in vocale [graficamente] accentata sono cogeminanti: che ci siano dei monosillabi non accentati (ma nemmeno apostrofati) e qualche bisillabo piano che cogeminano è verissimo, ma -con buona pace del Leone- qui stiamo discutendo sull’opportunità di porre un apostrofo, non d’eliminare un accento.
Vorrei ribadire che il mio limitarmi alla «pronuncia tradizionale» della lingua italiana non è una scelta elitaria o partigiana, ma –come ho scritto- l’unica possibile, se non si vuole perdere la «coerenza interna» del sistema ortografico italiano. Se si escludono, infatti, obbrobri recenti quale il già citato piduista (…ma anche pallavolo e pallacanestro, che dovrebbero essere invece pallavvolo e pallaccanestro, o al piú, per non iscontentare nessuno, pall’a volo e pall’a canestro), frutto d’un’univerbazione basata esclusivamente sull’idolatrata grafia (in Italia), ottenuta semplicemente giustapponendo i singoli elementi senza ragionare minimamente sulla pronuncia, il nostro sistema ortografico «rappresenta» (imperfettamente, com’è inevitabile per il sistema ortografico d’una qualsiasi «lingua storico-naturale») la pronuncia toscana/fiorentina.

Infatti, rimanendo nell’àmbito della cogeminazione, se la nostra ortografia riflettesse, ad esempio, la varietà «regionale» romana (che, pure, è la piú vicina a quella toscana/fiorentina) anziché quest’ultima, ecco che avremmo univerbazioni quali *dacapo e *ognicqualvolta invece dei «corretti» daccapo e ogniqualvolta.

Certo, se l’italiano d’oggi ammette grafie quali pallavolo e pallacanestro (Piedimonte non fa testo, come non fanno testo in generale i nomi propri), mi s’obietterà che può tollerare anche pie’. Al che devo arrendermi… purché non mi si chieda di legittimare tale grafia.

Riferimenti bibliografici.
  • [DiPI] L. Canepàri. Il DiPI. Dizionario di Pronuncia Italiana. Bologna 1999: «Zanichelli».
  • [DOP] B. Migliorini, C. Tagliavini & P. Fiorelli. DOP, Dizionario d’ortografia e di pronunzia. Torino 1981: «ERI», nuova edizione.
  • [MaPI] L. Canepàri. Il MaPI. Manuale di Pronuncia Italiana. Bologna 1999: «Zanichelli», seconda edizione.
Avatara utente
Incarcato
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Piè o pie'?

Intervento di Incarcato »

Ora intendo meglio il suo punto di vista e devo dire che Lei a ragione quando dice che qui stiamo discutendo sull’opportunità di porre un apostrofo, non d’eliminare un accento.
Peraltro, le nostre posizioni mi sembrano ormai ben chiarite; peccato che sia stato un dialogo a due — a parte il fuggitivo intevento di Bue —.

Però, in ultima analisi, temo che l'uso della grafia piè (seppur ben motivata) per segnalare un troncamento ancora chiaramente presente alla coscienza linguistica del parlante — anche se si tratta di un vocabolo letterario — possa introdurre una pericolosa falla ortografica che in tempi futuri potrebbe generare dei mostri come *pò, *cà, *mò etc: Hannibal ad portas! :)
atticus
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Intervento di atticus »

Non voglio esser tra coloro che introdurranno quanto prima falle; motivo per cui continuerò a scrivere pie'.
E meno male che "fé" (=fede) non dà problemi. Per adesso.
Saluti a tutti.
atticus
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Intervento di atticus »

Postillina
«Que' monosillabi che hanno dittongo, si voglion segnar con l'accento, perché altrimenti potrebbono pronunziarsi col dittongo sciolto; e perciò scrivesi: già, ciò, può, "piè" [il virgolettato è mio], e simili» (Salvadore Corticelli, Regole ed osservazioni della Lingua Toscana, Torino, Stamperia Reale, 1856).
dario
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Intervento di dario »

Gentilissimo Infarinato, le sarei grato se mi chiarisse un dubbio, sul quale abbiamo avuto modo di discutere giorni addietro. Mi riferisco alla parola "morire" pronunciata in romanesco: si dice <<mori'>> oppure <<morì>> (lei preferiva la seconda ipotesi).
Mi potrebbe far capire le motivazioni che la portano ad affermare con tanta sicumera che <<mori'>> non è corretto?
La ringrazio del tempo che vorrà dedicarmi.
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Infarinato
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«Apocopi romane»

Intervento di Infarinato »

dario ha scritto:Mi riferisco alla parola "morire" pronunciata in romanesco: si dice [sic = «scrive»] <<mori>> non è corretto?
Premetto che non sono un esperto di romanesco né delle sue rappresentazioni grafiche (…immagino ne esista piú d’una, e magari non tutte sono «linguisticamente meditate»), per cui è ben possibile che in alcune di esse la grafia mori’ sia del tutto accettabile e anzi rappresenti quella «standard»… Del resto, in romanesco, la pronuncia dell’infinito apocopato di morire è ben nota, e una grafia come mori’ elimina sul nascere ogni possibilità (piú teorica che reale, in verità) di confusione con la 3ª persona del passato remoto: in sostanza, è ben possibile che la mia affermazione sia un po’ troppo recisa.

Tuttavia, se per la rappresentazione grafica d’un dialetto si usano (per quanto è possibile) le convenzioni ortografiche della lingua nazionale -come normalmente avviene [almeno] per i dialetti ad essa «piú vicini»-, allora la risposta al Suo quesito la trova qui sopra negl’interventi mio e di atticus, e cioè: l’italiano prevede che una parola [grafo-morfologicamente] polisillabica accentata sull’ultima [grafo-] sillaba rechi su questa l’accento grafico del caso (…per po’ non si pone il problema, ché è monosillabica).

Come ho già detto, meglio sarebbe scrivere morí’, ma è grafia pesantissima e inusuale.

P.S. Se non sbaglio, in romanesco, gl'infiniti apocopati [ultimali] sono cogeminanti, il che, per quanto già argomentato in precedenza, legittima ancor di piú una grafia come morí.
Ultima modifica di Infarinato in data gio, 05 set 2013 16:50, modificato 2 volte in totale.
dario
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Intervento di dario »

Infarinato, lei è "un grande"!
Mi duole aver scritto "si dice" invece di "si scrive"...sono proprio distratto.
Lei continui a correggermi qualora dovessi "errare" nuovamente in futuro.
Io, sin da bambino, ho sempre (o quasi) visto negli scritti romaneschi predominare l'apostrofo sull'accento: <<mori'>>, <<famme capi'>>, <<non te lo vojo di'>>, ecc.
Ma questo non significa che io ne condivida o ne accetti l'uso.
atticus
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Intervento di atticus »

Mi permetto di intervenire.
In Belli (Sonetti, Ed. Feltrinelli, a cura di M.T. Lanza, 1976) negli infiniti apocopati è presente l'accento ("legà", "scommunicà", "strillà" ecc.); sempre.
In Pascarella (Sonetti, Mondadori, a cura dell'Accademia de' Lincei, 1943) troviamo, invece, di rado l'apostrofo ("fa'" per "fare", "so'" per "sóno"); quasi sempre l'apostrofo e l'accento insieme, come in "pijà'" ("Vennero pe' pijià' la posizione", Villa Gloria, XVI); "sortí'" ("Ar vedecce sortí'...", XVII); "avé'" ("Ma si lei nun vo' avé' quarche spavento", Er maestro de noto, III); "morí'" ("E annate a morí' tutti d'accidente" , La comparsa, II).
Donde si conclude che regola certa non c'è. E ci dovrebbe essere.
fiorentino90
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pall'a volo e pall'a canestro

Intervento di fiorentino90 »

Infarinato ha scritto:Vorrei ribadire che il mio limitarmi alla «pronuncia tradizionale» della lingua italiana non è una scelta elitaria o partigiana, ma –come ho scritto- l’unica possibile, se non si vuole perdere la «coerenza interna» del sistema ortografico italiano. Se si escludono, infatti, obbrobri recenti quale il già citato piduista (…ma anche pallavolo e pallacanestro, che dovrebbero essere invece pallavvolo e pallaccanestro, o al piú, per non iscontentare nessuno, pall’a volo e pall’a canestro), frutto d’un’univerbazione basata esclusivamente sull’idolatrata grafia (in Italia), ottenuta semplicemente giustapponendo i singoli elementi senza ragionare minimamente sulla pronuncia, il nostro sistema ortografico «rappresenta» (imperfettamente, com’è inevitabile per il sistema ortografico d’una qualsiasi «lingua storico-naturale») la pronuncia toscana/fiorentina.
DiPI (grassetto mio):
pallacanestro
(-ll’a c-) pallakaˈnɛstro, -kk-; -e-
pallavolo
(-ll’a v-) pallaˈvolo, -vˈv-
pallanuoto
(-ll’a n-) pallaˈnwɔto, -nˈn-

Il DOP, invece, ammette palla a volo, palla a canestro e palla a nuoto, cioè non attua l'elisione né nella grafia né nella pronuncia. Ovviamente, pallaccanestro, pallavvolo e pallannuoto sarebbero preferibili, ma, in alternativa, opterei per le grafie del DOP (palla a canestro, palla a volo e palla a nuoto) e le pronunce del DiPI (rispettivamente, -nˈn-, -vˈv- e -nˈn-). Perché il DOP non elide nella pronuncia :?:
Avatara utente
Infarinato
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Re: pall'a volo e pall'a canestro

Intervento di Infarinato »

fiorentino90 ha scritto:Perché il DOP non elide nella pronuncia :?:
Direi: perché si limita a dare la forma piena, essendo sottinteso che, soprattutto nella pronuncia, un’elisione è sempre possibile…
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