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Spazio di discussione su prestiti e forestierismi

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Federico
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Intervento di Federico »

Marco1971 ha scritto:Si tratta di proporre parole suscettibili di attecchire se qualcuno le lancia.
È quello che sto cercando di fare. Che stiamo cercando di fare tutti quanti.
Marco1971 ha scritto:Né i suoi gusti né i miei avranno alcun effetto.
Ne sono consapevole: in caso contrario, avrei subito adottato entusiasticamente malevolario, non ne dubiti.
Non è una questione di gusti: dico solo che codice maligno è una locuzione già in uso e chiarissima, che può essere adoperata senza problemi anche se sconosciuta, mentre malevolario richiede quantomeno uno sforzo mentale molto piú elevato (che però noi sappiamo non essere volentieri esercitato dalla maggior parte degli italiani, generalmente), senza compensare questo svantaggio con una semplificazione (grafica, di pronuncia, di rapidità ecc.) apprezzabile.
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Federico
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Intervento di Federico »

Abbiamo dimenticato uno dei termini piú scottanti: chip.

Ah, vedo che la nostra traduzione per desktop (computer) forse non è adatta...
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Infarinato
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Intervento di Infarinato »

Federico ha scritto:Ah, vedo che la nostra traduzione per desktop (computer) forse non è adatta...
Perché? È invece la traduzione corretta. A parte il fatto che Wikipedia confonde un attributo del desktop computer con la definizione vera e propra («attributo caratterizzante»), non è nemmeno del tutto vero quanto scrive: «calcolatore da scrivania» è anche il calcolatore usato per «scopi professionali» da un singolo individuo.
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

giulia tonelli ha scritto:La lingua "di per sé" non esiste. Dire che i parlanti italiani hanno meno cultura e fantasia dei parlanti inglesi e' esattamente equivalente a dire che l'italiano e' una lingua piu' restia ai neologismi e alle risemantizzazioni.
Non ho parlato di «lingua di per sé»: ho solo detto che i processi di cui si discorre non sono esclusi di per sé dalla lingua italiana. Quanto ai parlanti, invece di definirli restii perché non lavorare a che diventino piú colti e fantasiosi? Non mi pare un atteggiamento fecondo quello di accettare tutto erigendo uno stato transitorio a principio immutabile.
giulia tonelli ha scritto:Non basta come dimostrazione il fatto che l'inglese e' cambiato moltissimo in un periodo di tempo in cui in italiano e' a malapena cambiata la grafia di alcune parole?
No, non basta. Che l’inglese abbia subíto profondi mutamenti morfologici e fonetici perché s’è trasformato per via orale, mentre l’italiano, rimasto essenzialmente scritto fino al secolo scorso, ha mantenuto quasi intatta la sua morfologia e fonetica non cambia in nulla la capacità evocativa ínsita nelle parole, qualunque trasformazione formale abbiano subíto. Se le traduzioni informatiche dipendessero da me e decidessi di chiamar mago quel che gli anglofoni chiamano wizard – e la parola mago comparisse in tutte le traduzioni –, a nessuno verrebbe in mente di rifiutare tale appellativo, col pretesto che l’italiano di solito non chiamerebbe le cose per metafora; penso invece che la parola sarebbe adottata dall’oggi al domani.
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Intervento di Federico »

Infarinato ha scritto:Perché? È invece la traduzione corretta. [...]
Ah, bene. Effettivamente la voce italiana, anche confrontandola a quella inglese, risulta fuorviante.
E infatti è segnalato anche nella pagina di discussione, anche se nessuno ha provveduto a correggere la voce...
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Infarinato
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Intervento di Infarinato »

giulia tonelli ha scritto:Mi piacerebbe l'opinione di Infarinato.
Grazie della stima. In realtà, su questo argomento, come su tanti, il mio parere vale quanto quello di chiunque altro…

Devo dire (Marco, non mi crocifiggere, ti prego) che sono sostanzialmente d’accordo con quanto scrive Giulia. Ma procediamo con ordine:
giulia tonelli ha scritto:Io credo che le lingue differiscano tra loro non solo per ragioni fono-morfo-struttural-bla-bla, ma anche per diversa "attitudine". L'inglese è una lingua molto, molto, MOLTO più malleabile dell'italiano. In inglese è più facile inventare parole nuove che attecchiscono al volo, è più facile creare neologismi mettendo insieme parole esistenti, ed è più semplice prendere una parola già esistente e usarla in un altro significato.
«Any noun can be ‹verbed›» :D (…per far questo in modo sistematico, in italiano dobbiamo ricorrere all’«izzazione»). La maggior «malleabilità» dell’inglese rispetto all’italiano è dovuta essenzialmente a tre ragioni strettamente connesse fra loro:
  1. Tipologia linguistica: l’inglese moderno è una lingua [sempre piú] analitica, che forma nuove parole per semplice giustapposizione con eventuali, disarmantemente ordinari passaggi di categoria grammaticale.
  2. Stigma sociolinguistico (cfr. scenette romanesche di Amicus): l’inglese è la lingua della cultura [attualmente] dominante, l’italiano è una lingua col complesso d’inferiorità: non crea piú, si limita ad assorbire passivamente e adatta solo quando non può fare altrimenti (coniugazione verbale). In un contesto formale gli adattamenti «paragogici» sono mal visti dagli stessi centromeridionali, e innaturali per i settentrionali.
  3. Storia: l’inglese moderno, che nasce dalle ceneri dell’inglese medio, è di per sé lingua ibrida.
    giulia tonelli ha scritto:L'italiano, nato come lingua letteraria e non "naturale", è infinitamente più restio ai neologismi e alle risemantizzazioni.
    Stricto sensu (ma neanche troppo), l’italiano è la lingua materna solo d’un’esigua fetta della popolazione cosiddetta «italofona»: dei toscani. Una non piccola parte del nostro vocabolario rimane preclusa agl’italofoni non toscani fino all’età scolare e anche oltre, i quali, oggi, spesso non possono nemmeno piú attingere al sostrato dialettale e, quando possono, sono incerti dell’opportunità o dell’esatta modalità dell’eventuale italianizzazione. Anche certi costrutti, che toccano le strutture intime della nostra lingua, rimangono per certi versi innaturali: ricordo una discussione sulla «complessità»/«innaturalità» della successione di tre clitici, che noi toscani ci pappiamo a colazione. :mrgreen: Tutto questo contribuisce alla visione dell’italiano come
    giulia tonelli ha scritto:un signore elegante vestito con la marsina e il cappello.
Dobbiamo dunque «lasciare ogni speranza»? No, non necessariamente, ma, al di là della rivalutazione culturale del nostro Paese (della quale è prerequisito indispensabile un rimboccamento di maniche generalizzato in campo politico-economico: vedi Spagna), bisogna essere consci dei nostri «limiti linguistici», che non sono piú grandi di quelli d’una lingua come l’inglese, ma sono diversi.

Tutto si può, o meglio —dobbiamo oggi onestamente riconoscere— si sarebbe potuto tradurre (è la famosa e universalmente riconosciuta «equieffabilità delle lingue»), ma dev’essere fatto secondo le modalità della nostra lingua. Vorrà dire, allora, che ci si dovrà piú spesso affidare a perifrasi, a callidae iuncturae, ricorrendo agli adattamenti e alle neoformazioni solo come extrema ratio —e che siano formazioni compatibili con le strutture della nostra lingua: non possiamo formare parole «all’inglese»…

E, se in italiano esiste già un traducente acconcio realmente usato (ancorché magari non perfetto, poco «metaforico» o un po’ troppo «inamidato» rispetto all’originale), rallegriamoci e adottiamolo: sempre meglio del forestierismo crudo. In fondo, un po’ inamidati siamo anche noi italiani.

E rincuoriamoci pensando alle difficoltà che molte lingue (inglese incluso) hanno nel rendere la serie di alterati dell’italiano. :twisted:
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Vorrei precisare, a scanso d’equivoci, che mi trovo perfettamente d’accordo con quanto scritto da Infarinato qui sopra. L’inglese è innegabilmente piú duttile nella formazione delle parole; quello che intendevo dire è che l’attribuzione d’un significato per somiglianza o associazione non è affatto estraneo all’italiano (né le proporzioni, a ben guardare, mi paiono cosí dissimili da una lingua all’altra). Vi ricito questo brano (il testo integrale si trova nel filone Morbus anglicus del forum della Crusca, p. 5) tratto dall’introduzione al Vocabolario del vernacolo fiorentino:
Tuttavia il filo rosso che di queste diversità fa un unicum è la grandiosa ricchezza espressiva del lessico. Una incredibile capacità di “dare un nome” alle cose, processo conoscitivo attraverso il quale, come Padre Adamo nell’Eden, ci si mette in sintonia con il mondo.
Il professor Giovanni Nencioni, Presidente dell’Accademia [della] Crusca, mi riferì la frase seguente come un esempio meraviglioso di questa capacità. L’aveva sentita pronunciare da un contadino che raccontava la furia di un temporale appena finito: “Gli era tutto un asserpolìo di saette”. Sublime. E il compianto prof. Dino Pieraccioni, attento linguista oltre che raffinato filologo, raccontava di un suo dialogo con un facchino di Santa Maria Novella, una sera d’inverno. “Nevica?” chiede Pieraccioni. “La vien giù lieve lieve”, risponde il facchino, con la massima naturalezza. Guido Guinizelli non avrebbe detto altrimenti.
L’esempio dell’asserpolío è sintomatico di come l’uomo abbia sempre creato associazioni: i fulmini nel cielo possono far pensare a serpenti aggrovigliati, donde asserpolío. Ma anche il simbolo @ può richiamare la chiocciola, e chiocciola s’è chiamato (notare che la chiocciola, seppur bavosa, non disgusta, mentre il topolino sí, e ci si chiede a questo punto come mai le signore sorcifobe siano entrate in una topolino e non porrebbero il palmo della mano sull’innocuo accessorio del computiere). Mi sembra questa una via del tutto percorribile per dare un nome anche alle moderne creazioni del mondo d’oggi.
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Intervento di Federico »

Federico ha scritto:nessuno ha provveduto a correggere la voce...
...cosí ho provato io, giusto per "pubblicizzare" la dicitura da scrivania (che d'altronde è comune nella stessa Wikipedia) e sperimentare le reazioni a qualche altra discreta sostituzione di anglicismi.
Oltre a chip, servirebbe un traducente anche per mainframe, workstation (le attuali proposte non mi sembrano molto convincenti), case.
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Intervento di Marco1971 »

Chip per me sarebbe piastrina: è esattamente una piastrina di silicio, no? ;)

Mainframe lo tradurrei alla lettera con struttura principale o computiere principale.

Workstation: è lemmatizzata nel GRADIT la traduzione letterale stazione di lavoro.

Su case per ora non mi pronuncio...
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Intervento di Freelancer »

Marco1971 ha scritto:Su case per ora non mi pronuncio...
Cos'è questo case? Sarebbe l'involucro del computer?
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Me lo sono chiesto anch’io. Forse nell’espressione case-sensitive? Vedo una settantina di risultati su Google per sensibile al caso...
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Intervento di Freelancer »

Marco1971 ha scritto:Me lo sono chiesto anch’io. Forse nell’espressione case-sensitive? Vedo una settantina di risultati su Google per sensibile al caso...
Ma no, in tal caso è sensibile al maiuscolo/minuscolo. Oppure [il sistema] non distingue le lettere maiuscole dalle minuscole. Ci sono tanti modi per dire case sensitive.
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Intervento di Infarinato »

Freelancer ha scritto:…è sensibile al maiuscolo/minuscolo. Oppure [il sistema] non distingue le lettere maiuscole dalle minuscole. Ci sono tanti modi per dire case sensitive.
Letteralmente è «sensibile alla cassa» (:lol:, ma neanche troppo…).

P.S. Ma non se n’era già parlato ad nauseam?
Ultima modifica di Infarinato in data gio, 06 apr 2006 19:37, modificato 1 volta in totale.
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Intervento di Federico »

Freelancer ha scritto:Cos'è questo case? Sarebbe l'involucro del computer?
Sí, scusatemi di non averlo specificato.
http://www.artemate.it/glossario.htm ha scritto:È il contenitore che racchiude l'unità di sistema del PC
Su chip e mainframe non so che dire, ma per quanto riguarda workstation, siamo sicuri che stazione di lavoro sia sufficiente?
Wikipedia ha scritto:Workstation è un termine generico per indicare un computer da scrivania ad alte prestazioni, utilizzato da professionisti per il lavoro su disegno tecnico (CAD), ricerca scientifica, o produzioni audio/video.
P.s.:
Infarinato ha scritto:P.S. Ma non se n’era già parlato ad nauseam?
Dove, di grazia?
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Marco1971
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Intervento di Marco1971 »

Perché stazione di lavoro non sarebbe sufficiente? Anche il Devoto-Oli dice:
stazione di lavoro, lo stesso che workstation (v.).
Non cerchiamo il pelo nell’uovo...
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