[NAP] Calamari, uccellini ciechi, anelli (?) e contadinotte

Spazio di discussione su questioni di dialettologia italiana e italoromanza

Moderatore: Dialettanti

Cembalaro
Interventi: 94
Iscritto in data: sab, 02 nov 2013 14:46

Intervento di Cembalaro »

u merlu rucà ha scritto:Per curiosità: esiste già qualche traduzione precedente o è la prima volta che qualcuno ci prova?
È il motivo per cui iniziai il lavoro.
Le cantate sono quattordici. Io ne ho trovate due: una non censita nel catalogo della biblioteca e una censita ma ignorata. Possono dunque essercene altre.
Otto di esse hanno avuto una o più registrazioni discografiche. Esecuzioni, da ogni punto di vista eccellenti, fatto salvo qualche scivolone nel campo della pronuncia (non frequenti): canto, basso continuo, strumenti, direzione.
Ma piene di errori: parole o intere frasi non capite e quindi adattate, e orrori simili. I libretti d'accompagnamento fanno peggio: non solo riproducono il testo errato, ma lo traducono male.

Una cantata è nota ovviamente dal suo incipit: una di esse ha avuto notorietà perché eseguita da bravi musicisti, ma nota come Chi vole magnà e chi non vole magnà. Bene, il verso recita invece Chi vole vagha e chi non vole manna[/i]. Non "chi vuol mangiare e chi non vuol mangiare", bensì "chi vuole vada, e chi non vuole mandi" (infatti prosegue: "perciò sono venuto di persona a chiederti in moglie"). Tra l'altro il manoscritto unica fonte è chiarissimo e il proverbio è famoso: lo cita Basile nel racconto "I proverbi", lo cita di continuo Ledgeway nella sua grammatica, eccetera.
Sei delle otto cantate sono poi tradotte nuovamente in una relazione congressuale, con risultati solo lievemente migliori.

Gli sfondoni sono insomma innumerevoli e gravi, e non riguardano solo le cantate ma tutta la musica su testi in napoletano, che non è poca. Ma è carenza dei musicologi, ché linguisti e filologi e storici che si sono occupati benissimo di testi in napoletano ve ne sono in quantità (uno di essi si sta occupando dei libretto d'opera in collaborazione con alcuni dei suddetti musicisti, quindi qualcosa migliorerà senz'altro).

Troppo entusiasmo, che vergogna, e ho di nuovo scritto troppo.[/i]
Ultima modifica di Cembalaro in data sab, 09 nov 2013 0:48, modificato 1 volta in totale.
Cembalaro
Interventi: 94
Iscritto in data: sab, 02 nov 2013 14:46

Re: NAPOLI CANTA

Intervento di Cembalaro »

ippogrifo ha scritto: Ma i testi - molti li possedevano - dettero sempre problemi. Ricordo - ad es. - un signore anziano che - anni dopo - non “accettava” la trascrizione di “Ah (,) chi vo’ spingule” et c. . Per lui avrebbe dovuto corrispondere a: “A chi vo’ spingule”. In modo da potersi assimilare all’”incipit” “canonico” del richiamo genovese: “A chi vuole . . .”. Sottintendendo: “Questo richiamo è rivolto . . .”. Ricordo benissimo che mi faceva notare che non s’avvertiva affatto la cesura che l’ “h” - proditoriamente - indicava. Ero piccolo e avevo altri interessi . . .
Trovato: pensavo alle spille e non alle spingule :-)
Per fortuna è un testo recente (ultimo decennio dell'ottocento, più o meno), e pubblicata a cura dell'autore, quindi il testo è sicuro: Di Giacomo scrive Ah, chi vo'.
Ma capisco il signore che rifiutava l'h: tutti i cantanti che ricordo, o quasi tutti, pronunciano cchi, mentre la geminazione non dovrebbe aver luogo dopo Ah. Anche le orecchie di un parlante sentono perciò a chi.

Ma forse 'sbagliava' Di Giacomo, perché io sento a cchi non solo nella canzone ma anche nelle vere grida al mercato. Oppure semplicemente Chi vo'...
Non so dirle come il grido era percepito, inteso e riprodotto dai grandi scrittori perché non ricordo occorrenze. Sto leggendo o rileggendo Cortese, se lo trovo le scriverò.
Cembalaro
Interventi: 94
Iscritto in data: sab, 02 nov 2013 14:46

Intervento di Cembalaro »

Per Calamaro D'Ambra registra come primo significato (prima dell'animale marino) «calamaio». Si capisce il perché.

Ora, è vero che Ambruso è un pescatore, e che questo calamaro è portato a galla dal vento (quindi stava in acqua), ma non potrebbe essere un calamaio? Calamaio e anello richiama il notaio, l'atto di matrimonio... Forse un matrimonio negato all'ultimo momento, e il protagonista ne rivede i simboli davanti al mare che scumma argiento, «spumeggia argenteo».

Forse è troppa libertà interpretativa?
Avatara utente
u merlu rucà
Moderatore «Dialetti»
Interventi: 1337
Iscritto in data: mar, 26 apr 2005 8:41

Intervento di u merlu rucà »

In effetti si parla prima di calamaro e poi di polpo. Un pescatore non confonderebbe mai un calamaro con un polpo. Certo chi ha scritto la cantata non è un pescatore.
Largu de farina e strentu de brenu.
ippogrifo
Interventi: 191
Iscritto in data: ven, 15 feb 2013 10:16

CORTESIA

Intervento di ippogrifo »

Cembalaro ha scritto:Caro ippogrifo,
può esserle sembrata una lezioncina presuntuosa: non voleva esserlo, mi creda. Pensavo però che stavo dando per risapute cose che magari non lo sono, in un contesto di persone colte sì, ma che potrebbero benissimo non aver presenti i contesti e i personaggi che attengono ad un capitolo della storia della musica. La fretta con cui ho scritto ha forse contribuito a dare al mio scritto un tono da professorino. In tal caso me ne scuso.

Mi scuso anche di aver ignorato la sua domanda sulle spille: ma ho riletto e non la trovo, né la ricordo. Può rifarmela? Risponderò con piacere.
Caro Cembalaro,
lei è persona molto cortese e, in particolare, non deve proprio scusarsi di nulla. Men che meno con me. Le assicuro che non c'era ironia nelle mie parole. Evito di adoperarla e, comunque, non ce ne sarebbe stato motivo. Preferisco - se è il caso - un confronto - anche diretto - , ma corretto. Se - a volte - può sembrare che io non valuti appieno come potrebbe essere interpretato dalle altre persone il tono dei miei messaggi, dipende soltanto dal poco tempo a disposizione o dal fatto che mi lascio prendere dall'interesse e dall'entusiasmo per l'argomento.

Approfitto - invece - per ringraziarla della gentile e interessante risposta al mio quesito.

Cordialmente
Cembalaro
Interventi: 94
Iscritto in data: sab, 02 nov 2013 14:46

Re: CORTESIA

Intervento di Cembalaro »

ippogrifo ha scritto:Approfitto - invece - per ringraziarla della gentile e interessante risposta al mio quesito.
Prego. Aggiungo che esiste un'altra Spingule: è eseguita dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare nel disco intitolato I sarracini adorano lu sole. Il lu nel titolo non è una mia svista. Dovrebbe essere lo, ma tant'è.
Non so da dove venga questa versione meno famosa, potrebbe anche non avere radici storiche ma scritta apposta da Roberto De Simone in uno stile più arcaizzante (come d'uso per la NCCP). Non ho trovato nulla in rete, in proposito; ma mia madre ha ancora tutti i dischi in vinile della nostra storia familiare, quindi nei prossimi giorni potrei aver modo di verificare sul libretto d'accompagnamento.

In questa seconda Spingule il richiamo del venditore non c'è. Si può ascoltare qui: http://www.youtube.com/watch?v=puXS5w4Z6zk

Metto qui un collegamento al testo: http://testicanzoni.mtv.it/testi-Nuova- ... e_12273842

In rete si trova dappertutto lo stesso testo, ma mi pare improbabile che già nel libretto d'accompagnamento del disco vi fossero tutti questi errori.
Detto che vavo è errore per vaco "vado", e che mbiso (o meglio mpiso) significa "delinquente", il testo dovrebbe essere facilmente comprensibile nonostante gli errori. Però, se serve una traduzione, ormai sono diventato esperto :D

PS ricordo di aver letto, non ricordo più dove, che il verso io non li benco a grano, manco a turnese si spiegherebbe con l'abitudine di usare i cereali come merce di scambio. Ste brache salate!, se mi consentite un'esclamazione cortesiana: donde verrebbero allora le espressioni come stare senza un grano, non avere grana e simili? Il grano era una moneta di rame, del valore di poco più di quattro centesimi secondo Raffaele D'Ambra (1873), e di un soldo secondo Ferdinando Galiani (1789). Galiani, che era un illustre economista, spiega poi anche l'origine del nome, che vi risparmio.
Avatara utente
u merlu rucà
Moderatore «Dialetti»
Interventi: 1337
Iscritto in data: mar, 26 apr 2005 8:41

Intervento di u merlu rucà »

Sull'origine popolare della canzone accà.
Largu de farina e strentu de brenu.
Cembalaro
Interventi: 94
Iscritto in data: sab, 02 nov 2013 14:46

Intervento di Cembalaro »

u merlu rucà ha scritto:Sull'origine popolare della canzone accà.
Grazie. Interessantissimo, non lo conoscevo. Ma quindi la versione registrata dalla nccp è un derivato di quella da lei indicata.
Avatara utente
u merlu rucà
Moderatore «Dialetti»
Interventi: 1337
Iscritto in data: mar, 26 apr 2005 8:41

Intervento di u merlu rucà »

Penso di sì, o, almeno, è probabile. Non sono un musicista o un musicologo, ma ho una certa praticaccia poiché ho raccolto in gioventù canti popolari della mia zona e, quindi, ho sempre sospettato che la Spingule famosa riprendesse qualche motivo popolare, perché, pur essendo "colta" riecheggia modalità popolari.
Nella cantata, Aniello mi ricorda la Pesca dell'Anello, canto popolare diffuso in tutta Italia, di cui conosco alcune varianti liguri, anche se sicuramente non ha nulla che fare.
Largu de farina e strentu de brenu.
Cembalaro
Interventi: 94
Iscritto in data: sab, 02 nov 2013 14:46

Intervento di Cembalaro »

Vorrei segnalare a ippogrifo che ha un messaggio privato. Non scrivo per sollecitare risposta: ma penso non l'abbia visto perché risulta ancora "non recapitato" nella mia casella.
Saluti
Smaralda
Interventi: 27
Iscritto in data: mar, 11 mar 2014 15:14

Intervento di Smaralda »

Gentile Cembalaro, sarei curiosa (e credo non solo io) di saperne di più. Potrebbe riportare il testo intero, e dare qualche informazione su epoca, autore, provenienza ecc.? Sarebbe anche più facile fare ipotesi sensate.
(O magari sono solo io che non ho capito di cosa si sta parlando? In tal caso mi scuso e domando lumi a chi potesse/volesse darmeli.) Grazie
Smaralda
Interventi: 27
Iscritto in data: mar, 11 mar 2014 15:14

Intervento di Smaralda »

Buongiorno, sono nuova di questo forum(chiedo scusa, ma “foro” non mi viene proprio…) e mi ha incuriosita questo intervento. Ho ricercato in rete testo, notizie e suggestioni. Premetto che non sono esperta in nessun ramo, ma da dilettante pratico da molto tempo musica popolare, rinascimentale e barocca, e mi interessa la linguistica.
Si dovrebbe parlare, mi par di capire, della "Cantata sopra l’arciacalascione"(Giuseppe Porsile – 1680-1750)
Mi sono fatta alcune idee: innanzitutto, che ci siano almeno due chiavi di lettura: una letterale e l’altra metaforica. Intravvedo diversi possibili riferimenti sessuali, in particolare nelle prime tre strofe(si sa bene che all’epoca la letteratura musicale pseudo-popolare traboccava di questi ammiccamenti maliziosi).
E visto che l’ortografia dei trascrittori è spesso zoppicante e non fa fede, mi domando se non si parli del” calamaro ‘e (Mas)Aniello”(di Masaniello) con probabile allusione al suo mestiere; o se l'uccello”cecato”non sia il richiamo da caccia,che canta più intensamente a causa della bella foretenella.
“Ahi, marenaro mio!”sarebbe un’esclamazione di auto compatimento usata come inciso.
L’uccello (alter ego di Ambruoso) si allontana dalla riva (e da “quell’ingrata”), e ricomincia a cantare.
La chiusura è la classica morale, in soldoni :state lontani dalle donne se no vi rovinate come ho fatto io.
Spero di non aver detto troppe stupidaggini; se avessi comunque stimolato qualche riflessione ne sarei contenta.
Con grande rispetto e cordialità
Cembalaro
Interventi: 94
Iscritto in data: sab, 02 nov 2013 14:46

Intervento di Cembalaro »

Mi scusi, Smaralda, solo ora ho letto i suoi interventi.
Sì, la cantata è quella, se ha ancora bisogno del testo integrale domattina lo scriverò. Nel frattempo rileggo con attenzione le sue ipotesi, di cui la ringrazio.
Cembalaro
Interventi: 94
Iscritto in data: sab, 02 nov 2013 14:46

Intervento di Cembalaro »

Ecco il testo completo con una traduzione (non bella, ne sono consapevole, ma non ho nemmeno l'ombra di doti di verseggiatore, così non ho provato nemmeno a migliorarla).

Sfogandose no juorno
co n’arcecalascione
Ambruso lo chiaiese,
accordato ch’avette lo cordone,
cossì strellando
a gualejà se mese.

«Schiaresce l’arba nsino dello maro,
e l’acqua ch’è salata scumma argiento.
Se ncrespa l’onda, e s’auza lo viento
che porta a galla a nuie no calamaro,
†lo calamaro e aniello.†
Chi vò lo purpo addoruso
e moscariello?

All’aria de lo maro e a la marina
me chiamma l’aucelluzzo nnamorato
che ncoppa canta a la rosamarina.
Porta lo core mmocca ch’è cecato.
†Aie ch’è cecato; e bella,
aie marenaro mio,
foretanella.Ƞ

E scomputo ch’avette chisto lotano,
a chella sgrata soia che le stea a canto
reprecaie chisto canto.

«Mannaggia Amore
e chi lo secota,
ca nce persecota
e fa arraggià.
Pe chesto sbaria,
vace pe l’aria,
st’affritto core,
senza piatà.»


Sfogandosi un giorno
con un arcicalascione
Ambruso il chiaiese,
accordato ch’ebbe il cordone,
così strillando
a lamentarsi si mise.

«Rischiara l’alba in seno al mare,
e l’acqua ch’è salata fa schiuma d’argento.
S’increspa l’onda, e s’alza il vento
che ci porta a galla un calamaro,
il calamaro e anello.
Chi vuole il polpo odoroso
e profumato?

Nell’aria del mare e sulla marina
mi chiama l’uccellino innamorato
che canta sopra il rosmarino.
Porta il cuore in bocca perché è cieco.
Oh, cieco; e bella
hai, marinaio mio,
una villanella.»

E terminato ch’ebbe questo lamento,
a quell’ingrata che le stava accanto
replicò questo canto.

«Mannaggia Amore
e chi lo insegue,
che ci perseguita
e ci adira.
Per questo vaneggia,
va per l’aria,
questo meschino,
senza pietà.»
Cembalaro
Interventi: 94
Iscritto in data: sab, 02 nov 2013 14:46

Intervento di Cembalaro »

Smaralda ha scritto: Si dovrebbe parlare, mi par di capire, della "Cantata sopra l’arciacalascione"(Giuseppe Porsile – 1680-1750)
Mi sono fatta alcune idee: innanzitutto, che ci siano almeno due chiavi di lettura: una letterale e l’altra metaforica. Intravvedo diversi possibili riferimenti sessuali, in particolare nelle prime tre strofe(si sa bene che all’epoca la letteratura musicale pseudo-popolare traboccava di questi ammiccamenti maliziosi).
E visto che l’ortografia dei trascrittori è spesso zoppicante e non fa fede, mi domando se non si parli del” calamaro ‘e (Mas)Aniello”(di Masaniello) con probabile allusione al suo mestiere; o se l'uccello”cecato”non sia il richiamo da caccia,che canta più intensamente a causa della bella foretenella.
“Ahi, marenaro mio!”sarebbe un’esclamazione di auto compatimento usata come inciso.
L’uccello (alter ego di Ambruoso) si allontana dalla riva (e da “quell’ingrata”), e ricomincia a cantare.
La chiusura è la classica morale, in soldoni :state lontani dalle donne se no vi rovinate come ho fatto io.
Le allusioni sessuali, effettivamente abbondantissime in altre cantate in napoletano, mi sembrano assenti in questa; l'unico candidato mi pare che possa essere il verso chi vò lo purpo addoruso?. Ma in ogni caso prima di valutare con serenità i possibili sottotesti vorrei avere una comprensione precisa del testo. In particolare, aniello è effettivamente scritto nel manoscritto con l'iniziale alta, Aniello (come anche Arcecalascione, però: quindi forse non è significativo). Ho pensato dapprima quindi che si trattasse di un nome; poiché però non c'è alcun Aniello nella cantata, sarà l'Aniello per antonomasia, cioè Masaniello. D'altra parte vi sono molte composizioni cantate, anche contemporanee di Porsile, che hanno ad oggetto i noti fatti del 1647 (tra cui almeno due Lamenti di Marinetta, la moglie di Masaniello).
L'ipotesi è dunque certamente verosimile, a patto di accettare la lettura lo calamaro 'e Aniello, lettura che viceversa è improbabile perché all'epoca l'aferesi delle preposizioni era davvero sconosciuta e tale sarebbe restata fino al secolo scorso. Ma il senso e l'aspetto linguistico dei versi discussi continuano a sfuggirmi. Ad esempio: i due aje / aie che cosa sono? verbo, interiezione?

Con l'occasione voglio anche confermare che l'ipotesi suggeritami da Ippogrifo qualche mese fa (aniello=agnello) è probabilmente giusta: ho trovato sufficienti conferme che ho recepito nelle note al testo (l'edizione è ancora inedita e la casa editrice non risponde, sicché inizio a disperare). Le riporto qua.

****
Aniello non è un personaggio, né un anello, bensì ainiello, cioè «agnello» (registrato in tutti i dizionari s.v. àino o ainiello). Non solo a Napoli ma in molte città si riteneva ancora fino a pochi decenni fa la carne superiore al pesce, e tra le carni quella dell’agnello era sinonimo di pietanza prelibata. Per sincerarsene basta leggere i tre grandi secentisti, che affidano al cibo spazio narrativo notevole ma che riservano ai pesci il ruolo di mero sostentamento alimentare e non di gratificazione gastronomica, contrariamente alla carne e ai vegetali.(10) Tra i possibili esempi si veda infatti Pompeo Sarnelli nella «ntroduzzione» alla Posilecheata:11

Chesto poco ’mporta, responnette Marchionno (ch’accossì se chiammava lo miedeco), non sapite vuje ca è cchiù goliuso lo pesce che la carne? Pe la quale cosa li Rommane de la maglia antica chiammavano l’huommene dellecate Ichthiophagi, cioè magna pisce.
Questo poco importa, rispose Marchionno (che così si chiamava il medico), non sapete voi che è più buono il pesce che la carne? perciò gli antichi Romani chiamavano ittiofagi gli uomini delicati, cioè mangia-pesce.

Qui il narrante va a trovare un amico facendogli una sorpresa; l’amico ne è felice e lo accoglie festoso, ma dopo un po’ si aggiunge – autoinvitatosi a pranzo ma non altrettanto gradito – un altro ospite, il medico. Il padrone di casa è ospitale, e si scusa col medico, perché non sapeva delle due visite e perciò per pranzo c’è solo pesce; sottintendendo che se fosse stato avvertito il pranzo avrebbe sicuramente compreso della carne. Ma non è un problema per l’ingordo, il quale non vuole rinunciare e risponde che in fondo a ben vedere il pesce è più pregiato della carne; e dalle scuse del padrone di casa come dalla replica dell’ospite è evidente che l’opinione comune associava alla carne una qualità superiore a quella del pesce. Sgruttendio, quarta corda, sonetto XXIII, ci dà inoltre l’occasione di ricordare l’espressione tuttora in uso mmità a carne e maccarune «invitare a carne e maccheroni», cioè invitare a qualcosa di pregiato, di certamente gradito (simile alla locuzione italiana invitare a nozze):

Sso panno russo e sso dobretto ianco
Che puorte, Sirvia, sò cose azzellente!
Dì: fuorze fosser uovo, o veramente
Sò carne e maccarune? Aimé ch’ allanco!

Quel panno rosso e quel bel tessuto bianco
che porti, Silvia, sono cose eccellenti!
Di’: sono forse uovo o piuttosto
sono carne e maccheroni? ahimé, muoio di fame!

Anche Basile III, 2, «La Penta mano-mozza» sembra avvalorare il maggior pregio riconosciuto alla carne:
voze sentire tutta sana la storia de le desgrazie c’aveva passato: da che lo frate, per l’essere negato lo pasto de carne, la voleva fare pasto de pisce, fi’ a chillo iuorno c’aveva puosto pede a lo regno suio.
volle sentire tutta intera la storia delle disgrazie che aveva passato: da quando il fratello, per essergli stato negato un pasto di carne, aveva voluto farne pasto di pesci, fino al giorno in cui aveva messo piede nel suo regno.


10 Cfr. Maria Panetta, «Note sulla funzione del cibo in Basile, Cortese, Sgruttendio», in La sapida eloquenza. Retorica del cibo e cibo retorico, a cura di Cristiano Spila, «Semestrale di studi (e testi) italiani», 12, Roma, Bulzoni, 2003.

11 Pompeo Sarnelli, La Posilecheata de Masillo Reppone, Napoli, presso Giuseppe Roselli, 1684.
Intervieni

Chi c’è in linea

Utenti presenti in questa sezione: Nessuno e 12 ospiti